L’utopia, termine che si suppone rimandi ad una realtà letteraria o ad una pratica sociale piuttosto determinate, non ci trae in inganno proprio perché essa comporta sempre una dimensione auto-referenziale, ovvero proprio perché tale genere in effetti non esiste da nessuna parte in atto dal momento che il suo centro è ovunque la sua circonferenza in nessun luogo? Il genere utopico non è esso stesso un’utopia, un essere senza luogo? Invece di presupporre che al termine /utopia/ corrisponda un certo numero di testi, di rappresentazioni e d’azioni, converrebbe forse ammettere che il significato del termine, preso in prestito dal gioco codificato di un libro di More, aspetti di essere costruito in ogni indagine. È questo un modo come un altro per rendere cieca e muta ogni definizione preliminare, per sostituirle, esattamente come amano fare gli utopisti, una visualizzazione, un plastico di ciò che è possibile esibire nell’immagine, dal momento che essa non può essere colta intuitivamente nel suo concetto o nella sua essenza. Per questo motivo, se parlare di utopia significa sempre mostrare un prototipo al quale si spera di far coincidere a monte un archetipo e a valle una serie di visioni concrete, si cercherà di far variare alcune figure della nozione, per estrapolarne un profilo invariabile, a partire dal quale speriamo di poter reperire con maggior precisione delle variazioni e delle metamorfosi al fine di mettere poi in prospettiva alcuni problemi metodologici e culturali. [1]
I.
La combinatoria utopica
Le divergenze e i malintesi sull’utopia derivano innanzitutto dal fatto ogni disciplina e ogni scuola tende ad elaborare una nozione che permetta di radunare la diversità inevitabilmente limitata del suo specifico corpus di testi o fatti. Si può tentare di porre al contrario a priori una categoria per produrne poi delle varianti o delle combinazioni possibili, prima di riscontrare che differenti dati storici trovano così una certa intelligibilità. Se si ammette che la sola realtà concreta si confonde con ciò che ogni uomo vive qui e ora, nel prolungamento di una storia archiviata e nell’imminenza di un futuro, a portata di volontà, l’utopia può apparire nella sua maggior ampiezza come il complesso delle rappresentazioni e delle azioni che fanno riferimento ad un’altra organizzazione spazio-temporale. In tal senso l’utopia si confonde con l’insieme delle attività e delle produzioni dell’immaginazione, dunque con le rappresentazioni di ciò che non è, non è stato, né sarà, rendendola così sinonimo di irrealtà. Si può guadagnare una certa pregnanza concettuale se si accetta di iscrivere l’utopia in un campo più limitato, tanto dal punto di vista del soggetto che dell’oggetto:
Dal punto di vista soggettivo si può restringere il termine facendovi rientrare delle rappresentazioni immaginative che, senza suscitare delle adesioni dettate dalla credenza (l’utopia può limitarsi anche ad un gioco gratuito di rappresentazioni), veicolino delle forme di realtà innanzitutto normative, ovvero ottative o imperative. In tal senso l’utopia, innestata su una forma di insoddisfazione dinanzi al reale, innalza un’altra forma di realtà, non data presentemente nell’esperienza, al livello di un ideale, ovvero di ciò che merita, per il suo proprio valore, di diventare realtà. Si valuterà come utopica non ogni proiezione compensatoria del soggetto ciò ascriverebbe l’utopia all’ordine pulsionale ma delle rappresentazioni che trovano nella riflessività del soggetto immaginante un riconoscimento assiologico. Altrimenti detto, l’utopia non scambia i suoi desideri per la realtà, cosa che corrisponde al fantasma, ma investe una realtà non esistente di desiderio.
Dal punto di vista dell’oggetto si può certo inglobare nell’utopia la sfera di esistenza strettamente individuale (cosa che conduce a utopie del mondo privato), ma le si conferisce immediatamente una dimensione più rigorosa se la si applica alla realtà sociale, alla coesistenza collettiva degli uomini in un nuovo spazio-tempo. Allora l’utopia verte sulla rappresentazione di un ecosistema con i suoi paesaggi, le sue istituzioni, le sue usanze e i suoi valori, che è possibile situare sia in una Natura messa al riparo dalla volontà demiurgica dell’uomo (edenismo), sia al contrario all’interno di una para-natura dominata dall’artificialità della tecnica.
