Kasparhauser
2012
Philosophical culture quarterly
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Chaosmografie ■ III. Escatologia
di Jacopo Valli
Note a margine della Fine
The end crowns all (William Shakespeare)
In girum imus nocte et consumimur igni
La fine del mondo è, eventualmente, eminentemente la fine del mio mondo non idealisticamte inteso , che sono [ontologicamente, essa è sempre la mia stessa fine; eppure, per batailliano Principio di insufficienza, tale fine, che nullificazione non è (la fine è senza fine; l’Apocalisse è senza Apocalisse: così è in Derrida; e apocalittico, disvelatorio è forse questo esatto paradosso cesorio e affrancante), è sempre modalmente parziale; ed è solo per mere ragioni di [almeno provvisoria] dipendenza fisiologica, organica, che la fine del mondo ora inteso non come insieme degli enti ma come terrestre pianeta decreta la mia stessa fine (così non sarebbe se potessi vivere su Plutone, che pure ontologicamente, extramodalmente, sono).
La fine accomuna e non risolve in comunione: sebbene la mia fine sia già da sempre, monisticamente, anche la fine dell’altro, essa è tale in riferimento a me, modale monade deleuziana non facente parte di o contenente un mondo, ma coincidente col mondo, che È (Ni-ente) senza essere Cosa (cosicché pure defunge qualsivoglia costituzione volontaristico-rappresentativa conservatrice, attuale o potenziale, mondana o exotericamente giovannea).
Per farla finita col Cristo più famoso: già da sempre, «Io sono la via, la verità e la vita». Ma la verità e la vita che sono, sono, È e non è Cosa ma Ni-ente, 0 = n ; cosicché io sono indivisibilmente Α e Ω. E sono Padre e Figlio, senza essere Padre o Figlio; senza avere Padre o Figlio. E sono la mia Immacolata Concezione. E sono mia Madre senza figli e suo figlio senza madre. E sono la mia Signora. E la via è senza via. E nessuno giunge al Padre attraverso di me, ché non v’è Padre, che già da sempre sono senz’esserlo, da raggiungere: e per ognuno ed ogni cosa è lo stesso: Altro non c’è [pourparler: in barba pure ai recuperi teleologici d’un Teilhard de Chardin].
Sono:
Carne solare: già anche lunare. Ra che è Horus al suo stesso orizzonte. E pur aureo [ardente] albeggiare. Sonoro silenzio d’Arpocrate cageano 4’:33’’.
Ra-Hoor-Khuit e [è] Hoor-Paar-Kraat ≡ Heru-Ra-Ha.
Diderot rammenta che «noi siamo noi, sempre noi, e mai gli stessi neanche per un minuto». Necessario, ma insufficiente: siam sempre noi anche ad essere gli altri noi: così al di là del Principio di Non Contraddizione; nonché psicofisiologicamente (di nuovo ontologicamente, quindi), in accordo con Rimbaud non meno che con Montaigne, col cripto-risentito Schopenhauer non meno che con Nietzsche, col Matisse ritrattista non meno che con mistici [speculativi] come Ma gCig, Huxley, Burroughs, o con Jarry, o con Duchamp/Rrose Sélavy. E siam sempre noi anche in riferimento al pensiero che abbiamo degli altri e delle altre cose; pensiero che è affare materiale del corpo che siamo e che pertanto coincide extramodalmente coi corpi altrui (e finanche col loro pensare emergente) e colle altre cose senza il polemico confronto con le quali necessaria scissione fizionale nemmen potrebbe darsi, né giungere a comprensione di sé, del corpo, dell’Essere, finalmente: non-dualisticamente (rammenta Caterina Valdrè che, a differenza dei devoti e degli asceti ancora in lotta col mondo, «coloro che hanno la conoscenza, i perfetti, nel loro distacco totale ricuperano anche tutte le creature [-] e gli stessi elogi che ne vengono». Ma le creature sono invero increate; ed il distacco è non solo finale dia-bolicamente riconnettivo distacco anche dal distacco medesimo: esso è quindi distaccamento da ciò che divide da Sé costringendo in una rappresentazione sim-bolica, ossia dia-bolica esattamente rispetto a Sé: essenza della Religione almeno exotericamente/post-filosoficamente intesa è questo, anche nelle parole di Agamben: «Ogni separazione conserva in sé un nucleo genuinamente religioso».
Nondimeno ed affinemente: se Sacro è l’irrimediabilmente separato/separante e Santo colui che è separato, la separazione dell’Empio da ciò che separa non si dà come santità per empietà, e forse pure per più radicale santità, se santo è comunemente colui che in ultimo permane, seppur solitario, proteso verso l’Altro sacro dia-bolico divisore sim-bolico?
Antidialetticamente: il Profano è tale rispetto al sacro, nonché sacro rispetto al sacro visto dalla di esso [ora profana] immanenza; nondimeno, il sim-bolico è formalisticamente dia-bolico rispetto al potenziale molteplice immanente non scisso dalla duale dicotomia forma/sostanza procedente dal Nichilismo ontologico; il dia-bolico, già anche sim-bolico nei riguardi di tale monistica immanenza).
