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Quel che resta dell’utopia | Kasparhauser 14
A cura di Giuseppe Crivella




APPENDICE 3
Dante e i luoghi, e il luogo-che-non-c’è. Dalla Commedia al De Vulgari Eloquentia
di Flavio Piero Cuniberto

Novembre 2016

«It is not down in any map; true places never are»
Hermann Melville

I. Paesaggi danteschi? I luoghi della Commedia e il paradiso terrestre come luogo u-topico

I.1 Per eliminare subito quelli che Bacone chiamava idola fori, parlare di «paesaggi» danteschi sarebbe del tutto improprio. Il paesaggio moderno, dispiegato, «a volo d’uccello», si annuncia se mai nel Petrarca dell’Africa, delle Lettere, per nascondersi subito dietro il paravento dell’introspezione (l’«invenzione» letteraria del paesaggio moderno deve aspettare i Commentari di Enea Silvio Piccolomini). Dante è astronomo, geografo, metereologo, non è mai paesaggista: l’«aura di maggio» che soffia profumata di erba e di fiori (Purg. XXIV, 145-151), o l’aurora («la concubina di Titone antico») che si imbianca al «balcone d’oriente» (Purg. IX, 1-9), o le «acque nitide e tranquille» del canto III del Paradiso (III, 10) sono situazioni visive e olfattive legate al ciclo delle stagioni e al variare della luce, ma non paesaggi. Il favoloso «tremolar della marina» del primo canto del Purgatorio (Purg. I, 117) non è un paesaggio marino, è un’impressione ottica dove il mare fa tutt’uno con l’inconfondibile scintillio argentato o dorato della superficie illuminata dal sole. E’ una fisica poetica che rinnova Lucrezio.
Ci sono poi i luoghi evocati a partire da un tratto saliente, pars pro toto: il «crudo sasso intra Tevero ed Arno» della Verna (Par. XI, 106), il «gibbo» del Monte Catria (Par. XXI, 109), lo «dolce piano» che scende dalle risaie vercellesi verso l’Adriatico (Inf. 28, 74), la Maremma che «disfa» (Purg. V, 134), o ancora quell’«italica erba» (Par. XI, 105) che è forse la più folgorante e toccante metonimia della poesia universale. Ma non sono paesaggi, perché sono appunto metonimie, tratti fisiognomici pregnanti che servono a evocare il luogo e non certo a descriverlo. La sinteticità delle notazioni metonomiche dantesche richiama se mai la sinteticità stenografica, riduttiva e stilizzante, della pittura trecentesca di paesaggio (che «paesaggio» non è, anche nel caso ingannevole del Buon Governo lorenzettiano). Dalla roccia spigolosa con un cespuglio sparuto che «sta per» la montagna coperta di boschi a quella singolare, efficacissima riduzione stenografica a cui sono sottoposte le strutture architettoniche per esempio nella pittura di Giotto, dove una piccola edicola marmorea può alludere al Tempio di Gerusalemme (come nel Gioacchino scacciato dal Tempio, agli Scrovegni).
Costellata di luoghi — che non sono paesaggi — la Commedia finisce per apparire come una grandiosa carta topografica dell’Italia con sconfinamenti nelle regioni limitrofe (la Provenza, la Catalogna, la Dalmazia.). Ed è così vero che non sono paesaggi — il paesaggio comporta sempre un elemento descrittivo e una visione a campo lungo — che sono in realtà soprattutto nomi. La Commedia è costellata di nomi e di toponimi: questa grande carta topografica dell’Italia è anzitutto una toponomastica dell’Italia (dove l’elemento poetico-musicale del nome finisce addirittura per prevalere sull’evocazione visiva del luogo, consegnata perlopiù a una singola immagine, come si diceva, spesso folgorante). Toponimi ricordati e perciò nostalgici, come la doppia istantanea di «Siena» e della «Maremma» nel ricordo-flash di Pia dei Tolomei (Purg. V, 134). [1]