Da questa ricostruzione della categoria di utopia è possibile dedurre due corollari: da una parte, contrariamente alle esegesi di carattere etimologico (su
u-topos) e al neologismo di ucronia a loro connesso, l’utopia, lungi dall’essere una perdita di spazio o di localizzazione, conosce una sovradeterminazione di immagini spaziali e, lungi dallo scivolare verso l’ucronia, essa tende inevitabilmente a ricollegarsi ad una cronologia storica; in tal modo il quadro dell’utopia si trova, almeno in relazione alla sua narratività interna, sia proiettato all’indietro verso il passato, sia anticipato nell’avvenire, nonché intercettato secondo una contemporaneità simulata, ovvero elaborato come un mondo parallelo o come un possibile laterale; dall’altra parte le utopie appaiono come il risultato di una combinatoria di molteplici invarianti, tra i quali è possibile identificare:
il punto di vista dello spazio in relazione alle coppie naturale/artificiale, macrocosmo/microcosmo;
il punto di vista del tempo in riferimento a passato, presente, futuro imminente e futuro indeterminato.
In ognuna di queste configurazioni l’utopia scivola attraverso delle falde semantiche facilmente reperibili in seno alla cultura, le quali rendono conto anche delle diverse contaminazioni dell’utopia con altre forme di immaginazione letterarie o sociali, come i miti paradisiaci, i millenarismi, i programmi architettonici, i racconti di viaggio, la fantascienza, ecc. i quali possono ora essere appresi come delle variazioni interne proprie dell’utopia, ora come delle forme ad essa adiacenti. Apparirà così che alcune combinazioni conoscono nella storia frequenze più o meno significative, come lo rivela ad esempio la notevole diffusione dell’utopia agreste passatista presso i miti antichi, o quella dell’utopia urbana alternativa propria del Rinascimento o del futuro prossimo nel corpo utopico del socialismo del XIX secolo. [2] Ora però resta da sapere se l’utopia così tratteggiata permette di presupporre l’esistenza di una immaginazione utopica specifica.
II.
Le due forme di immaginazione utopica
Dinanzi a questa combinatoria di forme espressive l’utopia rischia fortemente di non poter essere ascritta alle medesime procedure di produzione intellettuale. Se per esempio si prende in considerazione la prima grande fioritura di pensiero utopistico nel XVI secolo in Europa, è possibile notare la sovrapposizione, se non un sincretismo, di due grandi forme d’immaginazione, nettamente distinte in precedenza, tanto dal punto di vista del loro modo di costituzione che del loro ambito di sviluppo:
da una parte un’immaginazione mitico-poetica, dedicata alla rappresentazione degli spazio-tempo che inquadrano a lungo raggio l’esistenza terrestre dell’uomo. Essa dà vita a una lussureggiante geografia di terre sovra-sensibili in cui gli esseri sono vissuti prima della loro nascita o vi andranno a vivere dopo la loro morte fisica (Isola dei Beati, Inferno, Purgatori e Paradisi, Gerusalemme Celeste, per restare nella tradizione monoteista). Queste immagini religiose di un altro mondo, dalle datazioni e localizzazioni variabili, lungi dall’essere finzioni, si presentano come delle rivelazioni di mondi altri, direttamente inaccessibili, ma la cui esistenza è resa autentica dalle tradizioni. Esse servono innanzitutto da supporto per la reminiscenza delle origini individuali o collettive e/o alla speranza escatologica in una sopravvivenza. Ma sebbene noi possiamo averne delle visioni, esse in ogni modo non possono dare luogo ad una appropriazione volontaristica da parte degli uomini;
