La mia droga era il Sogno. Vi entravo e vi riuscivo con accelerata facilità.
Ogni notte abbandonavo il mio corpo fisico e precipitavo in iperuranici abissi: ripidi, atavici, ancestrali.
Avevo da poco finito la colazione quando all’improvviso sentii uno strano cinguettio provenire dalla finestra, mi venne subito in mente un aforisma di Sgalambro: «è l’usignolo che non sa cantare non il rocker». Infastidito da quel sordo brusio mi precipitai verso la finestra e la chiusi sbattendola.
Me ne tornai a letto.
Sprofondai subito dentro il silenzio, rotolai giù a capofitto nel precipizio.
…C’era un gran caos nella mia stanza, tutto stava lì a ribadire il perché, il motivo per il quale eravamo là e ci affrettavamo a preparare ogni cosa. Io e mio figlio eravamo piuttosto indaffarati. Non so come mai ma quel giorno, in casa mia, si scatenò il putiferio. «Noumeno attento a non toccare i cristalli! Ci ho messo un’ora per energizzarli a dovere». Quel disgraziato fa sempre i danni, è proprio nella sua natura mettere zizzania nel mondo materiale, pensai.
Passammo ore e ore a rimettere in ordine la mia stanza, la quale, dopo i vari ritocchi, non sembrava più nemmeno la stessa, assomigliava molto alla camera dei miei nonni ad Osimo, molto spaziosa, con la finestra che dava sul cortile e sulla bottega dove il nonno durante il giorno lavorava.
In ogni modo, veniamo al dunque: c’era Gioacchino da Fiore che stava facendo la doccia o per lo meno stava tentando di farla, infatti il braccio, ossia l’attrezzo da cui esce l’acqua attaccato al tubo, non voleva saperne di restare attaccato all’apposito fermo.
Il mistico però la stava rimettendo a posto, stava fissando la doccia con una spilla a balia, non era così facile ma il Gioa era bravo e non solo con le docce. Voleva risvegliare la Kundalini ma prima, diceva, voleva assolutamente farsi una doccia.
Poi c’era Julio Bressane, il regista brasiliano, che ogni cinque minuti mi chiedeva se era pronto il go-kart.
Oltre a loro, appariva e scompariva Pomponazzi: mi girava sempre intorno senza che io riuscissi minimamente a capirne il motivo.
C’erano poi anche i Rosa Croce: si nascondevano continuamente dentro l’armadio mentre seguitavano a dare la caccia agli gnomi.
Julio era scuro in volto, era brasiliano, era un po’ più scuro di me, abbronzato direi ma fin dalla nascita in somma, aveva i capelli bianchi, un po’ lunghi, lisci e spettinati, era robusto, alto e sempre scuro in volto, cioè tra il rosso e il marrone, tipo un indiano ma non troppo rovinato dal sole, un brasiliano tipico in sostanza. O forse non saprei.
Egli arrivava da lontano e già in lontananza mi chiedeva dei go-kart quando Pomponazzi stava continuando ancora a girarmi intorno sfregandosi le mani nervosamente. Il filosofo camminava e si ingobbiva, si mordicchiava le labbra, alzando sovente lo sguardo al cielo per poi riportarlo giù repentinamente, quasi in picchiata, strattonandosi i pensieri avviluppati alla realtà. O alle nuvole di essa.
Pensava e ripensava, ma non né usciva, si girellava intorno e, ogni tanto, mi confidava di voler diventare un frontespizio, uno qualsiasi: sembrava Gargamella, quello dei puffi, proprio lui.
Nel frattempo la gente arrivava e andava nel più sconclusionato andirivieni che si possa immaginare.
Alla fine accontentai Julio dandogli le chiavi. Egli mise in moto e strillando a più non posso e ridendo furioso con un ineluttabile sguardo da pazzo, cominciò a girare insieme ad un altro losco figuro che si spacciava per il marito della Blavatsky. Quest’ ultimo, ogni volta che mi sfrecciava davanti, mi investiva col suo sguardo alieno urlando a squarciagola i nomi dei sette chakra, uno dietro l’altro, mangiandosi le parole: una gara al cardiopalmo. Ad un certo punto apparve Angela da Foligno che strappandosi di dosso le vesti, con pezzi di carni e pesci appesi al collo continuava ad urlare: «è questa la vilissima femmina, sentina di mali e falsità e seminatrice di ogni vizio e di ogni malvagità?».
Signorina ora non abbiamo tempo per le questioni di cuore, le sussurrò all’orecchio Swedenborg con il fare più elegante ed astratto che si possa immaginare lo svedese comparve in quell’istante per poi sparire in quello seguente. Angela da Foligno non se ne curò minimamente e riprese a sbraitare con le carni e i pesci al collo.
Nella stanza ovviamente aumentò il rumore nonché il nervosismo del Gioa, il quale, sebbene fosse bravo, non era ancora riuscito a sistemare la faccenda del braccio doccia mentre il tempo passava sempre più veloce e con esso Julio che sfrecciava contento. Il suo sguardo marrone restava fisso e serio mentre assecondava il suo istinto ad evadere.
