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Andrej Tarkovskij: Il tempo scolpito e l’eredità perduta | Kasparhauser 15
A cura di Guidfo Cavalli e Lorenzo Lasagna




Solaris di Andrej Tarkovskij. Un approccio teoretico
di Lorenzo Lasagna

Luglio 2017


In memoriam A.T.
29 Dicembre 1986 – 29 Dicembre 2016



PREMESSA

Il presente articolo è lo sviluppo di alcune brevi note scritte ormai quasi venticinque anni fa, per raccogliere le idee che la visione del film Solaris di Andrej Tarkovskij aveva suscitato in me, a quel tempo giovane studente di filosofia. Nel trentesimo anniversario della morte di Tarkovskij, complice anche il ritrovamento dei vecchi appunti in occasione di un recente trasloco, sono tornato a riflettere su di esse, e ho deciso di dare loro una forma compiuta.

Va detto che nella mia personale educazione al linguaggio cinematografico, l’incontro con l’opera di Tarkovskij ha lasciato tracce durature, e creato canoni, per non dire regole, dal valore pressoché definitivo. Il suo terzo lungometraggio, in particolare, occupa ancora oggi nel mio immaginario un posto del tutto peculiare e privilegiato.

Nonostante la cattiva opinione che l’autore aveva del suo film, [1] sono dell’avviso che Solaris rappresenti, se non il vertice artistico dell’opera di Tarkovskij (affermazione intorno alla quale si potrebbe discutere a lungo), quantomeno il punto di massima densità concettuale della scrittura (che in altre sue pellicole risulta funzionale all’espressione e alla composizione lirica, ma non alla speculazione filosofica).

In definitiva, il mio convincimento è che Solaris esprima, in modo qualche volta obliquo ma sostanzialmente coerente, una propria antropologia e persino una propria ontologia, e che entrambe vengano costruite — cosa abbastanza insolita — per contrasto rispetto alla fonte letteraria della sceneggiatura, vale a dire l’omonimo romanzo dello scrittore di fantascienza polacco e razionalista scettico [2] Stanislaw Lem.

Entrando nel vivo degli argomenti, le molteplici questioni che il film solleva e lascia aperte, sono a mio avviso riconducibili a due: 1) quale sia l’esatta natura degli ‘ospiti’ (le creazioni F che si materializzano a bordo della stazione scientifica in orbita attorno al pianeta) e 2) a quale livello gnoseologico e ontologico avvenga (e con quali esiti) la relazione tra l’uomo e l’oceano intelligente di Solaris. Contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, le due questioni sono sì interconnesse (in fondo, le creazioni F costituiscono un prodotto dell’interazione tra la mente umana e l’oceano), ma nel film sono irriducibili una all’altra. In particolare, la seconda questione non si riduce alla prima.

Incidentalmente, si noti da subito come al regista Tarkovskij prema soprattutto (sebbene non solamente) la prima domanda, mentre allo scrittore Lem sembri importare quasi esclusivamente la seconda. Il film, ponendo con radicalità il quesito circa il senso dell’identità personale, acquisisce infatti una tensione esistenziale e morale che il romanzo (mantenuto dall’inizio alla fine sul mero piano della verità scientifica razionalmente indagabile) non possiede, se non in modo del tutto marginale o in conseguenza di evidenti forzature interpretative. [3] Ma procediamo con ordine.


PRIMA QUESTIONE. SULLA NATURA DEGLI OSPITI

Come noto, ad un certo momento dell’esplorazione di Solaris (corpo celeste ricoperto da un grande oceano che gode di strane peculiarità fisiche), gli scienziati al lavoro nella stazione spaziale in orbita attorno al pianeta entrano in contatto con alcune creature in tutto e per tutto simili ad esseri umani, ma dalla struttura atomica anomala: gli ‘ospiti’.

La creazione degli ospiti, inaccessibile nel suo significato e nella sua realizzazione, sembra tuttavia rispettare alcune regole. Vediamole. Ad ogni essere umano che si stabilisce sul pianeta, ne tocca uno. La composizione fisica degli ospiti ci viene svelata nel corso della vicenda: essi imitano perfettamente la materia organica, ma a livello subatomico risultano composti di neutrini anziché di atomi. Sono indistruttibili mediante tecniche di eliminazione, per così dire, ordinarie (assistiamo a episodi di ferimento con corpo tagliente, avvelenamento, assideramento), ma saranno infine annientati grazie ad un congegno per l’annichilimento dei neutrini realizzato dal fisico della stazione, dottor Sartorius. Almeno nelle prime fasi della loro esistenza, gli ospiti non possono tollerare il distacco e nemmeno la separazione temporanea dall’essere umano cui sono legati. E qui finiscono le poche certezze al loro riguardo. Alcuni di essi hanno comportamenti compatibili con l’intelligenza e la coscienza (vecchio problema del fantasma nella macchina), altri no; per lo più, essi sembrano la materializzazione (la proiezione?) di archetipi di qualche genere. Ci sono repliche perfette di persone reali (Hari, [4] la defunta moglie del protagonista) e imitazioni di esseri umani privi di una precisa identità. Le creazioni F [5] degli altri due membri in vita dell’equipaggio, Snaut e Sartorius, vengono tenute pudicamente nascoste dai loro assegnatari, [6] mentre sappiamo che il dottor Gibarian, morto suicida, era accompagnato da una mostruosa raffigurazione ancestrale di sesso femminile.