dall’altra parte abbiamo una immaginazione allegorizzante e tipicizzante, destinata innanzitutto a conferire un contenuto sensibile, figurativo a delle Idee speculative e astratte. Ideali di vita collettiva, di istituzioni politiche, anche di ideologie, possono in tal modo trovare una espressione concreta in ipotiposi che modellizzino o esemplifichino ciò che è stato inizialmente posto come contenuto intellettuale. [3] Bozzetti di comunità felici e perfette servono a tradurre in dettaglio ciò che il pensiero filosofico e politico si accontenta di produrre secondo l’Idea, sulla base di una rappresentazione riflessiva di ciò che deve essere in virtù delle sue proprietà intrinseche. Una tale immaginazione è subordinata a delle informazioni razionali di cui essa conserva spesso un gran numero di tratti costitutivi: uniformità, trasparenza, legalità, simmetria, di cui è nota l’importanza nelle utopie. [4]
Non deve sorprendere che i grandi testi classici della tradizione utopica, i quali vedono coesistere nella loro economia simbolica questi due poli strutturali e funzionali dell’immaginazione, possano essere compresi e interpretati in base ad orientamenti piuttosto divergenti. Se André Prevost curva in maniera marcata l’utopia di More secondo una parabola evangelica ritrovandovi il perpetuarsi di un esercizio spirituale e religioso, Louis Marin al contrario preferisce riconoscervi delle configurazioni di immagini le quali agiscono come operatori di idee astratte, politiche, economiche, sociali nate dalla pratica. [5] Per non invalidare dogmaticamente uno di questi metodi, presi come estremi, possiamo concludere dicendo che l’utopia, già nel suo testo paradigmatico, si presenta come un luogo mentale e testuale aperto non solo su delle combinatorie formali, ma anche su delle filiazioni opposte. Forse l’utopia dovrebbe essere considerata precisamente come un tipo misto di produzione di immagini, uno spazio indeterminato di intenzionalità immaginanti, che visualizza altri modi di realizzazione dell’umanità collocandosi all’intersezione delle grandi famiglie di immagini dell’Altro. Per questo le utopie possono nello stesso tempo assicurare la perennità degli archetipi religiosi, favorire esercizi di invenzioni immaginarie, conferire attendibilità dei piani dedotti da una ragione astratta e sostituirsi a delle pratiche sociali. Non è quindi contraddittorio sostenere che la stessa utopia possa apparire come una reincarnazione religiosa tradizionale, come una audacia finzionale e come un esercizio regolato di deduzione scientifica. L’utopia non potrebbe essere quindi qualificata unilateralmente come frutto di una immaginazione creatrice poiché la sua unità deriva proprio dalla condensazione (in senso freudiano) di rappresentazioni dallo statuto differente. [6]
Per questo in fin dei conti l’utopia, nelle sue forme propriamente testuali, così come nelle sue versioni attivistiche, non può soddisfare in toto né le esigenze poetiche né quelle razionali, scientifico-utopistiche. Del poetico essa trattiene certo spesso uno spaesamento affascinante, una fioritura di curiosità idilliache o fantastiche, ma senza accedere a una creatività verbale, a una jouissance delle immagini, a una soggettivazione intimistica. Gli scritti utopici fanno capo ad un genere stereotipato, prossimo ai freddi inventari, alle classificazioni manieriste, ai manuali di catechesi, se non addirittura alle istruzioni per l’uso dei bricoleurs; ciò spiega le loro rassomiglianze formali e le loro anestesie estetiche. Dall’astrazione scientifico-filosofica le utopie riprendono sovente le proposizioni normative sull’istituzione, l’esposizione austera dei codici, delle normalizzazioni quantofreniche, dei riferimenti ossessivi a delle leggi fisiche o giuridiche; di contro esse si accontentano di un procedere puramente esibizionistico, limitandosi all’esposizione dei dispositivi senza produrne, per deduzione razionale, la giustificazione teorica o assiologica. Da tale strutturazione telescopica del discorso e dei modi di costruzione nascono nello stesso tempo la fascinazione per una immaginazione ibrida e una certa compiacenza morbosa in riferimento alle attività mentali private della loro condizione di validità propria. Tale ambiguità dell’utopia spiega allora in che modo essa possa servire a volte per imporre di diritto un ordine socio-politico che non ha tuttavia alcuna necessità onirica o razionale.