I.2 Se poi al naturalista (o al metereologo) subentra il geografo puro, è come aprire una carta geografica e vagare, per esempio, dal Vercellese all’Adriatico seguendo il «dolce piano» inclinato della Valle Padana, nella memoria malinconica di Pier da Medicina («rimembriti di Pier da Medicina, /se mai torni a veder lo dolce piano/ che da Vercelli a Marcabò dichina») (Inf. XXVIII, 73-75). Che non è un paesaggio perché nessun occhio umano (escludendo il caso della veduta aerea o aerospaziale) è in grado di cogliere con un solo sguardo l’intero piano inclinato. Seguendo la sua carta, il geografo non si ferma e sconfina: verso Cattolica, verso Fano, dove l’evocazione dell’Adriatico si espande a sua volta in una più ampia evocazione dell’intero Mediterraneo, «tra Cipro e Maiorca» (vv.82-83). La prospettiva si allarga come lo sguardo del geografo, che può spaziare agile da un luogo all’altro o meglio da un nome all’altro. È un grandioso paesaggio di nomi.

I.3 Tra i molteplici non-paesaggi danteschi, la «divina foresta spessa e viva» del canto XXVIII del Purgatorio ha però una fisionomia sui generis: si presenta come una rivisitazione affascinante del locus amoenus della tradizione classica – la brezza leggera, le foglie fruscianti -, ma è anzitutto, nel quadro del viaggio dantesco, il gan ’eden, il Giardino o Paradiso Terrestre. Ossia il Luogo dei luoghi. Il formidabile cortocircuito che si genera qui tra il Luogo assoluto e i luoghi (al plurale) nasce dal fatto che il locus amoenus di Matelda porta in sé la memoria di un luogo fisico preciso, la Pineta di Ravenna, e l’evocazione metafisica del Luogo viene così a coincidere con la memoria elegiaca di un luogo amato: «tal qual di ramo in ramo si raccoglie ?il frastuono soave delle schiere alate? per la pineta in su’ lito di Chiassi / quand’Eolo Scirocco fuor discioglie» (XXVIII, 19-21).
Tralasciando le complesse questioni esegetiche sollevate dal testo (a cominciare dalla figura enigmatica di Matelda, il cui rapporto col luogo è così stretto da coincidere alla fine col luogo stesso), è la «natura» di questo luogo che conviene anzitutto interrogare. Che non sia un luogo terreno ordinario è implicito nella collocazione oltremondana del viaggio: è un luogo che, empiricamente, non troviamo, non esiste, anche se la cosiddetta «geografia» della Commedia lo colloca sulla cima della montagna del Purgatorio come passaggio obbligato dall’imbuto dei gironi infernali e purgatoriali al cono luminoso delle sfere celesti. Il punto decisivo è che rispetto ai tre regni ultramondani il paradiso terrestre ha però uno status molto singolare. Intanto è «terrestre», e se è terrestre non è davvero ultramondano: non si riferisce, cioè — come direbbe il linguaggio della teologia — al destino ultraterreno dell’anima — ma si riferisce se mai a un luogo che ha avuto realtà nel passato, ossia il luogo mitico originario, il gan ’eden, l’hortus deliciarum della Genesi. Un luogo perduto, che dopo la «cacciata» della coppia originaria dovrebbe stare alle nostre spalle e appartenere alla nostra memoria (mitica) e non al nostro presente (mentre supponiamo che i tre regni – ancorché ultramondani siano attualmente «presenti»). Si pone allora la domanda: come fa Dante ad attraversare «al presente» un luogo «al passato»? Nella «geografia» del poema il paradiso terrestre introduce una forte discontinuità: non sembra stare sullo stesso piano diciamo «ontologico» degli altri «luoghi».

