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2012


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Dell’estetizzazione dell’Essere
di Jacop Valli

21 giugno 2012


      L’Infinito è propriamente ciò che non ha limiti, poiché finito è evidentemente sinonimo di limitato; non si può dunque, se non abusivamente, applicare tale termine ad altro che a ciò che non ha assolutamente alcun limite, vale a dire al Tutto universale, il quale include in sé tutte le possibilità, e che, pertanto, non può essere limitato da alcunché; così inteso l’Infinito è metafisicamente e logicamente necessario, poiché non solo non può implicare alcuna contraddizione, non racchiudendo in sé nulla di negativo, ma è al contrario la sua negazione che sarebbe contraddittoria.

      (René Guénon, Les Principes du Calcul infinitésimal)


      L’esposizione concreta della struttura originaria mostra infatti che la metafisica, come toerematicità o categoricità, appartiene alla struttura stessa dell’immediato. Il sapere metafisico non è, rispetto al fondamento, un’ulteriorità da conseguire, ma appartiene all’essenza stessa del fondamento; ossia non dà tregua, o non consente che ci si possa ritrarre su un piano d’appoggio, dal quale poi si abbia a partire per il viaggio metafisico. O qualcosa come «punto di partenza» sussiste certamente, ma come momento astratto della struttura originaria; sì che il viaggio è originariamente compiuto.

      (Emanuele Severino, La struttura originaria)


      Terra e cielo fluiscono e precipitano insieme in una visione nebulosa, tutta onde e lampi, in un barbaglìo dai colori indefiniti. Il caos incomincia, ogni ordine svanisce. L’uomo sconvolto cerca a fatica di serbarsi lucido; vi riesce. Poi continua fiducioso a camminare.

      (Robert Walser, Der Spaziergang)


      Contemporaneamente, io come sguardo che impara non un paesaggio, o più paesaggi, ma se stesso paesaggio. Sguardo-mare.

      (Elvio Fachinelli, La mente estatica)


Il 18 maggio dell’anno 1920 secondo il calendario gregoriano, Raymond Queneau ebbe a scrivere: «L’infini n’existe pas. L’univers est fini quoique illimité. Il n’y a pas de place pour Dieu». L’universo finito ed illimitato di cui parla il pensatore pare corrispondere al Tutto universale — un Tutto che non può essere dato, esaurito o esauribile, a rigore, dacché «include in sé tutte le possibilità, e che, pertanto, non può essere limitato da alcunché» — dell’Infinito di cui parla Guénon. Eppure, permane una problematica differenza linguistica, terminologica, alla base della scelta delle espressioni “finito benché illimitato” — formula che pare denunciare un’ossimorica esaurita inesauribilità, una compiuta incompiutezza, il rovesciamento dell’hegeliano Buon infinito, dove la sfera cui questo viene formalmente accostato potrebbe essere come il Dio che il Libro dei ventiquattro filosofi descrive come «una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo»; ed il disvelamento di quel che Blanchot, in un vecchio saggio sull’infinito in Borges e Michaux, considera il segreto del Cattivo infinito: quello del labirintico senso del divenire, del possibile — ed “Infinito”.

Diversamente problematico è anche l’uso da parte di Emanuele Severino di termini come “metafisica” e “fondamento”, nonché il ricorso alla dicotomia astratto/concreto. In particolare: perché tale biforcazione, pur funzionalmente comprensibile? Perché ancora il termine “metafisica”, se questa è ricompresa ed immanente alla struttura originaria e non si dà quindi meta-?

Il problema è dunque eminentemente linguistico, giacché il linguaggio stesso crea dualismo, necessariamente, e tuttavia, fa una gran differenza saperlo invece che esser da esso giocati inconsapevolmente, magari credendo d’esserne i dominatori (non a caso — mi pare — i mistici: o tacciono, o dicono per dire che non si può dire, pena la ricaduta nel dualismo).

La questione è eminentemente estetica: non insolitamente si teme che l’immanenza possa darsi come una chiusura limitante, esigente un Altrove, più o meno ideale, riscattante il possibile. Ma non è vero che l’immanenza chiude: chiude se consideriamo un Altro trascendente che le faccia da contrappunto dialettico, da sfondo e perimetro delimitante — non a caso la metafisica impedisce o ritarda la festa —, ma se eliminiamo questo Altro metafisico, l’immanenza si libera dalla sua formalità, dalla chiusura impostale e si produce come inesauribile molteplice perpetuamente trasformantesi ed attuale-virtuale: gli altrove, allora, sono qui ed ora e non esigono un Altrove che li sistemerebbe ed invaliderebbe nelle loro possibilità infinite. Un trascendente Altro si darebbe allora come approdo definente, come circuito: una volta in esso, sì che si sarebbe arginati e da esso giocati. È evidente che l’immanenza possa quindi intendersi comprensiva d’una trascendenza continuamente ricompresa in essa, che però è allora ancora immanenza, ma liberata dal giogo formale trasferitole dall’alto.