La teoria sulla quale i tre scienziati sembrano concordare è che l’oceano abbia prodotto le creazioni F scandagliando in qualche modo la psiche degli esseri umani che sono entrati in contatto con lui. Questo probabilmente avviene durante la fase del sonno, dal momento che ciascun ospite appare quando l’uomo di cui è manifestazione si risveglia. Il rapporto tra specifici contenuti psichici e creazioni è tuttavia difficile da stabilire. A Kelvin tocca come detto una riproduzione della moglie morta suicida anni prima. Ma questa sembra essere l’unica scelta vagamente ‘razionale’ da parte dell’oceano. A Gibarian era toccata la personificazione di una qualche fantasia psichica, probabilmente dall’inconfessabile valenza sessuale. [7] Degli altri ospiti sappiamo poco o nulla. [8] Ad ogni modo, nessuna spiegazione della loro origine ci verrà mai fornita, né da Tarkovskij, né da Lem.

Da osservatori, possiamo solo rilevare come il procedimento seguito dall’oceano, totalmente opaco dal punto di vista del funzionamento, sembri effettivamente molto simile al meccanismo di selezione dei contenuti onirici da parte del cervello durante il sonno: qualcosa a metà tra il casuale, il significante e l’archetipico, sul quale non è però possibile acquisire certezze di alcun tipo.

A Lem, interprete di un razionalismo pessimista con esiti improntati ad un radicale scetticismo, [9] poco importa: gli basta arrestare i suoi protagonisti sul ciglio di questo baratro. Lo scrittore polacco evita di trincerarsi nel riduzionismo più ovvio (quello che neppure riconoscerebbe come sensata la questione dell’esistenza o meno di una coscienza nel corpo degli ospiti), ma non intende fornirci indicazioni rassicuranti, vale a dire ontologicamente positive: gli ospiti (secondo la nota locuzione presente nel romanzo) sono ‘miracoli crudeli’, il che per lui significa in buona sostanza: ‘simulacri’. Miraggi. Inganni, prodotti senza alcuna precisa volontà di ingannare. La sua posizione è chiara: Solaris è per lui “un dramma gnoseologico, nel cui centro focale sta la tragicità dell’imperfezione dell’apparato conoscitivo umano”. [10]

Per il protagonista del film, invece, e per lo stesso Tarkovskij, la questione è decisamente più complicata. Che evidenze abbiamo di questo fatto? Nei limiti della possibilità di indagare la trasposizione di una fonte letteraria nella messa in scena filmica, possiamo tentare alcune piccole ma significative distinzioni tra i due Kris Kelvin (nome che nel romanzo, tanto per cominciare, veniva reso nella variante Chris).

Il protagonista del romanzo giunge progressivamente, in ragione di un crescente coinvolgimento affettivo, ad accettare l’umanità di Hari. Ma non c’è, nel suo caso, alcun apprezzabile tentativo di comprensione morale di tale ‘umanizzazione’. Nei confronti di Hari, il Kelvin di Tarkovskij agisce invece da subito con un misto di angoscia, stupore e senso di colpa, e insieme affetto, protezione e rabbia; sentimenti che vengono variamente alternati nelle diverse situazioni, e che non sono mai del tutto scevri da preoccupazioni d’ordine morale. La tonalità emotiva, in Tarkovskij, è dunque l’oscillazione, l’incertezza: come se un piano stabile di relazione non potesse essere costruito. Ma la natura morale della relazione che si stabilisce con Hari è come postulata, ed è anzi lo schema che permette allo spettatore una chiara precomprensione dei fatti. Non a caso il film, a differenza del romanzo, ha un lungo prologo a terra, nel corso del quale Kelvin e il padre, nella loro casa di campagna, discutono (ancora ignari dell’esistenza degli ospiti) del valore intrinsecamente morale di ogni possibile conoscenza umana.

A Tarkovskij non preme tanto accertare gli statuti ontologici delle creazioni F (sono senzienti? sono autentiche? cosa succede quando vengono rimpiazzate da altre repliche, come quando Kelvin riesce ad allontanarne una chiudendola su un razzo e collocandola in orbita?), quanto piuttosto riflettere sulla natura morale della relazione che si stabilisce con loro. A Kelvin che s’interroga sulla natura degli ospiti, Snaut risponde sarcastico: “E tu? Tu sei reale?”).

Significativa anche la fenomenologia delle differenti reazioni alla comparsa degli ospiti. Nonostante l’ampio spettro di comportamenti posti in atto, nessuno degli scienziati considera mai seriamente la possibilità di trovarsi di fronte ad un essere umano. Il minimo comune denominatore dei loro atteggiamenti è il comportarsi ‘come se’: uno schema che lascia coesistere la consapevolezza della natura fittizia delle creazioni e la ricerca di una qualche rivelazione (scientifica per Sartorius, pragmatica e di buon senso per Snaut, morale per Kelvin) che sveli il senso profondo della relazione venutasi a creare con loro.