I.4 Se infatti Dante lo attraversa «al presente» (benché, nel racconto biblico, appartenga al passato), ciò vuol dire che è tuttora un luogo terrestre (benché sottratto all’esperienza ordinaria). È quello che alcune tradizioni orientali chiamano «terra celeste», latente dietro le forme fisiche dei luoghi fisici, e approdo possibile di un viaggio che non è, anzitutto, un viaggio nello spazio, ma un viaggio di natura spirituale o metafisica, una sequenza di stati spirituali o «stazioni» che sono nello stesso tempo luoghi, e non «luoghi» metaforici ma luoghi reali di una cosmologia «sottile». Ma se il Paradiso di Matelda è tuttora un luogo terrestre, ed è inaccessibile all’esperienza ordinaria, il suo rapporto col mondo che appare — con la varietà dei luoghi fisici, fenomenici — sarà un rapporto di latenza-immanenza: come un luogo nascosto e diffuso, che si sottrae all’esperienza immediata ma che, a certe condizioni, può essere attraversato. Questo luogo è (al presente) il Centro nascosto. Il cortocircuito — liricamente straordinario — tra il Luogo di Matelda e la Pineta di Classe, sta a suggerire che questo Luogo è latente-immanente alla Pineta di Classe (perché è questo il supporto biografico da cui Dante approda, liricamente, al Luogo Assoluto).

I.5 Non esiteremmo a definirlo un luogo «mitico» se Dante non ne proponesse una elaborata teologia (i canti XXVIII e XXIX del Purgatorio) che è uno dei vertici del suo pensiero (e se dovessimo indicarne i riferimenti teologici non li troveremmo nella Scolastica del ’200 ma nello Scoto Eriugena del De divisione naturae o negli Inni di Efrem). Lasciamo da parte, come si diceva, la «selva» esegetica, per trattenere nel setaccio i dati essenziali. Probabilmente Matelda «è» il Luogo stesso in cui ci troviamo, ma andiamo oltre. La fanciulla procede con passi eleganti e ritmici — passi di danza — sul prato fiorito, cogliendo «fior da fiore». La sua dotta allusione al Salmo 92 ha lo scopo di fargli capire — a Dante spaesato — dove siamo: è infatti il Salmo che assimila il Giusto (lo tzaddiq che Dante sta diventando nel suo cammino) a un organismo vegetale («come il cedro, come la palma»). Siamo dunque, anche nel Salmo 92, o meglio nel Giardino, dove il Giardino e il Giusto sono in realtà la stessa cosa. Ma poiché è anche il Salmo dell’esultanza connessa a quella che noi chiameremmo la «creazione», «l’opera delle tue mani» (la semantica della creazione è infelice e troppo complessa per esaminarla qui), l’allusione di Matelda è chiarissima: la «divina foresta» è appunto il luogo del Salmo 92, il Giardino ossia lo Tzaddiq, ossia la realtà stessa nella sua condizione originaria e gloriosa. Matelda sta dicendo che il paradiso terrestre, il Giardino, non è una porzione, sia pure eletta, della natura originaria, ma è questa stessa natura originaria, e che questo luogo non è «al passato» ma «al presente». Nei termini del Nuovo Testamento (che qui Dante non utilizza) si dovrebbe chiamarlo il Regno: che è celeste, sì, ma come l’Albero maestoso o il maestoso regno arboreo su cui si posano gli uccelli del cielo. Celeste nel senso di una terra celeste (come è celeste la Vigna nel suo arborescente diramarsi).
Ecco dunque il teologema nascosto che Dante suggerisce in queste righe: il Giardino in cui siamo è il luogo stesso della creazione intesa come la «crescita» universale, come il venire alla luce arborescente di tutto ciò che viene alla luce. Un «luogo» sottratto alla percezione ordinaria e tuttavia latente nei luoghi fisici di «questa» terra, perché a determinate condizioni è possibile attraversarlo: allo stesso modo, si potrebbe dire, in cui l’Ur-pflanze goethiana — la Pianta Originaria — è latente-immanente a tutte le varietà vegetali, che sono le innumerevoli variazioni fenomeniche su un tema nascosto. In quanto Giardino è poi un luogo circoscritto: è questa natura circoscritta, il limite che lo delimita, a rendere possibile il suo ritmo vivente, che è il ritmo della crescita (della vita) e insieme il ritmo del canto.