Ognuno assecondava i propri istinti: chi quello al cercare, chi quello al trovare, io invece non assecondavo nulla, in quanto era la stanza stessa che assecondava già tutto me stesso, tutto il mio partecipare. Ne ero parte pur trascendendola, avevo con essa un rapporto panteistico, la condividevo e la penetravo attraverso spilli che come attimi tantrici si infilzavano nella coscienza.
Ad un tratto ebbi un attimo di lucidità e mi apparvero in fila vari corollari apodittici del Maestro, tutti in fila sull’attenti, uno dietro l’altro: i giorni di digiuno e di silenzio, i cori nelle messe tipo Amanda Lear, i Mantra e gli HareHare a mille lire, l’Esoterismo di René Guénon, la Signora che vende i corpi astrali, i Budda sopra i comodini, la frase del Vangelo, l’imbianchino, Le Corbusier, gli incensi di Dior e i peli del Papa, tutto si dipanò nel mio cielo mentale nella più orizzontale delle cascate noetiche. Meccanicisticamente, come fossero a una parata nazista (o comunista), si allinearono nella piazza delle mie rivoluzioni mentali arditi soldatini che reclamavano oggettività empirica sbrodolandomela addosso di proposito, erano le scelte radicali. «La morte consapevole che si auto impose Socrate, la scomparsa misteriosa e unica di Majorana, la vita cinica ed interessante di Landolfi, opposto ma vicino a un monaco birmano o la misantropia celeste in Benedetti Michelangeli».
Uno strattone materiale mi riportò all’al di qua: Gioacchino aveva l’affanno, era increspato, visibilmente irritato, grondava di sudore, gli si inceppava il respiro, non riusciva a parlare, barbettava, passegginava su se stesso. Ad un certo punto, metafisicamente influenzato dalla mia energia psichica, clamorosamente, fu investito anch’egli dalla più radicale delle scelte: si liberò del braccio doccia e lo scaraventò fuori dalla finestra urlando disumanamente le più spaventose bestemmie.
Termosifone, l’altro mio figlio quello invisibile lo guardava attonito, come un bambino disegnato a tratti schematici, tipo Charlie Brown.
Il mistico era uscito di sé. Per di più era invidioso di Pomponazzi e provava un forte risentimento nei suoi confronti. «Ma chissà perché» continuavo a ripetermi, «questi filosofi litigano sempre fra loro, non trovano mai pace, sempre a spettegolare l’uno dell’altro, sempre a snervarsi a vicenda, ma quando la finiranno…», pensavo tra me e me allontanandomi dal Gioa, il quale, in ginocchio, seguitava a parlare da solo col soffitto. O col pavimento.
«Se quasi tutti i mistici ebbero delle controversie con la Chiesa, è perché avevano troppo talento!», gridò Cioran dalla cucina dove si stava preparando un piatto di riso.
«Noumeno dai una mano al mistico!» urlai a mio figlio vedendo il Gioa in seria difficoltà. «Non ora, ho da fare, esco un attimo, ci vediamo dopo». Ma dove diavolo andrà a quest’ora, pensai. «Il tempo non esiste, non c’è legame tra esso e l’esistenza», rispose mio figlio leggendomi nel pensiero.
Ma è mai possibile che qualsiasi cosa dica o faccia Noumeno, ha il potere di spiazzarmi? Questo interrogativo continuò a martellarmi ad intermittenza per tutta la giornata, quando finalmente alla fine di essa, quel treno di mio figlio tornò a casa con queste parole: «Sono uscito, non ce la facevo più a rimanere lì dentro con tutta quella gente, sai benissimo quanto ami la solitudine e gli spazi aperti.
Riguardo a me, al tempo e a tutto ciò che ancora non capisci, ti do un consiglio: indaga sul vero significato della magia e sulla manipolazione delle Leggi di Natura. L’arte di orchestrare la realtà secondo la propria fantasia è l’arte più nobile a cui un essere umano possa aspirare; il suo campo d’azione infatti non è la tela, il marmo o il pianoforte ma il reale stesso, compreso il tuo essere. Essa racchiude in sé il vero senso dell’esistenza e se riuscirai a diventare un Mago, vorrà dire che niente a te è più precluso. Ricorda però che il potere arriva solo tramite il coraggio, la volontà e la purificazione interiore: trasmuta te stesso e il mondo esterno sarà parimenti trasmutato. Solo allora comprenderai come funziona veramente questa realtà e solo allora giungerai al Risveglio».
Noumeno, come al solito, mi gettò nel dubbio, mi scaraventò nei meandri del suo stesso purgatorio, dove demiurghi funesti scolpiscono i perché, li attivano e li scagliano contro il reale con incantesimi impervi.
Lì rimasi,
li divenni.
El Greco, Ragazzo che accende una candela, scimmia e uomo, 1587