Al primo livello, il più basso di tale relazione, sta la pura e semplice rivelazione perturbante, lo scoperchiamento personificato di contenuti psichici negati (esplicito, nel romanzo, il riferimento a perversioni di tipo sessuale). Sartorius, sorta di scienziato archetipico, sembra la raffigurazione simbolica di questo arresto del problema al livello della pura funzionalità fisica e biologica. Al livello più alto si colloca invece la relazione di Kelvin con Hari. Essa è l’unico ospite, tra tutti, per il quale la locuzione ‘miracolo crudele’ acquisti un significato esistenziale e non meramente funzionale-meccanicistico, l’unica a non esserci presentata come puro epifenomeno, e non a caso l’unica tra le creazioni ad essere oggetto di un autentico investimento morale e di una radicale interrogazione filosofica (fondamentale, nel film, la sequenza di intonazione prettamente dostoevskijana [11] in cui Kelvin si inginocchia davanti a lei nella biblioteca, suscitando l’ira e lo scandalo di Sartorius).

Sia chiaro, nel film Kris Kelvin non si relaziona ad Hari come si relazionerebbe ad un altro essere umano. Il suo atteggiamento verso la copia della moglie deceduta non si conforma ad alcun particolare imperativo etico, al punto che la prima Hari viene abbandonata nel cosmo dopo essere stata allontanata dal pianeta con l’inganno, e della seconda Hari, Kelvin non accetta mai razionalmente lo status morale. La presenza in Kris Kelvin di reazioni emotive molto prossime al rimorso non cambia questo stato di fatto. [12] Volendo precisarne la valenza, possiamo dire che l’atteggiamento di Kelvin ricade nell’ambito di uno schema pre-morale di tipo paradossale o aporetico:
  1. Hari non è (non può essere) umana, ma in un certo senso è come se lo fosse. (E dunque, se vogliamo spingerci un passo oltre: in cosa potrà mai consistere la differenza tra l’essere individui e il sembrare tali?);
  2. La contraddizione tra lo status ontologico di cosa, e l’apertura di uno spazio pre-morale, finisce per conferire ad Hari un’aura di umanità umbratile, ma non più reversibile. La comparsa delle creazioni somiglia perciò ad una quasi-nascita, mentre la prospettiva del loro annichilimento assume il valore di una quasi-morte. Di qui il rimorso, ma soprattutto la disposizione a concedere dignità morale ad una creazione in ultima analisi non-umana;
  3. Hari sa di essere una cosa. Lo dice chiaramente a Kelvin. [13] Ma questo causa un altro paradosso: quale cosa nell’universo sa di esserlo? [14] In Lem il paradosso è irresolubile. In Tarkovskij, ancora una volta attraverso Dostoevskij, [15] la natura morale della relazione è presupposta, non dimostrata. E il paradosso è esattamente l’apertura ad una relazione morale che riconcilia l’uomo con il Senso; [16]
  4. Il miracolo crudele (che in Lem era sostanzialmente un inganno, o un’aporia), in Tarkovskij è per l’appunto un’apertura di senso (aporetica ma non certo fallace, o piattamente illusoria). L’etica diviene cioè in Tarkovskij precondizione per ogni forma di conoscenza.

SECONDA QUESTIONE. SULLA RELAZIONE TRA L’UOMO E L’OCEANO DI SOLARIS

Che dire invece dell’Oceano? Sappiamo che sin dal momento della scoperta, la vasta massa liquida che avvolge Solaris rappresenta un mistero insolubile per gli scienziati. La fisica singolare e inesplicata dell’oceano, minutamente descritta da Lem (e quasi del tutto ignorata da Tarkovskij) ha inaugurato una disciplina di studi (la solaristica appunto) che nel corso di alcuni decenni ha prodotto le teorie e le ipotesi più stravaganti, formulate nel tentativo sempre vano di conferire scientificità ai fenomeni osservati. Nonostante la grande mole di opere prodotte, la solaristica ha però infine dovuto arrendersi ad un’evidente mancanza di progressi, ad un continuo girare a vuoto, e all’epoca in cui accadono i fatti narrati è ormai una scienza in pieno declino. Addirittura, nel film, la missione di Kelvin ha tra i propri obiettivi la messa in liquidazione dell’intera disciplina e il disarmo della stazione.

A ridare improvvisamente un significato allo studio more geometrico del pianeta, è però proprio la comparsa degli ospiti. Nel romanzo, si è detto, alla fisica dell’oceano e alle teorizzazioni della solaristica vengono dedicate lunghe digressioni. Tarkovskij invece salta a piè pari l’antefatto storico, e si concentra unicamente sulla vicenda di Kris Kelvin e dei suoi compagni di viaggio. [17]

La verità è che per il regista russo l’oceano riveste un interesse visibilmente secondario. Eppure, alle acque di Solaris concede lunghe inquadrature, arricchite da contrappunti musicali solenni e da richiami espliciti all’acqua del lago che ci ha mostrato nella prima sequenza del film, che era ambientata nella casa di campagna del padre. Nei film di Tarkovskij, del resto, l’acqua torna sempre con una cadenza ossessiva e un forte valore simbolico. Ma cos’è allora, e che significato riveste, per Tarkovskij, l’oceano?