I.6 Ma la teologia del Giardino non finisce qui. Prima ancora di suggerirgli il «teologema nascosto» (ossia l’identità tra il Giardino e la Natura originaria in quanto opera divina), Matelda impartisce a Dante una breve lezione di «botanica trascendente». La selva, percorsa da una brezza leggera, si impregna delle «virtù» balsamiche presenti nel Giardino: è un luogo di una sensuale pregnanza olfattiva. Ma ecco il punto: gli effluvi balsamici di questa terra superiore (o celeste) raggiungono «l’altra terra», la terra empirica, che produce a sua volta una grande varietà di specie arboree (di «legni») secondo le proprietà del terreno e del «cielo» sotto il quale si trova. Insomma: la geografia della vegetazione terrestre è un effetto localmente differenziato degli effluvi che provengono dalla terra superiore. Questo motivo degli «effluvi» suggerisce insomma un rapporto di continuità fisica tra il Giardino e i luoghi della terra empirica (che è una variante narrativa del rapporto a cui si accennava tra la Pianta Originaria e le piante fenomeniche): si potrebbe dire che in virtù di quegli «effluvi» il Giardino originario «filtra» nei luoghi del mondo fisico ordinario, della terra empirica. [2]


II. La Pantera Profumata come figura del Centro latente

II.1 Il Paradiso Terrestre — il regno di Matelda — è un luogo che può essere raggiunto a determinate condizioni. Essendo un luogo presente, ma nascosto all’esperienza ordinaria, il suo manifestarsi presuppone un itinerario (spirituale) che è appunto la lunga e penosa catarsi della prima Cantica. Il «bruco» deve diventare «farfalla». Tutto questo è abbastanza ovvio, ma trova un preciso sigillo teologico-dottrinale alla fine del canto XXVII, quando Virgilio, prima di congedarsi, «incorona» il poeta ormai degno di entrare nel gaudium edenico («perch’io te sovra te corono e mitrio» ?XXVII, 142?). Il passo è troppo pregnante perché si possa pensare di scioglierlo in due parole. Le corone in effetti sono due, o meglio: una corona e una mitra, le insegne della dignità regale e sacerdotale. Sul significato di questo doppio conferimento (che suggella lo status spirituale del poeta sulla soglia dei «regni superiori») si potrebbe discutere a lungo, a cominciare dalla questione della «regalità». Certo è che l’imposizione della corona non ha qui né un significato politico (è ovvio), né un significato riconducibile alla liturgia cristiana (la regalità di Cristo, la regalità della Vergine): ha un significato propriamente metafisico, ossia si riferisce all’assunzione di uno stato spirituale (o anche «ontologico») che permette a Dante l’ingresso nel Giardino (che è come sappiamo il Luogo della Creazione nel suo stato originario).