III.
La mistificazione socio-politica dell’utopia
Se l’utopia, nelle sue diverse configurazioni, deve il suo sviluppo e il suo successo a quella plasticità interna che le permette di sovrapporre, di raddoppiare o di annullare differenti modalità di rappresentazione di un altro essere-insieme, in che cosa essa contribuisce a nutrire il pensiero socio-politico? E se le rappresentazioni utopiche hanno giocato un grande ruolo nella storia delle idee collettive, è possibile inferire che lo stile della concezione utopica dispone di una virtù euristica d’esposizione e di esplorazione delle soluzioni rispetto ai problemi degli uomini o delle società? È legittimo di conseguenza usare come strumento per le riflessione sull’essere-insieme le produzioni utopiche o il loro statuto le disinnesca per quanto riguarda il dinamismo del loro ruolo creativo? Senza dubbio conviene distinguere il piano intrinseco degli enunciati utopici la loro retorica specifica e il piano estrinseco della loro traduzione in intenzioni e azioni politiche.
1.
La retorica. In che modo l’utopista determina da principio le caratteristiche ideali della Città della sostituzione? Egli si trova dinanzi ad una procedura invariante o, anche qui, bisogna prendere atto di una pluralità di tipi di descrizione che rende improbabile un giudizio globale, positivo o negativo sul genere utopico? Nella categoria delle utopie si affiancano di fatto tre modi di enunciazione di ciò che si ritiene rispondere ai valori supremi del bene, del giusto, della perfezione e della felicità:
a. Il metodo essenzialista: in questa prospettiva la messa in scena della socialità utopica muove dalla introduzione di una perfezione originaria, colta nella sua sostanzialità intellegibile, necessaria alla invenzione narrativa per trovare una immagine figurativa che faccia passare il contenuto astratto in contenuto concreto. L’utopia gioca qui il ruolo di una parabola o di un simbolo dell’umanità perfetta o giusta, ovvero produce un Ideale sensibile (la Città ideale) per incarnare una essenza, appresa anteriormente dalla ragione sola. In tal senso, malgrado la loro mutua estraneità, è possibile far risuonare l’uno sull’altro il mito della Gerusalemme Celeste della tradizione apocalittica, la Repubblica ideale platonica, la Città solare degli stoici, l’Utopia di Thomas More ecc. Il bozzetto scritto può allora funzionare come un paradigma o
Idealtypus (nell’accezione di Max Weber) per il pensiero sociale e politico, ovvero di costruzione semi-astratta, semi-concreta, a partire dalla quale possono essere unificati tutti i tipi di situazioni concrete. [7] L’utopia quindi occupa una posizione mediana tra l’essenza universale e le realtà particolari, operando come un traduttore tra le due, pur traendo la sua informazione interna dalla sua essenza generica e non dai casi empirici.
b. Il metodo topologico: al contrario del caso precedente, qui si tratta per l’utopista di produrre un quadro normativo o ottativo, non per tipizzazione di una essenza ma per deformazione induttiva di dati empirici. La società ideale trova la sua configurazione in una serie di variazioni del reale: soppressione e addizione di elementi per combinazione, scivolamento di forme concrete verso delle espressioni parossistiche e soprattutto procedimento di inversione dei comportamenti effettivi. Il bozzetto utopico conserva così dei legami con i fatti storici i cui numerosi dettagli fattuali possono essere identificati, pur obbedendo a un movimento di trasformazione progressiva che può arrivare fino all’impossibilità logica o di fatto. [8] Ma da questo fatto tale genere di costruzione utopica può perdere in razionalità giustificatrice, in pregnanza assiologica e soprattutto in universalità, dal momento che la sua costituzione rimane segnata e appesantita da alcuni tratti psico-sociologici singolari, propri del modello storico di partenza.