Come spiega — con una punta di rammarico razionalista — il postfatore di una recente edizione italiana del romanzo, [18] poiché la figura dell’oceano non viene spiegata (non da Lem, né tantomeno da Tarkovskij, aggiungeremmo), “il rischio è che la si debba interpretare come metafora”. Si tratta davvero di un rischio? Sì, se si cede a qualche tentazione riduzionista (“L’oceano significa X”). No, se l’apertura simbolica favorisce una comprensione allargata e non riduttiva dei significati in gioco.

La scorciatoia più ovvia, del tipo riduzionista, è ovviamente rappresentata dallo schema psicanalitico: l’oceano come simbolo di qualche contenuto psichico (la vita, Dio, il Sé, eccetera). Tra coloro che hanno utilizzato questo schema va sicuramente ricordato per ampiezza e profondità di analisi il filosofo di formazione lacaniana Slavoj Žižek. [19] Il quale, se non altro, ha il merito di confutare una prima (ipersemplificata) ipotesi interpretativa di orientamento junghiano: quella che vede in Hari la raffigurazione di un principio femminile ridotto a semplice fantasma o epifenomeno (difettoso) del principio maschile (Kelvin).

Sfortunatamente, una volta rimosso l’ostacolo sul quale avrebbe potuto incagliarsi una critica ‘femminista’ a Solaris, Žižek ricade in uno schematismo del tutto simile, approcciando Solaris ad un livello puramente gnoseologico, e finendo in particolare per leggere la coppia Uomo/Oceano come figura della relazione tra oggetto di conoscenza (l’oceano) e attività psichica (la mente, l’inconscio degli scienziati) — un’attività della quale un simile oggetto sarebbe una semplice proiezione.

Tale proposta interpretativa non solo ha il grave limite di non adattarsi in alcun modo al testo cinematografico, ma ne rappresenta a ben guardare il rovesciamento. Proviamo per un attimo a seguire il ragionamento di Žižek. Poiché, a detta sua, in Tarkovskij il viaggio nello spazio sarebbe solamente una “proiezione […] del viaggio interiore nelle profondità della propria psiche”, [20] l’incontro con l’alterità assoluta (gli ospiti) viene da lui ‘reinscritto’ “nello schema della creazione di una coppia”. [21] Laddove per ‘coppia’ Žižek intende una figura di ordine gnoseologico, del tipo soggetto-oggetto. [22] In conclusione, per dirla in un linguaggio meno psicanalitico e più filosofico, la creazione degli ospiti dimostra l’insussistenza di un oggetto esterno avulso dalle funzioni psichiche e gnoseologiche del soggetto conoscente. L’Altro non esiste. L’Altro è incardinato alle profondità, agli abissi del Sé.

La nostra interpretazione, per inciso, va in una direzione diametralmente opposta: essa postula in Tarkovskij la non riducibilità (‘reinscrizione’, direbbe Žižek) del legame Kelvin-Hari al legame Kelvin-Oceano, e spinge il legame Kelvin-Oceano al di fuori di ogni possibile cornice psichica o gnoseologica. Come è potuto giungere, Žižek, a una conclusione tanto differente dalla nostra? La principale prova di quanto afferma, a suo dire, sta nel finale girato da Tarkovskij, e pensato in netta contrapposizione a quello proposto da Lem. Scrive Žižek: “Il romanzo si chiude con Kelvin che, rimasto solo sull’astronave, fissa la misteriosa superficie dell’oceano di Solaris; il film invece si conclude con la fantasia-archetipo tarkovskiana che combina nella stessa inquadratura l’Alterità in cui l’eroe viene catapultato (la caotica superficie di Solaris) e l’oggetto del suo nostalgico desiderio, cioè la dacia (baita russa) cui vuole tornare; i contorni della casa sono circondati dal fluido malleabile che compone la superficie di Solaris: nel cuore dell’Alterità più radicale, scopriamo l’oggetto perduto dei nostri desideri più intimi”. [23]

A dire il vero, la comparazione tra i due finali è piuttosto interessante, ma Žižek dimostra chiaramente di non aver compreso il significato della sequenza girata da Tarkovskij, e perciò non può valutarne le necessarie conseguenze. Il finale del film — tra un attimo proveremo a mostrarlo — è in fatti ben lungi dal rappresentare un ritrovamento dell’Io (l’isola con la casa natale di Kelvin che spunta al centro di Solaris), significando con tutta evidenza l’esatto contrario: e cioè che l’apparente ritorno a casa (all’Io, al Sé) è solamente un precario, fantasmatico affioramento (un altro miracolo crudele?) al centro del vasto e incomprensibile oceano.

Proviamo ad analizzare il montaggio della sequenza finale, e vediamo se Tarkovskij abbia davvero voluto rappresentare un ritorno a sé (la casa natale), ovvero se abbia voluto metterci davanti all’ultimo e conclusivo scacco, e dunque al fallimento di qualsivoglia interazione (psichica o gnoseologica, poco cambia) con l’oceano.