II.2 La divina foresta spessa e viva del canto XXVIII non è un paesaggio: è il Luogo Assoluto, è il gan ’eden in quanto Centro, o luogo di tutti i luoghi (nel senso biblico del Cantico dei cantici, shir ha shirim: che qui diventerebbe maqom ha-maqomot «il Luogo dei luoghi»). È, come si diceva, il Giardino, nella sua valenza ritmica di chiusura e apertura, che è il ritmo della crescita vegetale (il Giardino è il Luogo Vegetale), ed è nello stesso tempo il ritmo della parola modulata, del canto (o anche della danza: i passi ritmici di Matelda). Ma si è visto che Dante è molto esplicito nel suggerire che questo Luogo è «contiguo» ai luoghi terrestri: nel senso di una contiguità latente, di una presenza nascosta richiamata — con immagine potente — dalla figura delle varietà arboree, dei «legni», che riflettererebbero qui, nel mondo fisico, la varietà dei «balsami», delle qualità paradisiache. Il pardes è il nocciolo invisibile e fiammante della natura creata e «velata» (come in Efrem, come nelle leggende medievali degli «effluvi» paradisiaci).
Questo rapporto di contiguità latente tra il Giardino e i luoghi fisici nella loro varietà, trova una formulazione straordinaria nel quadro assai diverso del De Vulgari Eloquentia. Troviamo infatti qui lo stesso schema metafisico trasposto su un altro piano: la ricerca della lingua volgare come centro nascosto della varietà dialettale italiana. Ma a rendere straordinaria la formulazione è il fatto che in questa ricerca ritroviamo il «paesaggio» (le virgolette sono sempre obbligate), ossia che la quête dell’idioma centrale viene qui a coincidere con la quête di un centro anche geografico, ossia in sostanza di un luogo, che sarà il centro del «paesaggio» italiano come paesaggio linguistico. Non sarebbe improprio dire che Dante va qui alla ricerca dell’umbilicus Italiae, inteso però anzitutto come baricentro linguistico, come luogo matriciale delle isoglosse italiche: fermo restando che la ricerca si muove nello spazio geografico, ed è pertanto, in modo palese, la ricerca di un centro che non c’è.

II.3 La genialità della trovata narrativa è senza pari: Dante immagina di sorvolare la penisola (come un Astolfo ante litteram), seguendo, come direttrice, la spina dorsale dell’Appennino. Gli si aprono così i due versanti: a oriente l’Adriatico, fino alla Padania, a occidente il Tirreno, fino al golfo ligure. Questa visione aerea dell’Italia (l’Ytalia di Cimabue negli affreschi di Assisi) è un mosaico di regioni, di paesi (e noi diremmo anche «paesaggi»), e nello stesso tempo di idiomi o «parlate» locali:
«Per prima cosa diciamo dunque che l’Italia è divisa in due parti, una destra e una sinistra. E se qualcuno vuol sapere qual è la linea divisoria, rispondiamo in breve che è la catena degli Appennini [iugum Apenini]: la quale, come una grondaia sgronda da una parte e dall’altra le acque in opposte direzioni, riversa le acque e le canalizza verso i due opposti litorali [...]: il litorale destro ha come bacino di raccolta il mar Tirreno, il sinistro l’Adriatico [e di qui risulta che il volo avviene da nord verso sud, col Tirreno alla destra e l’Adriatico alla sinistra]. E le regioni di destra sono la Puglia, però non tutta [e infatti Dante intende per ‘Puglia’, Apulia, più o meno l’Italia meridionale], Roma, il Ducato [di Spoleto], la Toscana e la Marca Genovese; mentre le regioni di sinistra sono una parte della Puglia, la Marca Anconetana, la Romagna, la Lombardia, la Marca Trevigiana e Venezia. Quanto al Friuli e all’Istria, appartengono all’Italia di sinistra, mentre le isole del Mar Tirreno, la Sicilia e la Sardegna, non possono che appartenere all’Italia di destra, o almeno vanno associate ad essa» (I X 3-6).
La mappa caleidoscopica dei luoghi è una caleidoscopica mappa dialettale. Anche qui, come nella Commedia, è il geografo e il cartografo a tenere banco: il sorvolo avviene sulle ali della carta geografica, accostandosi via via alle varie tessere del mosaico. E se la mappa della Commedia era anzitutto una carta toponomastica — un paesaggio di nomi evocativi — qui si passa a una mappa in certo modo musicale, o linguistico-musicale, dove i luoghi sono associati a un idioma, a un accento, a una «voce». Da un paesaggio di nomi siamo passati a un paesaggi di voci.