Cosa comporta l’idealità formale? Da dove e verso che, l’estetizzazione dell’Essere?

In «Metafisica della gioventù», saggio seguente l’edizione in lingua italiana del Diario di György Lukács, col supporto delle parole dello stesso filosofo ungherese, Massimo Cacciari afferma: «Nella forma va a picco il confuso regno della possibilità. [...] «la forma è la più forte realtà dell’esistenza», in essa l’opera si eleva oltre la vita empirica in una vita «quale dovrebbe essere» e trova qui la sua patria».

Per intanto, sarebbe forse opportuno sgomberare il termine “confuso” dal campo ristretto delle connotazioni negative; in seguito, sarebbe d’uopo demandarsi: «Cosa accade se forma è sostanza e se la vita empirica non è un basso grado della vita stessa? Cosa accade se la vita empirica si prende nella sua possibilità d’essere esperita nella molteplicità dello sguardo e degli sguardi, e, quindi, non del senso, ovvero, della forma comune, che rispetto agli oggetti, ad esempio, è data dai saperi su di essi costruiti per consuetudine, utilità e sempre arbitrariamente? Ancora: se forma è sostanza, che fine fanno le dicotomie interno/esterno, bello interiore/bello esteriore, superficie/profondità, eccetera? Quali conseguenze etiche, e, di lì, politiche si hanno a partire da una visione dualista che veda la forma come un grado più alto, ideale della vita « quale dovrebbe essere»? Secondo che senso, poi? E quindi, a monte: secondo che desiderio; ovvero, secondo che volontà estetica, formale? Quali precomprensioni estetiche prima che ontologiche si danno alla base del concetto di idealità e perfezione? In cosa consiste questa idealità e perfezione, se in qualcosa consiste? Quanto e cosa determina il linguaggio, e, per conseguenza, l’immaginale ad esso connesso, in ordine al concetto di forma e alla sua idealità? Cosa determina volgersi distruttivamente contro il linguaggio ed i suoi limiti — intesi anche in senso geometrico —, se esso stesso tende a darsi come forma?»

Ora: il problema originario potrebbe essere: «Come convivere o uscire dalla riduzione dell’ontologia ad estetica? Come eludere i nefasti della “romantizzazione del mondo”? Come aggirare l’estetizzazione dell’Essere riconducibile ad un senso ideale — ancora formale: ancora genuinamente estetico - della pretesa Verità, del preteso Senso del mondo?»

Ritengo che a tali questioni si possa tentar di rispondere ragionando d’ontologia, che considero intrattenente un rapporto di biunivoca rispondenza con l’estetica.

A permettere lo scarto originario producente differenza tra forma ed Essere, tensione all’idealità della forma, romantizzazione del mondo è il nichilismo ontologico, la “follia” dell’Occidentedi cui parla Emanuele Severino. Ogni ontologia della differenza (verticale), ogni dualismo, ha base nella fede? anche inconsapevole? nel Nulla ontologico, e produce la partizione di forma e sostanza, l’ingresso nella metafisica, ed una serie indefinita di funeste conseguenze: dal dominio della logica del dovere e dell’utile rispetto ad un qualche preteso Senso ed Ordine del mondo, ai nazismi, passando per l’antiestetico scarto del piacere, del godimento di ciò che è considerato superficie ed ornamento non necessario, in-utile (sic!). Non si tratta di uscire dal problema eludendolo attraverso una fallace risoluzione («Nessun problema può essere risolto [...]. I problemi sono per definizione senza soluzione. Nessun problema può essere risolto, e tutte le soluzioni conducono ad altri problemi », chioserebbe Burroughs), ma di radicalizzarlo in modo che faccia problema e non dia soluzione: non più estetizzazione dell’ontologia, dell’Essere, ma radicalizzazione dell’ontologia affinché l’Essere sia estetizzazione irriducibile, possibilità estetica senza fini, scopi, forme ideali: e — sia detto per necessario sconfinamento — questo non è Dada («Dada est tatou, tout est dada»)?