Hari e gli altri ospiti sono stati annichiliti. Si sta svolgendo l’ultimo colloquio tra Kelvin e Snaut. Questi consiglia al protagonista di tornare sulla Terra. Kelvin è riluttante. Non si illude certo sulla possibilità di un ritorno di Hari, ma nutre la speranza che l’oceano gli regali non meglio precisati ‘nuovi miracoli’. Sul piano ravvicinato di una pianta coltivata a bordo della stazione in un piccolo recipiente metallico, si alzano le note Preludio al Corale in Fa minore di Bach (BWV 639) riarrangiato da Eduard Artemiev. Dissolvenza. Torna l’immagine iniziale delle alghe che si agitano nella profondità di uno specchio d’acqua. Stacco. Vediamo Kelvin di spalle, vestito com’era sulla Terra. È in riva al lago della casa paterna. Dev’essere inverno, perché gli alberi sono spogli. Davanti a casa lo accoglie festoso il cane del padre, ma ecco che la musica cessa e viene soppiantata da un suono sinistro, dissonante. Cambio d’inquadratura. Dall’interno della casa vediamo Kelvin avvicinarsi alla finestra. Guarda dentro, schermandosi gli occhi con una mano. Nella stanza piove acqua dai soffitti. Controcampo. Poi vediamo la figura del padre, nella stanza, che si volta verso la finestra. L’acqua lo bagna. Il padre vede Kelvin, fuori campo, e gli sorride. Cambio inquadratura. Da una posizione leggermente rialzata, vediamo adesso il padre sulla soglia. Kelvin gli si avvicina, e si inginocchia davanti a lui, proprio come aveva fatto con Hari nella biblioteca della stazione. A lato, il cane guarda verso di noi. L’inquadratura sale nuovamente e si allarga. La casa sembra allora avvolta da nubi spesse, o da fumo. Prosegue il piano sequenza: vediamo ormai, da un’altezza considerevole, la casa, la campagna circostante e la vicina strada. Quando il campo si allarga ulteriormente, ecco il colpo di scena: la terra su cui si poggiano i personaggi e la casa stessa, è in realtà una piccola isola nel cuore dell’oceano di Solaris.

Lo stesso Žižek deve rendersi conto che qualcosa non torna, perché ad un certo punto, nel giro cioè di mezza pagina, abbandona le sue certezze e ripiega su una posizione molto diversa da quella inizialmente tratteggiata. “La sequenza [di Tarkovskij] — scrive infatti, come colto da ripensamento — è girata in maniera ambigua [sic]… [e] gradualmente capiamo che ciò che abbiamo appena visto non è il reale ritorno a casa ma sempre una visione creata da Solaris: la dacia e il prato che la circonda diventano un’isola nel mezzo della caotica superficie del pianeta, quindi un’ennesima visione materializzata da esso”. [24] Per l’appunto. Non è scopo di questo articolo esaminare il rigore argomentativo di certo pensiero della tarda postmodernità; ci limiteremo a rilevare come il filosofo sloveno, nel passaggio considerato, subito dopo aver enunciato una tesi discutibile (e senza darsene troppo cruccio), la rovesci in pratica nella tesi contraria.

Insomma, ci basta il fatto che, partito da premesse discutibili, egli pervenga (anche in assenza di un ragionamento ordinato) a conclusioni corrette – cioè rispettose della scrittura dell’opera. Solaris, ci dice allora Žižek, rappresenta “un’Alterità con la quale nessun contatto è possibile”. [25] Su questo suo tardivo giudizio possiamo dunque concordare. Nessuna proiezione del ristabilisce la pax gnoseologica dell’Io. L’alterità resiste. Il Nulla, sartrianamente, permane al cuore dell’Essere. [26] Ogni approccio conoscitivo all’oceano, per Tarkovskij, è infatti destinato a fallire in modo completo, e non approda ad alcun possibile esito gnoseologico. Sul piano conoscitivo, l’unica prospettiva è quella dello scacco.

Si può dunque affermare che, almeno intorno alla questione gnoseologica, vi sia coincidenza tra il punto di vista di Tarkovskij e quello di Lem? Non proprio, o almeno non del tutto. Torniamo per un attimo alla sequenza conclusiva. Il romanzo ha un breve sottofinale ‘teologico’ di cui stranamente la critica non si occupa. Si tratta di un dialogo tra Snaut e Kelvin, nella cabina di quest’ultimo, all’indomani della scomparsa degli ospiti. Al collega, il protagonista illustra a mo’ di sintesi degli eventi la sua idea di un Dio imperfetto, “invalido”, [27] un Dio che “non esiste fuori della materia e non può liberarsi da questa, e non vuole altro…”. [28] Snaut suggerisce la possibilità che tale divinità sia proprio l’oceano cui sono posti innanzi, ma Kelvin rigetta questa ipotesi: Solaris per lui “è un anacoreta, un eremita del cosmo, e non il suo Dio”. [29] La divinità a cui pensa è differente (ma quanto lo è davvero?, ci chiediamo): “La sua sofferenza non è una redenzione, non salva niente, non serve a niente: semplicemente, è”. [30] Si tratta di un essere intrappolato nella materia: perso, disorientato. Questo è l’unico Dio che sopravvive, secondo il punto di vista di Lem, al mancato incontro con Solaris.