II.4 Si dirà che è un «paesaggio» metaforico, e in effetti non è qui l’Italia come paesaggio a interessare. C’è però anzitutto la questione del «centro»: pur non essendo un’entità politica, l’Italia è un’entità geografica dai confini piuttosto definiti, e aspirando a diventare un’entità politica — «ahi serva Italia, di dolore ostello» — va alla ricerca di un centro che è, più esattamente, un b a r i c e n t r o, e precisamente un baricentro linguistico. L’idea dell’Italia come spazio unitario, che qui è incontestabile, ha come fulcro una unità linguistica che è però disseminata in una sconcertante varietà di parlate regionali. Insomma: se l’Italia è una — e per Dante lo è — deve avere un centro (linguistico), ossia un idioma comune, o un idioma-matrice. Ma ecco il punto: questo centro non c’è. E se non esiste un idioma centrale che possa fungere da «misura» comune per i singoli idiomi locali (che saranno allora più o meno lontani dal centro), come posso delimitare questo territorio linguistico e parlarne come se fosse già qualcosa di unitario? Il problema del volgare illustre è esattamente questo, ed enunciato in questi termini appare come un problema impossibile. Lo spazio «italofono» è tale in virtù di un centro assente.

II.5 Il primo colpo di genio — il sorvolo panoramico della Penisola — era di natura teatrale, quasi «cinematografica». Il secondo colpo di genio è propriamente teorico: è una mossa del filosofo (e non più del geografo). Dante potrebbe adottare qui un paradigma aristotelico, cioè induttivo, e ricavare per così dire un «distillato» dei singoli idiomi (così come Aristotele ricava la «costituzione» ideale dall’esame induttivo delle costituzioni reali). Potrebbe procedere sovrapponendo i vari idiomi fino a ottenere un «profilo medio» o comune, che non apparterrebbe perciò a nessun individuo determinato e sarebbe perciò una astrazione. Ma non procede così: il volgare illustre vuole trovarlo davvero, come qualcosa che c’è. Non lo pensa come una lingua artificiale costruita con pezzi delle parlate regionali (come un «esperanto»). Lo pensa come una lingua vera e propria, una lingua «regale e curiale» (ritroviamo qui le due corone del canto XXVII: la corona e la mitra), ossia una lingua così nobile da poter funzionare come la lingua di un Impero (dove, more ghibellino, le due dignità regale e sacerdotale si sommano). L’Imperatore non può accontentarsi di un misero artefatto «a posteriori». Peccato che questa lingua non esista.
Avanza allora un’ipotesi fortissima: questo idioma di cui va alla ricerca — un idioma che è «volgare» perché non è il latino, ed è tuttavia illustre perché ha da essere una lingua aulica, di corte — al tempo stesso c’è e non c’è. È come la pantera profumata del mito dionisiaco, di cui si avverte ovunque il profumo (di nuovo il profumo, il «pardes» spande sempre il suo profumo) ma che non è in nessun luogo. L’immagine splendida — che richiama le tradizioni e le leggende sugli «effluvi» paradisiaci — suggerisce uno status «ontologico» peculiare, quello di un’entità che è reale senza essere esistente. Ma questo è il modo di essere proprio dell’idea platonica, che è una realtà non visibile e non esistente in senso fattuale, senza essere per questo meno reale (non ha nulla a che fare col concetto, che è un’astrazione ottenuta spogliando le cose individuali della loro individualità, come «denominatore comune», mentre l’idea non è astratta, è l’universale concreto, che precede e non segue le singole individuazioni). L’idea (platonica) è reale non in quanto esiste — fattualmente — ma in quanto agisce, in quanto crea un campo di forza. Non la vediamo ma c’è, e si tratta se mai di portarla alla luce. Questo è il compito che Dante si attribuisce nel De vulgari eloquentia (e quindi, operativamente, nella Commedia): portare alla luce — come la levatrice socratica — quell’idioma comune che al momento non appare e nondimeno c’è, come idea latente e immanente alla varietà degli idiomi locali. Questo idioma latente-immanente — l’idea della lingua italiana — è il centro nascosto dello spazio linguistico, ed è ciò che permette di riconoscere la varietà degli idiomi regionali come varietà di un unico idioma.