c. Il metodo fantasmatico: se i due procedimenti precedenti nascono nell’ideale e nel reale, questo realizza una regressione verso l’ordine primario dell’affetto e del desiderio. Altrimenti detto, il motivo generatore s’iscrive in una esperienza ante-predicativa della mancanza o della perdita dell’oggetto, ovvero deriva da una delusione profonda dinanzi alla realtà socio-politica. L’utopia si presenta allora come una risposta ideo-affettiva in cui la rappresentazione si comporta come un sostituto d’oggetto, simile ad un fantasma. L’ideale si confonde con una produzione allucinatoria, più o meno ludica, che tenta di far coincidere l’oggetto del desiderio con la rappresentazione di soddisfazione. L’immaginazione utopica può essere compresa allora come una condotta proiettiva di frustrazione che giunge a trovare una compensazione in un immaginario opposto al principio di realtà. Il risultato guadagna certamente in termini di piacere, ma costringe altresì ad una messa tra parentesi di ogni logica interna. Le forme di socialità mescolano allora il possibile e l’impossibile, e rischiano, senza precauzione, di elevare a valore di realizzazione dell’umanità questo o quell’oggetto contingente del desiderio. L’utopia si affianca qui alla categoria del sogno, nel senso che il sogno si presenta come la via di realizzazione del desiderio.
Se le utopie possono generalmente riferirsi a questi metodi di produzione, si può comprendere perché il loro lavoro euristico nella ricerca della migliore organizzazione umana non può essere predeterminato in anticipo. Una riflessione filosofica sulle migliori forme dell’essere-insieme non potrà fare a meno dell’economia del valore di verità delle ipotesi di referenza né delle condizioni di possibilità affinché una certa situazione storica possa avvicinarsi al modello. Si può facilmente capire che né il metodo topologico né il metodo fantasmatico sembrano qualificati per fondare delle scelte per l’azione politica, il primo perché si appoggia troppo su tratti culturali accidentali, l’altro perché rifiuta, in nome della costrizione pulsionale del desiderio, di prendere in considerazione la resistenza del reale. Quanto al metodo essenzialista, sebbene esso abbia il vantaggio di procurare agli uomini incarnati delle modellizzazioni di forme pure di socialità tramite delle variazioni regolate dei loro profili, esso rischia nello stesso modo di non prendere in considerazione i limiti che gli impone l’empirismo realista. L’utopia sembra quindi trovare difficilmente una funzione istituente per la vita collettiva degli uomini. Al massimo essa permette di tracciare degli scarti in relazione alla realtà favorendo la coscienza di possibili non realizzati.
2.
La praxis. Che l’attività utopica si volga verso un programma esplicito di trasformazione della realtà o che essa si attenga in apparenza ad un semplice gioco di variazioni possibili, essa comporta inevitabilmente una dimensione pratica. La rappresentazione di una alterità suscita o rinforza un desiderio di cambiamento e conduce a progettare una metamorfosi del presente. Da questo punto di vista risulta che il campo dell’utopia è attraversato da numerosi scopi pratici il cui contenuto e i cui effetti si rivelano molto diversificati. In tal modo è possibile distinguere tre modi di pensare il rapporto dell’utopia con la trasformazione del reale:
una via
anarco-estatica per la quale il contenuto del quadro utopico deve potersi sostituire senza resto in un sol colpo alla realtà esistente. L’utopista, confidando nella realtà storica e nella maturazione degli eventi, spera di materializzare hic et nunc il contenuto immaginario. Tale impazienza attivistica si nutre d’altronde di modelli topologici nella misura in cui la rappresentazione di un mondo rovesciato sembra facilitare la sua attuazione pratica. Per cambiare il mondo è necessario rovesciarlo su se stesso, fare le medesime cose ma in maniera contraria (miti antichi del mondo al rovescio, paesi della Cuccagna nel Rinascimento, ecc.), fenomeni che le società sperimentano già in se stesse attraverso dei rituali (la festa come capovolgimento dell’ordine del mondo). [9] Da tale punto di vista l’utopia rivela delle affinità con tutti i tipi di imprese religiose che hanno voluto, a fianco della società globale, instaurare dei modi di vita alternativi: mistica esseniana presso l’antico Israele, comunità gnostiche o catare, di cui numerosi aspetti si ritrovano nelle esperienze di rottura con l’ordine sociale delle comunità politiche (anarchisti del diciannovesimo secolo, correnti recenti dette alternative);
una via
messianico-rivoluzionaria: l’utopia prende posto qui in un calendario storico, dal momento che la sua realizzazione può essere annunciata profeticamente. Lo svelamento del bozzetto della società ideale è inseparabile da una rivelazione del suo avvenimento futuro. La pre-scienza di tale perfezionamento a venire della società o dell’umanità, confermata spesso da una personalità messianica, autorizza allora a prendere delle iniziative per il presente, iniziative che possono arrivare fino allo scatenamento della violenza contro l’ordine stabilito per preparare l’avvento del mondo migliore. [10] Il millenarismo, in quanto profezia religiosa relativa all’avvento di una Signoria Cristica sulla terra per mille anni, dopo il trionfo precorritore delle forze del male (Anticristo), ha spesso suscitato una attrazione per l’utopia che si è vista, attraverso di esso, innestata sulla storia rivoluzionaria.