Nel corso di un’ultima esplorazione, Kelvin scende su un’isola sabbiosa e contempla i soliti mutamenti incongrui nella sostanza dell’oceano. Questo ha davanti: materia inerte, un “cieco colosso liquido” [31] che si modifica secondo proprie leggi inaccessibili. La speranza nel ritorno dei ‘miracoli crudeli’, evocati nell’ultimo rigo del romanzo, ha per lui un ormai un significato residuale. È una considerazione di ordine meccanicistico o statistico.

Abbiamo visto come il Kelvin di Tarkovskij, al momento di tornare all’oceano, s’imbatta invece già nel segno di un rinnovato (per quanto enigmatico) ‘miracolo’ in atto. Qualcosa che lo chiama di nuovo (e da subito) direttamente in causa. Laddove l’alterità sembrava aver cancellato ogni legame col Sé, laddove il protagonista di Lem confidava ormai solo nell’azione disperata di forze meccaniche, Tarkovskij evoca dalle acque dell’oceano le immagini della casa e del padre, cioè della memoria più intima e del radicamento.

Per comprendere questa tensione è utile tornare a Slavoj Žižek, laddove egli scrive: “È fondamentale, per la Cosa-Solaris, la coincidenza della più assoluta Alterità con una prossimità eccessiva ed assoluta […]”. [32] L’immagine della casa non va letta dunque come un ultimo bizzarro gioco dell’oceano, ma come la prova di una prossimità assoluta che fa segno nell’alterità. Non bisogna forzare il ragionamento, tuttavia. Quello dell’Alterità ‘sin troppo presente’ è un paradosso che va mantenuto come tale e che non può essere risolto in favore di uno dei suoi elementi costitutivi (l’Alterità o la presenza). La relazione tra Uomo e Oceano può mantenersi solo entro l’ordine ‘terzo’ del mistero, e non è minimamente recuperabile (s’intende: nell’opera di Tarkovskij) all’interno di qualche teoria psichica funzionale (come Žižek invece concluderà, [33] più che altro — supponiamo — per ragioni di scuola).

Il Kelvin di Stanislaw Lem, dunque, guardava all’alterità in chiave gnoseologica, nel segno (scettico) della rinuncia e della resa, circonfuse del nichilismo tragico e della proclamata fede in un dio invalido e fallimentare. Il Kelvin più dolente e più tormentato di Andrej Tarkovskij, tra le isole che l’oceano lascia affiorare dopo l’annichilimento degli ospiti, riconosce un’immagine profonda di Sé. Lungi dal costituire un approdo, tale fatto getta semmai un’ombra a ritroso sul concetto stesso di identità e di ritorno a sé. “E se — pare domandarci Tarkovskij — ogni volta che poggiamo saldamente su qualcosa, fossimo in realtà aggrappati ad un temporaneo, e in fondo pur sempre ingannevole, simulacro?”. Altro che re-inscrizione nel Sé. Solo in questo esito estremo (lo scivolamento dello scacco gnoseologico su un piano differente), la questione dell’oceano torna ad essere in Tarkovskij (pur senza ridurvisi) la questione delle creazioni F. L’unica consolazione possibile (neppure immaginabile nel romanzo di Lem) sta nella possibilità del salto dal livello conoscitivo (Sartorius) a quello morale (Kelvin). Un livello, questo, che non poggia stabilmente su alcuna ontologia e nemmeno su alcuna fenomenologia (tantomeno, dobbiamo aggiungere, su alcuna economia psichica) ma unicamente sullo slancio — dostoevskijano, come si notava poco fa e come notava lo stesso Sartorius — verso un’alterità intesa anzitutto come innocenza [34] (e cosa potrebbe darsi di più innocente di una creatura strappata al nulla mediante un atto creativo impenetrabile e opaco?). Solo l’innocenza rende possibile il superamento dello scacco. Nell’ispirazione, cioè nella chiamata ad un livello altro, essa diviene la traccia di una trascendenza radicale.

La nostra conclusione — ammesso che ci sia davvero bisogno di una conclusione — è in una semplice presa d’atto. Lem, come il suicida Gibarian, può camminare un passo appena oltre Sartorius: sino a percepire lo scandalo dello scacco teoretico, e a vagheggiare l’esistenza di un dio lacunoso e fallibile, incapace di salvezza, un dio cui legarsi d’una fede disperata. Tarkovskij, come il suo Kelvin in ginocchio davanti al simulacro di una creatura, sceglie di spingersi molto più avanti, anche senza la garanzia di benefici o guadagni. Il suo ‘miracolo crudele’ è una promessa che fa segno, che getta l’uomo verso la nudità incalcolabile della trascendenza.


[1] In Martirologio, in occasione di una proiezione del film, Tarkovskij annota ad esempio: “[H]o rivisto Solaris […] Mi ha fatto una stranissima impressione. Gli attori recitano male […]. È montato male. Bisognerebbe accorciarlo […]. Ci sono dei tagli imprecisi. Con delle lungaggini […]”. A. Tarkovskij, Martirologio (Città di Castello, 2014), p. 311.