II.6 È come se i dialetti fossero le immagini che si formano in uno specchio deformante: smorfie più o meno grottesche di un volto che però non vediamo. Ma la de-formazione presuppone una forma. Un volto viene percepito come grottesco, come caricaturale, solo se sappiamo che cos’è un volto non grottesco. Dobbiamo dunque concludere che il volgare illustre, di cui andiamo alla ricerca, al tempo stesso c’è e non c’è. «Dopo aver cacciato per boschi e pascoli d’Italia senza aver trovato la pantera ?pantheram? che inseguiamo, per poterla rintracciare sarà bene procedere con un metodo più razionale, cosicché, con un’attenta ricerca, si possa finalmente catturare questo animale di cui si sente ovunque il profumo ma che non si vede da nessuna parte ?redolentem ubique et necubi apparentem?» (cap.XVI).
Poiché i vari idiomi impregnati dal profumo dell’unica lingua — dallo spoletino al genovese, al siciliano, al lombardo — sono parlate locali, portano già nel nome l’impronta di un luogo, quell’idea che chiamiamo «volgare illustre» porterà anch’essa l’impronta di un luogo, che è l’Italia in quanto Idea. Se i dialetti sono tenuti insieme da qualcosa che non appare ma c’è (l’idea della lingua), così le regioni — i boschi e i pascoli delle varie regioni, i paesaggi regionali — saranno tenute insieme da qualcosa che non appare ma c’è, appunto come Idea (l’Italia in quanto Idea, in quanto paese o paesaggio ideale). L’Italia è quel luogo ideale (e in questo senso «centrale») che regge invisibilmente la varietà dei singoli luoghi, da Trento alla Sicilia (e li tiene insieme linguisticamente). È ciò per cui è possibile parlare dell’Italia come di qualcosa di unitario.

II.7 Lo scenario del De vulgari eloquentia è in realtà vertiginosamente più ampio dello spazio «italofono»: è l’intero ambito delle lingue umane come lingue derivate da una lingua comune e originaria. Che poi questa lingua sia o non sia l’ebraico, ha qui un’importanza molto relativa perché è decisivo invece il movimento d’insieme: quel movimento che va da una lingua centrale (o originaria) al suo differenziarsi nei vari ambiti linguistici, che sono però altrettanti centri, e suscettibili perciò di diramarsi in una caleidoscopica varietà di idiomi locali. E si potrebbe avanzare un’ipotesi (che Dante non esplicita): come il «volgare illustre» si nasconde dietro la varietà dei dialetti, allo stesso modo la lingua centrale, ossia originaria, si nasconde «al presente» nella varietà delle lingue.
L’essenziale è che Dante pone qui sotto la sua «lente» dapprima lo spazio delle lingue romanze, e quindi, all’interno di queste, l’area italofona. È come una doppia «zoomata» dalla protolingua centrale all’area romanza, e da questa a una lingua locale (l’italiano), a sua volta differenziato nella varietà dei dialetti. Ognuno di questi «centri» ha infatti la proprietà di differenziarsi in una pluralità di sotto-centri via via più locali. Anche se poi l’intero organismo arborescente continua a essere retto dall’unica linfa dell’unica radice. È come un Centro che si riflette in una varietà di centri-immagine, ciascuno dei quali possiede, nel proprio ambito, la prerogativa appunto del centro.