Rigorosa formulazione della riduzione dell’ontologia ad estetica è l’assimilazione dell’originario a traccia; meglio, a pittura. Ma se — come ho scritto — l’ontologia risente dell’estetica (e viceversa), anche a livello linguistico, e se pure assumiamo che l’Essere sia ridotto a pittura, penso anche:

• che il linguaggio sia innecessaria codificazione dipendente dalla datità materiale metalinguistica di ciò che attraverso di esso — che è anche noi, e che sta alla base del pensiero e nondimeno è prodotto da quest’ultimo, il quale è affare della mente, che è corpo/modo del ni-ente che noi è, che noi siamo — chiamiamo (ad esempio) “Essere” [che anche — anche — noi, ed il linguaggio stesso, è].

• che il linguaggio possa essere di diverso tipo: in scrittura, materialisticamente, e, per conseguenza, pittoricamente, il significato non si dà che per significante ed il significante è già anche significato nell’immediatezza della sua presenza e fisicità grafica/fonetica: ciò mi pare manifesto nelle arti calligrafiche, ma anche nei caratteri tipografici.

La scrittura è essa stessa Essere, e proprio nel grafema: questo può darsi in molteplici forme, sempre nuove (inoltre, anche due — che ne so — lettere — scritte a mano sono una sensibilmente diversa dall’altra, e lo sono anche se scritte a computer o a macchina, se pensiamo alla collocazione spaziale che possiamo dar loro sul foglio cartaceo o elettronico).

• che se ragionassimo attorno all’ontologia cercando di risolvere l’Essere in una forma bella di qualche tipo, ma che sempre forma fosse, ancorché non fossimo inclini all’ideale in modo confesso, ricadremmo tosto nel dualismo e nel formalismo ideale, con conseguenze nefaste, almeno potenziali (estetizzazione dell’Essere).

• che se l’estetica si riverbera sulla codificazione e l’espressione della questione ontologica senza costituirsi come fondativa della ed irrigimentante la stessa, ci troviamo invece in una condizione che mi pare non dissimile a quella dei sistemi mistico-sapienziali dicenti le stesse cose, esotericamente, seppur attraverso terminologie ed immagini differenti: Il linguaggio è sim-bolico ed il simbolo connette ad una rappresentazione, ad una forma dia-bolica rispetto all’ingovernabile molteplice immanente: lo sforzo è allora di guardare alla radice del linguaggio, smontandolo nelle sue parti fisiche, e, in seguito, di usare il simbolico contro il simbolico, ovvero cercando di utilizzare o produrre simboli che simboleggino il non rappresentabile ed il molteplice inesauribile. Certo, persiste il problema del simbolo in sé, del suo aspetto grafico, pur nelle varianti che possono darsi: ma mi par essere già una mossa verso lo scardinamento della tirannia della significanza che sta alla base dell’idealità della forma e dell’estetizzazione dell’Essere.

In prospettiva monista e materialista, si ottiene che l’Essere non possa essere estetizzato, se non per volontà e rappresentazione; ovvero, che non possa essere ridotto a forma ideale, ché se tutto è Essere, se forma è sostanza, l’Essere non è un tutto dato, esaurito o esauribile, ed anche solo dire: «Essere» è creare dualismo.

Si tratterà allora:

• di tacere, o dire con questa coscienza; con la consapevolezza che dire significa rientrare nella dia-bolicità del dio linguaggio.

• Se necessario (semmai fosse possibile...), produrre ed usare simboli che simboleggino l’Essere come non definibile, irrappresentabile, non asservibile a forme ideali.

• Aggirare la significanza e la comunicabilità forzate, anche in forme non scrittorie e squisitamente visuali, come la musica.

• Essere come estetizzazione: la prospettiva di un Essere come Tutto che non possa essere un tutto dato, come inesauribile molteplice sempre attuale e virtuale assieme reca con sé la prospettiva di una vita estetica dove ogni cosa può essere vista secondo innumerevoli sguardi, dove non ci sono forme ideali, vere, giuste e reali più reali di altri; dove vengono meno le dicotomie superficie/profondità, interno/esterno [...], ed il piacere, il dettaglio, l’ornamento e la creatività tornano alla loro nobiltà; dove l’Essere è eterna mutazione – «Solo il cambiamento è eterno, perpetuo, immortale», per dirla con Schopenhauer – anche indipendentemente dall’esistenza degli umani; dove non può essere data la forma ideale “Uomo”, riportante necessariamente a certi parametri estetici (ché anche la morale procede da un senso, e questo muove da una volontà desiderante a base estetica); dove gli uomini, che tanto più possono essere quanto meno è l’Uomo, sempre in prospettiva monista, non sono esclusi dal resto della Natura-Essere, ma che sono per natura culturali: ciò debella ogni pretesa ideale circa la Natura, che non esiste (sic!), se non come idea arbitraria di Natura; ciò permette ed amplifica ancora una volta le possibilità estetiche e creative in modo interminabile (pensiamo banalmente al lavoro sul corpo condotto da Hans Bellmer).