[2] La divaricazione è piuttosto netta. Sappiamo che Lem non apprezzò la riduzione cinematografica del suo romanzo operata da Tarkovskij, che tacciò anzi senza mezzi termini di travisamento (si veda l’intervista a Monika Wozniak contenuta in “Lettera Internazionale”, n.67/2001).

[3] Si veda ad esempio l’articolo “Solaris, o dell’irrazionale”, a firma di Gianfranco De Turris (http://www.centrostudilaruna.it/solaris-o-dellirrazionale.html), nel quale si compie il più classico intervento di sovrainterpretazione, ottenuto rovesciando il punto di vista manifesto dei due autori (Lem e Tarkovskij) e procedendo per via di inferenze (psicanalitiche, scritturali, alchemiche) a metà tra il congetturale e l’arbitrario. È un metodo con il quale si può dimostrare più o meno qualsiasi cosa, e che non ci interessa da alcun punto di vista.

[4] Scegliamo qui, tra le due, la grafia utilizzata nella sceneggiatura e nei crediti del film. Nel romanzo, il nome del personaggio femminile è Harey. Si veda più oltre il riferimento alla grafia del nome del protagonista.

[5] Tra gli scienziati nasce un dibattito terminologico. Come devono essere chiamate le creature che sono apparse? Dapprima Snaut si riferisce loro col termine colloquiale di ‘ospiti’. Durante la prima videoconferenza, Sartorius li chiama più sbrigativamente ‘fantasmi’. Sarà allora Snaut a proporre la formula ‘creazioni F’, sulla quale i tre personaggi si accorderanno.

[6] Allo scopo di non rivelare la natura dei propri ospiti, e nell’impossibilità di separarsi da essi, molti dei colloqui tra gli scienziati a bordo della stazione si svolgono a distanza, mediante collegamenti video debitamente ‘oscurati’.

[7] Questo per la verità nel romanzo. Nel film, dove la componente sessuale è fortemente raffreddata, per non dire rimossa, l’ospite di Gibarian è una giovane adolescente con la pelle chiara e i capelli rossi.

[8] Nel film, a Sartorius viene associato un nano. Nel libro, invece, un’enigmatica figura nascosta da un cappello di paglia. Nulla sappiamo, nei due casi, dell’ospite di Snaut.

[9] Il fallimento della conoscenza è un tema costante nella sua produzione. Si pensi solamente all’impossibilità di uno scambio tra intelligenze di specie differente constatata in Eden, alla nube auto-organizzata e priva di coscienza in cui s’imbatte l’equipaggio de L’Invincibile, o alla imperscrutabile civiltà aliena scoperta ne Il pianeta del silenzio.

[10] Abbiamo trovato questa dichiarazione all’interno del già citato articolo di De Turris, il quale tuttavia l’attribuisce a Lem senza indicare la fonte. La riportiamo con beneficio d’inventario. Il corsivo, ad ogni modo, è nostro.

[11] Introduciamo qui il concetto di dostoevskijsmo, definibile in estrema sintesi come l’assegnazione al piano morale di un primato su quello conoscitivo e intellettuale, punto di vista che spingerà Tarkovskij oltre ogni possibile esito considerato nel romanzo di Lem. Mi sono imbattuto addirittura in una presunta dichiarazione polemica dello scrittore polacco, secondo il quale Tarkovskij avrebbe trasformato il suo libro in una sorta di Delitto e castigo spaziale. La frase è citata (indirettamente) in un articolo on-line del 2014 a firma Stephen Dalton: http://www.bfi.org.uk/features/tarkovsky/

[12] Nella concezione cristiana, ad esempio, il rimorso, pur presupponendo una percezione istintiva del bene e del male, non appartiene stricto sensu alla sfera etica. In ogni caso, esso non conduce necessariamente al Bene. Anzi, la Scrittura fa talvolta del rimorso un attributo della dannazione, e lo stesso Giuda Iscariota è colto da rimorso dopo il tradimento di Cristo. In Spinoza, invece, il rimorso è addirittura una spia psicologica del Male (“Una passione deleteria… Un particolare tipo di tristezza”). Nella teoria psicoanalitica, infine, il rimorso è perlopiù una (dis)funzione psichica, che impedisce la guarigione.

[13] Nel romanzo, Hari [Harey] rivela acute capacità d’introspezione e di analisi dei propri stati mentali. Confessa a Kelvin, dopo aver tentato inutilmente di uccidersi: “Mi comportavo come se fossi priva di facoltà mentali, avevo come nebbia nella testa. Poi certi fatti mi hanno dato da pensare […]. [N]on sono un essere umano, solo uno strumento”. S. Lem, Solaris, trad. di E. Bolzoni,, Mondadori Milano 2005, pp. 179-180.

[14] È mia opinione che questo schema ribalti il topos ricorrente della letteratura e del cinema sull’Intelligenza Artificiale. Si pensi al personaggio di Hal 9000 in 2001 Odissea nello Spazio o ai replicanti della serie Nexus in Blade Runner: si tratta di macchine, che per qualche ragione assurgono all’individualità cosciente. Hari no: è un essere senziente che si scopre degradato a cosa, che si sorprende ridotto a simulacro e ad oggetto.