II.8 Ma torniamo allora al canto di Matelda: la «divina foresta» impregna delle sue essenze le specie vegetali della terra ordinaria allo stesso modo in cui il volgare illustre — la pantera — spande il suo profumo ovunque, restando invisibile. Il rapporto di latenza-immanenza che sussiste, nel De vulgari, tra l’«arrière-langue», il volgare illustre, e i vari idiomi, è perciò identico al rapporto che sussiste, nella Commedia, tra il paradiso terrestre come Luogo centrale e i luoghi fisici: non è un luogo perduto, sparito, perché «insiste», al presente, sul mondo fisico, ed è all’origine delle sue essenze più odorose. È la «contrada suprema», nascosta e immanente alla varietà dei paesaggi fisici o mondani (anche se forse — come nel caso degli idiomi — non è immanente ovunque con la stessa intensità, e si può allora pensare che, per quanto nascosta, sia nondimeno in qualche misura localizzabile, secondo una gerarchia dei luoghi che è poi uno dei temi centrali di ogni geografia sacra, di ogni «geoteologia»).
Il canto XXVIII del Purgatorio non potrebbe essere più esplicito: il «giardino piantato a Oriente», l’Eden biblico, diventa qui un meta-luogo che non è però un luogo meta-fisico in senso neoplatonico-cristiano, ossia una metafora di qualcosa che non è un luogo. È al contrario il Luogo per eccellenza, il proto-luogo (perché è il luogo dove il mondo viene alla luce nella sua forma verdeggiante e gloriosa), che non è «perduto» nel senso di poter essere soltanto ricordato, ma è invece latente-immanente ai luoghi fisici: le sue qualità sottili filtrano nell’«altra terra» — la terra opaca, il mondo fenomenico — e si trasmettono anzitutto a quella regione elettiva della terra opaca che è il mondo vegetale, la sfera delle essenze e degli aromi. Questa latenza-immanenza «odorosa» è il segreto e la chiave dell’esperienza poetica dei luoghi in quanto tali («lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina», «la divina foresta spessa e viva ch’a li occhi temperava il novo giorno», «i verdi paschi» della pianura veneta). La geoteologia dantesca dissolve così una volta per tutte l’equivoco mimetico: l’eterna e stanca teoria (neoplatonica ma non platonica) del visibile come «immagine» dell’invisibile. Non ne è l’immagine perché lo porta dentro di sé, materialmente, e allora l’invisibile non è più davvero invisibile, e meno che mai sarà qualcosa di incorporeo. Di questa «insistenza», materiale e frammentata, dell’idea nella cosa, si ricorderà — senza pensare a Dante — Walter Benjamin, nella geniale Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco.


[1] La funzione del nome — del nome proprio — non è descrivere, ma designare un’individualità. La potenzialità paesaggistica del nome geografico è vicina allo zero: il Soratte imbiancato di neve («vides ut alta stet nive candidum Soracte») nel famoso verso di Orazio (Carmina, I,9) evoca il paesaggio invernale (la neve, il gelo) ma non lo descrive: è tutt’al più un embrione di paesaggio, che però non viene sviluppato.

[2] Che il paradiso terrestre sia il luogo della «crescita» come un continuo differenziarsi (come l’albero si differenzia diramandosi) è già nell’immagine della campagna «santa» che «gitta» fuori di sé la varietà cromatica delle forme floreali. La varietà cromatica (e il suo differenziarsi) viene qui a simboleggiare la varietà delle forme tout court. Come risulta, in forma programmatica, dalla grande scena del canto successivo (XXIX, 43-78), dove la «macchina» del sette fiamme (o alberi-fiamme) funziona come il principio incolore della varietà cromatica: è come se la luce bianca, passando attraverso un prisma invisibile, si scindesse nei colori dell’iride o dell’arcobaleno (le «sette liste»). Ma il prisma non c’è, o meglio: il prisma, la «lente» che opera la diffrazione luminosa è il luogo stesso, la campagna santa che «gitta» da sé — come per diffrazione — la varietà cromatica, la poikilia.



Codice Divina Commedia, Imola, XV secolo (Inf, XIII vv 124-132)

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