«La métaphysique, que l’on peut considérer comme le règne de l’amour du fini, asservit l’exercice de la pensée»
(Jean-Michel Le Lannou)
«La structure de la pensée est [...] determinée par la structure de l’être qu’elle révèle»
(Alexandre Kojève)
Preoccuparsi per la fine è primariamente occuparsi della fine, e della propria fine [qui: escatologia, ontologia, cosmologia e teleologia convergono].
La fine del mondo (ancora: della Terra) decide la fine d’ogni individuo che abbia bisogno di essa per produrre attivamente la propria esistenza, il proprio vivere/morire.
Dire: «Se finisce il mondo, meglio: crepiamo tutti assieme!», è affermare miope codardia non denunciante il naturalmente costitutivo egoismo sotteso a simili dichiarazioni esalanti miasma d’arrogante autolimitazione umanistica e d’ignoranza speculativa circa il fatto che non sia sentimentalmente esperibile il post-mortem; che il sentire (individuale) sia continuo ed indiviso dacché afferibile al corpo che s’è, malgrado le cartesiane dipartizioni debitrici del pensiero platonico; che, con Blanchot, il pensiero del dolore altrui non sia di consolazione, ché ognuno soffre per sé (solitariamente).
Inoltre: non si danno sentimenti al di fuor del linguaggio, ed il sentimentale patisce il societario, mentre il sentire è indefinito e mascherato e tanto più denso e complesso (anche fisicamente: questo è ciò che, accordatamente al pur residualmente ametrope pensiero adorniano, intendo per spirituale; ossia, nulla di spiritualista, spiritista, variamente dualista e recuperante carnalità in Altrove ideali, magari con la scusa della mortificazione, sovente inelegante: il mistico rinunciante ed il dionisiaco non differiscono che proceduralmente: si tratta di due modalità del consumo, del consumarsi; dell’ascesi, quindi; ovvero, dell’esercizio, dell’esercitarsi. Secondo Bataille, all’Estasi, ch’è senza Oggetto, non si accede che «dans la perspective de la mort, de ce qui nous détruit»: è l’How to destroy angels di John Balance; dove anche la Terra che pure s’è è un Angelo, richiamando il Corbin rievocante l’Avestā ciò sia detto ammentando ch’ogni atto sia mosso da desiderio, ossia, da intima tensione estetica: tanto il piacer confesso, quanto quello inconfessato e travestito da mortificazione, o addirittura da umiltà modesta e identificabile con l’umiliazione pur scansata da una Weil) quanto meno è castrato dalla tipizzazione linguistica e dalle sue consecuzioni immaginarie ed immaginali (e quest’ultime non posson essere innocue, ancora accordandoci a Corbin) e, di lì, estetico/etiche.
Scrive Freud in Jenseits des Lustprinzips: «Per Hartmann la morte non è caratterizzata dalla comparsa di un “cadavere” (di una sostanza vivente morta), egli la definisce invece come la “conclusione dello sviluppo individuale”. In questo senso anche i protozoi sono mortali».
Ora, questo processo non avviene nel Nulla e dal Nulla, verso il Nulla: per poter produrre la propria esistenza, ovvero, per poter morire, ci si serve del mondo, ancorché monisticamente con esso concidendo. Ancora: s’è il proprio usarsi e consumarsi.
Performativamente, tale condizione non ha riguardo dell’individuo mistico: egli perde il mondo e rinuncia ad essere di questo o d’altri mondi (per perdersi senza riscatto e recapito), accede alla dimensione estatica (alla coscienza attiva di quel formale/sostanziale Ni-ente eternalmente transeunte che è) attraverso la trasformativa distruzione; per mezzo del consumo di Sé, del fuoco di Kālī, che è Śiva e gli altri dèi ch’egli pur è, se, con Dion Fortune, «all gods are one God» (consumo somatico anche nell’accedere al pensiero del mondo attraverso il mondo medesimo, se, con Merleau-Ponty, «la pensée [...] n’existe pas hors du monde»; se, con Castoriadis, «une fois que la psyché a subi la rupture de son “état” monadique, que lui imposent l’”objet”, l’autre et le corps propre, elle est à jamais excentrée par rapport à elle-même, orientée par ce qu’elle n’est plus, qui n’est plus et qui ne peut plus être. La psyché est son propre objet perdu... Cette perte de soi, cette scission par rapport à soi, est le premier travail imposé à la psyché du fait de son inclusion dans le monde». Questo rapporto di sé con sé entro il Sé che s’è è ancora rapportabile al sopraccennato Principio di insufficienza).
Tragicamente, con [benché complessificante e monisticamente inseparata e pulsativamente aiònica] anassimandrica in-giustizia, nell’eterno, magmatico Zero infinito che s’è:
[anche foucaultianamente]
«The price of existence is eternal warfare»
(Aleister Crowley)
Effettivamente, la mia fine, la fine del mondo e la fine senza fine coincidono. In Abraxás: da Abraxás, ad Abraxás.
Abrahadabra.
Geometric Horsehair, Bhairava/i, 2013
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