una via
utopico-ecclesiale: alla strada che porta ad una contestazione frontale della società esistente, giustificata dall’annuncio di cambiamenti prossimi-venturi, si oppone infine un modello d’alternanza secondo il quale l’ordine antico cederà il posto in un giorno ancora indeterminabile ad un nuovo ordine. Durante l’attesa, un’organizzazione ecclesiale o settaria, a seconda dei casi, è incaricata di conservare la promessa e di preparare l’avvento di un’era di giustizia universale. Numerose comunità ad ispirazione utopica si strutturano così intorno ad una speranza apocalittica, pur rifiutando ogni trasformazione volontaristica, se non addirittura violenta, delle condizioni presenti del mondo. La fede nel mondo utopico permette al contrario di supportare in maniera irenica l’esistenza mediante la certezza che un altro mondo verrà al momento opportuno per succedergli, sia sul piano terrestre che su quello metaempirico.
Così l’utopismo, allorché incontra la temporalità lineare della storia collettiva, si vede costretta a definire lo scarto più o meno grande che lo separa dalla realtà nonché l’intervallo che separa la perfezione dalla sua realizzazione concreta. Alternativa, contestazione, alternanza definiscono allora altrettanti forme di intensità dell’utopia a seconda che essa voglia presentificarsi totalmente, incarnarsi totalmente o rimanere in una sorta di relazione asintotica con la storia. In ogni modo sembra difficile sostenere, alla luce delle sovrapposizioni permanenti della letteratura utopica e delle pratiche sociali anarchiste, millenariste o ecclesiali, che l’utopia sia sinonimo di ucronia, ovvero di indifferenza al tempo. Se è vero che all’interno della società ideale il tempo perde la sua potenza di corrosione o di creazione, collocando gli uomini in una sorta di eternizzazione indefinita, l’utopia rimane, per coloro che se la rappresentano, in un rapporto tale che al presente essa finisce per giocare il ruolo di un acceleratore di storia.
IV.
Dall’utopia politica all’utopia artistica
È stato spesso notato che il XX secolo aveva fatto coincidere le costruzioni utopiche con la storia presente, al punto che la realtà sociale, economica e politica finiva per andare alla deriva verso delle forme totalitarie che hanno gettato discredito sull’immaginario utopico. [11] I progetti di mondi altri sono stati l’oggetto di tentativi forzati di trasposizione, spesso sono sfociati nella uniformizzazione, la schiavitù o la morte. È questo il destino di ogni utopia o una depravazione accidentale? La risposta è difficile: però è possibile constatare, alla fine del XX secolo, la recessione delle utopie, se non addirittura lo sviluppo delle contro-utopie, delle distopie, le quali non hanno cessato di esorcizzare l’illusoria fascinazione per quelle costruzioni di tutti i generi che hanno finito per generare mostri. Ma le procedure utopiche sono per queste scomparse? L’utopia è morta, respinta, o ha forse conosciuto dei trasferimenti parziali verso campi di maggiore libertà? Questo è il caso dell’arte, più che della sfera politica, ove l’opera sembra ereditare più di una proprietà dell’immaginazione utopica. Quali sarebbero i primi indizi di ciò, in attesa di un inventario più completo?