[15] È Sartorius, nel film, ad accusare esplicitamente il protagonista di ‘dostoevskijsmo’. Lo fa durante la festa per il compleanno di Snaut, in risposta al tentativo, da parte di Kelvin, di assolvere moralmente il suicida Gibarian. I suoi, dice Sartorius con disprezzo, “sono sentimenti ispirati da Dostoevskij”. E prosegue: “Io conosco il mio posto. L’uomo è stato creato dalla natura per conoscerla. Muovendosi verso la verità, l’uomo è condannato alla conoscenza. Tutto il resto è capriccio”.

[16] Nel film, Hari rivendica la propria umanità. A Sartorius che recisamente la nega, risponde: “Io sto diventando un essere umano… E sento non meno di voi… Io sono un essere umano”.

[17] Per la verità, un fatto antecedente a quelli collocati sulla linea narrativa principale viene richiamato anche da Tarkovskij. Si tratta della testimonianza resa dal pilota Henri Berton (André Berton nel libro) circa l’incidente occorso allo scienziato solariano Fechner, inghiottito dall’oceano durante un’esplorazione. Tale episodio anticiperà in qualche modo gli eventi principali. Tuttavia, per non creare piani temporali troppo distanti, Tarkovskij fa incontrare di persona Berton e Kelvin, mentre nel romanzo il protagonista verrà a conoscenza di quanto accaduto a Berton grazie ad una ricerca bibliografica, suggerita in un poscritto del suicida Gibarian.

[18] Ci riferiamo all’edizione di Solaris realizzata nel 2005 per i tipi di Mondadori, nella Collezione Urania. La postfazione è firmata da Riccardo Valla. Il passaggio menzionato si trova a pagina 258.

[19] Non è sempre agevolissimo tracciare una rotta nella prosa oscura e fortemente intrisa di gergo psicanalitico lacaniano tipica del filosofo sloveno. Quanto viene di seguito annotato, sembra tuttavia rispecchiare in buona sostanza il punto di vista sostenuto in Slavoj Žižek, Tarkovskij: la cosa dallo spazio profondo, s.t., Mimesis, Milano-Udine 2011.

[20] Ivi, p. 30.

[21] Ivi, p. 31.

[22] Vi è almeno un riferimento esplicito in questo senso: “Il pianeta Solaris va concepito in termini rigorosamente kantiani” (Ivi, p. 34).

[23] Ivi, p. 31.

[24] Ivi, pp. 31-32.

[25] Per chi volesse comprendere la posizione conclusiva di Žižek, va precisato che il saggio in questione riserva un ultimo colpo di teatro e un secondo rovesciamento di prospettiva: in esso l’Alterità rappresentata da Solaris è sì assoluta, ma in ultima analisi rimane saldamente inscritta al cuore della soggettività – pur risultando interdetta e inaccessibile alla coscienza per ragioni di ‘autodifesa’ psichica. “La Cosa-Solaris”, stabilisce Žižek, “è persino più ‘noi stessi’ […] di quanto lo sia l’Inconscio”. Si vedano in proposito le pagine 34 e 35 del saggio citato.

[26] Non mi è naturalmente possibile dimostrarlo qui, ma sono da tempo convinto che l’ontologia sartriana influenzi radicalmente Tarkovskij, almeno sul piano della descrizione dei fenomeni. Ciò che travalica Sartre, è la torsione etica di marca dostoevskiana cui Tarkovskij sottopone i suoi personaggi.

[27] S. Lem, cit., p. 244.

[28] Ivi, p. 245.

[29] Ibidem.

[30] Ivi, p. 246.

[31] Ivi, p. 252.

[32] Ivi, p. 34. Corsivo nostro.

[33] Vedi nota 22.

[34] Richiamo qui, nel finale, senza poterla analizzare, la terna cristologica innocenza-ispirazione-trascendenza come codificata da Jacques Rolland sulla scorta di Bachtin, per spiegare la relazione con l’Altro nell’opera di Dostoevskij. Si veda: J. Rolland, Dostoevskij e la questione dell’Altro, s.t., Jaka Book, Milano 1990.


Lorenzo Lasagna è nato nel 1971 a Parma, città dove cui vive e lavora. È autore delle raccolte di racconti Cinque e una notte (Mobydick, 2010) e La nube di Oort (Libri di Pixel, 2014). Per i tipi di Epika ha pubblicato il quaderno di viaggio Philly. La città dell’amore fraterno (2012) e il romanzo di fantascienza Stazione Kelvin (2015). Ha firmato con lo pseudonimo collettivo di Errico Malò due racconti in antologie edite da Guanda e Aliberti, e i romanzi Cielo di paese (Mobydick, 2001) e Scaramuccia (Mobydick, 2004). Nel 2004 ha scritto e rappresentato a teatro Paulus, ‘lezione creativa’ sulla Battaglia di Stalingrado. Attualmente sta lavorando al racconto lungo (Experimentum crucis) e al romanzo La parte fredda del fulmine, prosecuzione di Stazione Kelvin. Nel 1994 si è laureato in Filosofia con una tesi su Emmanuel Lévinas.




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