L’esistenza estetica concerne la firma, il gusto, lo stile, ovvero, il tratto individuale: essa è perciò anche arma contro le forze estetico-volontaristiche tendenti pervicacemente ancorché illusoriamente alla costruzione, imposizione e conservazione di forme fisse, chiuse, ideali: «Se l’arte insegna qualcosa (in primo luogo all’artista stesso), è proprio la dimensione privata della condizione umana [...]. Ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell’uomo. Giacché l’estetica è la madre dell’etica [...]. La scelta estetica è una faccenda strettamente individuale, e l’esperienza estetica è sempre un’esperienza privata. Ogni nuova realtà estetica rende ancor più privata l’esperienza individuale; e questo tipo di privatezza, che assume a volte la forma del gusto (letterario o d’altro genere), può già di per sé costituire, se non una garanzia, almeno un mezzo di difesa contro l’asservimento» (Iosif Brodskij).

Intendendo l’arte come esistenza — e mi sovviene il neo-dadaismo Fluxus — preferisco cianciare non d’arte rivoluzionaria – come fecero taluni –, ché sarebbe un controsenso ancora riconducibile all’idealità, al progetto ordinante, alla potenziale conservazione post-sostitutiva della forma ideale un tempo pretesa: ma di arte rivoltosa; arte come rivolta, rilevando il carattere integralmente, ontologicamente estetico-politico (non in senso moderno o arcaico-moderno: si rientrerebbe nel dominio dell’idealità della forma, nell’estetizzazione dell’ontologia), per ragioni riferibili al monismo radicale e alla prospettiva tragica.

L’estetica è più forte della metafisica e della politica: per questo l’arte è pericolosa; per tale ragione, «l’arte in generale, la letteratura in special modo e la poesia in particolare non sono propriamente apprezzate dai paladini del bene comune, dai padroni delle masse, dagli araldi della necessità storica» (Iosif Brodskij). Essa è pericolosa per la forma, perché la disfa; per il Potere, perché lo sovverte; per il pensiero, perché lo rende tracotante: forse, è per questo che il Platone de La Repubblica voleva liberarsi dei poeti, così: «Se un tale uomo viene da noi per mostrarci la sua arte, ci metteremo in ginocchio davanti a lui, come davanti a un essere raro e santo e dilettevole (...). L’ungeremo con la mirra e gli porremo un serto di lana sulla testa, e lo manderemo via, in un’altra città».

L’arte è pericolosa ed operare con ciò che è pericoloso è affascinante, e pericoloso.

Secondo Schopenhauer, la filosofia è un arte: se il moderno e l’arcaico-moderno (antimoderno) sono segnati dalla passione per la forma quale realtà ideale rispecchiante ed istruente la vita « quale dovrebbe essere» (György Lukács), se «il Postmodernismo è incredulità nei confronti delle metanarrazioni» (Jean-François Lyotard), allora esso riguarda il dissolvimento dell’Altro metafisico trascendente invalidante la festa, definente il reale, amputante il molteplice, il possibile che l’Essere è. Esso non è né può quindi essere un sistema, ma una strategia estetico/etica, e, di lì, politica, immanente, sempre critica, ovvero, distruggente e trasformativa, e, pertanto, affine ad ogni esperienza squisitamente individuale, estetica; in definitiva, a ciò che ho indicato attraverso l’espressione Essere come estetizzazione a fronte dell’Estetizzazione dell’Essere.

Non esiste un ambito di pertinenza dell’estetica: essa sta alla base di tutto l’agire umano, ma per restituirla a sé occorre distruggere ogni dualismo, l’idealità.

L’estetica è coincidente con la Struttura originaria — come tutto —, ma non è necessaria come necessario è invece il fatto che la Struttura originaria, che tautologicamente è anche l’estetica, sia. E lo stesso è dell’arte: essa è Essere ed attiene al regno della trasformazione formale: raccomodando una frase di Malraux riguardante l’Uomo, si potrebbe dire che l’arte è la strada più breve dall’Essere all’Essere (se l’arte è morta — qualora lo fosse come fulgide intelligenze ebbero a reclamare — è perché non esiste: se essa è, è nel vedere — che è già anche un fare coincidente con l’Essere —, nella varietà dello sguardo, nella visione attiva, immaginale. E questa non si arresta di certo a dati settori, poiché ogni atto è germinalmente estetico, e, pertanto, anche la filosofia [...], la tecnica e le tecnologie possono essere arte: almeno la loro parte inutile, non asservita allo scopo tecnico (la bellezza di un coltello non è meno importante della sua efficienza di taglio: se il mio scopo è di tagliare entrecôtes di cervo al miele d’erica, il coltello sarà utile a tale fine, allo scopo di tagliare la carne ch’io desidero, nei confronti della quale sono mosso da in-utile sentire estetico).