Se un’opera d’arte è vista come un artefatto il cui programma di creazione può essere l’oggetto di una formalizzazione preliminare e le cui forme rinunciano a imitare quelle che le preesistono, è possibile sostenere che esiste però una omologia tra la creazione artistica e l’invenzione di una utopia. Inoltre mai le attività di creazione in arte sono state a tal punto prossime a quelle dell’utopia. Tra le altre, la letteratura, la pittura e la scultura contemporanee, nell’epoca della decostruzione delle forme, non si definiscono più in relazione al reale o all’irreale finzionale, ma come delle attività combinatorie di forme chiuse, auto-sufficienti, senza un mondo retrostante, che si mantengono interamente sulla loro superficie, per assicurare una esposizione trasparente della loro configurazione. In tal modo esse perseguono dei metodi propri della utopia classica, tra le quali possiamo evidenziare:
La tendenza ad elaborare delle costruzioni panoramiche, sinottiche che mettano fine ad ogni opacità degli oggetti rappresentati. Come l’utopista classico nega la privatizzazione dello spazio, degli habitats, delle usanze, per esporre agli occhi della comunità l’interiorità, nello stesso modo la pittura cubista, per esempio, ha la tendenza a mettere fine al monopolio della prospettiva unilaterale, agli indici di profondità nascosti sotto la superficie parcellare e dispiega nello spazio piano tutte le caratteristiche degli esseri rappresentati. Il visto e il visibile coincidono in una nuova figura artificiale che è esteriorità pura. La predilezione per la ricostruzione geometrica non manca di richiamare presso gli utopisti la sovradeterminazione degli angoli che purificano il reale da ogni irregolarità;
La tendenza a metter fine alle articolazioni organiche delle forme, alle loro connessioni nascoste, al loro affastellamento naturale, per sostituirvi delle ricostruzioni artificiali, riordinate secondo dei piani arbitrariamente imposti, contro-natura. Come sottolinea Lévi-Strauss, l’arte entra in rapporto, da questo punto di vista, non più con la logica dell’ingegnere, il quale raccorda degli organi per costituire dei corpi funzionali, ma con la logica del bricoleur il quale ridistribuisce le parti sulla base dei possibili non ancora realizzati, secondo dei modi di giustapposizione ancora imprevisti. [12] Numerosi scultori contemporanei non restituiscono più delle forme precostituite, ma danno luogo a degli assemblaggi, privi di finalità interna, di parti decostruite, a delle giustapposizioni combinatorie di scarti, resti, eccedenze che costituiscono così delle nuove totalità senza ragione. Non ci si sorprenderà se certe descrizioni di artefatti costruiti presso la Nuova Atlantide di Bacon potrebbero applicarsi a molti dei mobiles di Tinguely; [13]
quanto alla scrittura letteraria contemporanea, che si avvicina molto al procedere utopico allorché essa rinuncia, già nel
Nouveau Roman, alla narratività lineare per rimpiazzare il plot con un percorso impersonale attraverso dei segmenti di realtà, fuori-quadro, presi per se stessi. Se la prensione di essenze è certo generalmente assente, il processo di descrizione o di enumerazione fredda è da molti punti di vista, simile. Parallelamente, la scrittura contemporanea, sospendendo la presenza del soggetto, lasciando a volte che siano le cose stesse a dirsi, raggiunge una neutralità testuale che mantiene la descrizione degli oggetti in sospeso tra l’affermazione e la negazione, esattamente come il testo utopico secondo Louis Marin. [14]
Così, attraverso queste ultime manifestazioni, si conferma l’idea in base alla quale l’utopia costituisce una categoria proteiforme, plastica, astuta, sempre più complessa rispetto ad ogni definizione unidimensionale, ma strutturata attorno ad un nucleo di forme e funzioni invarianti al di sotto delle sue innumerevoli espressioni ibride o contraffatte. Mai del tutto aderente alle sue manifestazioni di riferimento, ma sempre più coerente rispetto a quanto lo lascino credere le sue metamorfosi storiche, l’utopia rimanda a delle intenzionalità testuali e preassiologiche di tipi di oggetti e di azioni che non si lasciano unificare se non sotto il medesimo nome, il quale pertanto istituisce e inaugura un modo irriducibile di rappresentazione e di creazione di oggetti i quali non si rifanno né alla razionalità né all’immaginazione libera. L’utopia è tutto ciò che non riesce a trovare il suo posto nelle categorie topiche del linguaggio della rappresentazione e dell’azione. È un non luogo che diventa luogo.
[1] Recupereremo qui e in seguito delle analisi, modificate e aggiornate, sviluppate nel nostro L’utopie ou la crise de l’imaginaire. Per quanto riguarda l’articolazione tra l’unità e la molteplicità delle utopie cfr B. Baczko, Lumières des utopies, Payot, Paris 1978.
[2] È possibile sottoporre l’utopia ad una mitoanalisi affine a quella che G. Durand mette in campo per le figure ricorrenti della mitologia, cfr G. Durand, Figures mythiques et visages de l’œuvre, Berg International, Paris 1979, nonché del nostro “L’imaginaire baroque: approche morphologique à partir du structuralisme figuratif de G. Durand”, in Cahiers de l’Imaginaire (Privat N°3-1989), ripreso in J.J. Wunenburger, La vie des images, Presses universitaires de Grenoble, 2002.
[3] L’ipotiposi «peint les choses d’une manière si vive et si énergique qu’elle les met en quelque sorte sous les yeux, et fait d’un récit ou d’une description, une image, un tableau ou même une scène vivante», vedi P. Fontanier, Les figures du discours, Flammarion, Paris 1968, p. 390.
[4] Cfr G. Lapouge, Utopies et civilisations, Flammarion, Paris 1978.
[5] A. Prévost, Thomas More et la crise de la pensée européenne, Mame, Paris 1969. L. Marin, Utopiques, jeux d’espace, Ed. de Minuit, Paris 1973.
[6] Cfr il nostro Freud, science ou religion. Nouvelle biographie critique, L’esprit de temps, Le Bouscat Cedex 2013.
[7] M. Weber, Essais sur la théorie de la science, Plon, Paris 1965, p 180.
[8] Cfr. R. Caillois, “De la féérie à la science-fiction”, in Obliques, preceduto da Images, Images, Gallimard, Paris 1987 (Editions Stock, 1975).
[9] Cfr. F. Tristan, Le monde à l’envers, Hachette-Massin, Paris 1980.
[10] Cfr. N. Cohn, Les fanatiques de l’Apocalypse, Juillard, Paris 1962.
[11] Cfr il nostro studio “La société pouponnière: métamorphoses de l’utopie” in Milieux, 1985, N° 22, p. 22 e sgg.
[12] C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962, p. 26 e sgg.
[13] Cfr F. Bacon, La Nouvelle Atlantide, citato in P. M. Schuhl, La pensée de Bacon, Bordas, Paris 1949, p. 93.
[14] L. Marin, Utopiques, jeux d’espace, cit., passim.
Jean-Jacques Wunenburger è docente di filosofia presso l’Università Jean Moulin di Lyon; è membro del Centre d’études des Systèmes e direttore del Centre de recherches Gaston Bachelard sull’immaginario e la razionalità dell’Università di Dijon. Tra le sue opere principali ricordiamo: La fête, le jeu et le sacré (PUF, 1977), L’utopie ou la crise de l’imaginaire (Ed Un, 1979), La raison contradictoire (Albin Michel, 1990), Méthodologie philosophique (PUF 1992), La vie des images (PUS, 1995), Philosophie des images (PUF, 1997).
Giorgio Morandi, Natura morta, 1918