Non si può ridurre l’Essere all’univocità d’un segno arbitrario, giacché “esso”, ovvero, “noi” è trasformazione eternale, potenza infinita del molteplice tumultuoso, insieme di tutti i segni e di tutta l’arte plasmata, ricordata ed immaginata. Inoltre, concentrare l’Essere in un segno che possa dirsi «arbitrario, misterioso, segreto (senza segreto), come un punto vivo che affermi l’energica vita del pensiero ridotta all’unità di questo punto [genera] una specie di coerenza intensa, in rapporto alla quale la vita di tutti i giorni (quella che si accontenta del sistema quotidiano dei segni) diviene, tanto all’interno quanto all’esterno, il luogo di un’incoerenza insopportabile» (Maurice Blanchot), ed altresì implicitamente conferma e determina:

• L’Essere come una cosa, come un tutto dato e definito, determinato, quantificabile e numerabile e formale.

• A monte, la fede nel Nulla ontologico.

• La costrizione dell’arte e dell’esperienza estetica tutta – privata – in un dover-essere esalante da una forma ideale riferibile all’equazione segno/forma = Essere.

«La bellezza non ha in sé alcun fine: è per questo che costituisce l’unica finalità», scrive Simone Weil; essa non ha alcun dio al di fuori di Sé, ed è massimamente importante, ché gli uomini sono esseri primariamente estetici, e se l’utile pronuncia l’ultima esiziale parola è perché è necessario all’inutile, ch’è ciò che fa la differenza nelle vite individuali, in qualità; in intensità. Allorché gli uomini non ci saranno più, sarà forse la fine dell’estetica, e sarà anche come non fosse mai stata.

Ma:

• La coscienza — coscienza sacrificale nei termini di un sacrificio senza oggetto, fine e destinatario: di un sacrificio come consapevolezza performativa dell’atto, di ogni possibile atto — di ciò è già consolatoria in senso — come dire — stoico.

• La coscienza di ciò colloca — ripeto — in una dimensione sacrificale per cui si è ad un tempo naufraghi e spettatori del proprio naufragio: non è questo lo stesso vivere estetico/etico, dove persino la morte, col terrore che la riveste, può essere entro certi termini finanche goduta; dove ogni cosa è infine vuota, per dirla con lo Zen, ma anche — sia detto per amor di complessificante connettività —, néanmoins, con Dada?

Infine: ammettere la possibilità effettiva che un Altro metafisico o il suo oggetto potessero darsi come fatti si costituirebbe quale retrocessione al kantismo; ovvero, al dualismo.

Agnostici, credenti, fedeli, “atei pratici”, ideologi, storicisti, politicanti e spiritisti new age sono tutti atei in diverse declinazioni e con atteggiamenti differenti; nondimeno, lo sono spuriamente, giacché moventi dalla fede nel Nulla ontologico, dio supplente; ciononostante, essi, i loro atteggiamenti privati, i loro gusti e desideri, le loro fedi o credenze, i loro dubbi, le loro parole dette e scritte, i loro atti sono coincidenti con la struttura originaria; ma le precomprensioni ontologiche nelle e dalle quali prendono le mosse, consapevolmente o meno, e l’oggetto delle loro fedi o credenze non possono darsi come realtà di fatto autosussistenti, come forme ideali, compimenti ultimi, verità particolari e determinate, come Altri metafisici. Ammettere tutto non significa ammettere la possibilità che si dia come fatto l’Altro che asservirebbe il Tutto-non-tutto ch’è l’immanenza inesauribile e sconfinata — letteralmente — che s’è: ammetterne la possibilità di fatto è di certo possibile come convinzione o fede: come desiderio, ovvero, come tensione estetica, adunque, inizialmente; ma lo è partendo da un fallo originario prodotto specialmente attraverso il linguaggio e le immagini ad esso continuativamente afferibili. Ammetterne la possibilità di fatto è tornare al kantismo — almeno — e al dualismo. In ultimo: rinunciare alla festa, svigorire il molteplice, offuscare lo sguardo e gli sguardi, soffocare la bellezza possibile, debilitare la propria ontologicamente inalienabile individualità molteplice, caleidoscopica.



Hans Bellmer, Der gesunde Menschenverstand (Le bon sens), 1964



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