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Quel che resta dell’utopia | Kasparhauser 14
A cura di Giuseppe Crivella




II. DIALETTICA DELL’UTOPIA
II.3 L’ingranaggio e la pagina

Novembre 2016

Pochi romanzi possono vantare un esordio che saldi in uno stesso plesso di immagini e descrizioni un incontenibile afflato di vibrante lirismo con una dettagliata scena di distruzione. Fahrenheit 451 ci riesce in un modo a dir poco magistrale. Vale quindi la pena riportare il formidabile incipit di questo romanzo pubblicato nel 1953:
Era una gioia appiccare il fuoco.
Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia. Col suo elmetto simbolicamente numerato 451 sulla stolida testa, con gli occhi tutta una fiamma arancione al pensiero di quanto sarebbe accaduto la prossima volta, l’uomo premette il bottone dell’accensione e la casa sussultò in una fiammata divorante che prese ad arroventare il cielo vespertino, poi a ingiallirlo e infine ad annerirlo. Egli camminava dentro una folata di lucciole. Voleva soprattutto, come nell’antico scherzo, spingere un’altea su un bastone dentro la fornace, mentre i libri, sbatacchiando le ali di piccione, morivano sulla veranda e nel giardinetto della casa, salivano in vortici sfavillanti e svolazzavano via portati da un vento fatto nero dall’incendio.
Montag ebbe il sorriso crudele di tutti gli uomini bruciacchiati e respinti dalla fiamma. [1]
La distopia immaginata da Bradbury ha sembianze molto diverse da quella orwelliana. L’inizio, ad esempio, è all’insegna di un portato latamente euforico: Montag è un ingranaggio fra gli ingranaggi; egli porta il fuoco, è vettore di una luce abbagliante e famelica — rispetto all’untuoso grigiore di 1984 — pervasivamente distruttiva, simbolo di estinzione lucidamente perseguita, emblema di una cancellazione minutamente condotta a termine; la fiamma alitante del suo fidatissimo strumento di lavoro opera qui come un immediato elemento di discriminazione tra il bruciabile e l’incombusto, tra la remissiva presenza della carta divorata senza speranza dal fuoco — carta simbolo dei libri, i libri specimina di parole e segni capaci ancora di postulare mondi possibili altri rispetto a quello in cui vive il protagonista — e quanto non può ardere in alcun modo, il metallo e il cemento propri di un mondo perfettamente centrato su se stesso.

Giubilo e soddisfazione sono le reazioni e le emozioni di Montag, il primo legato al processo di variopinta distruzione a cui egli dà luogo — le sequenze dedicate alla rappresentazione degli incendi sembrano descrizioni di aerei e immateriali quadri astratti, come se nelle sfumature cromatiche che si liberano dalla carta bruciata venissero a trasfigurarsi i significati di libertà contenuti nelle pagine ormai polverizzate — la seconda pronta sempre a manifestarsi nell’attimo in cui Montag riflette su quanto ha appena fatto.

Se per Orwell si trattava di illustrare la storia di uno smascheramento, di un processo minuzioso ma ostinato — e non del tutto riuscito — di demistifcazione condotto sul linguaggio tramite il linguaggio, in Bradbury l’impostazione e gli intenti mutano del tutto e la trama si avvolge completamente attorno al processo di maturazione che interessa Montag. La distopia è smontata dall’interno: a venire meno è all’improvviso una componente rilevante della possente macchina(zione) tecnologica su cui si regge il governo. Qui il protagonista non è semplicemente sottoposto ai dispositivi di controllo e censura, ma è esso stesso uno di questi dispositivi, ne incarna a pieno le procedure di rimozione: in modo definitivo — e giubilatorio — egli cassa ciò che potrebbe indurre al dubbio, alla riflessione, alla incrinatura di una perplessità. Il mondo deve apparire invece un puro specchio riflettente, mimare la piatta vacuità di un pensiero senza contenuto, senza nerbo, senza spessore, finalizzato unicamente a incamerare dati precostituiti e già ampiamente disinnescati rispetto a ogni carica critica.

Montag è così particella infinitesima ma essenziale di questo mostruoso e ben calibrato meccanismo che fagocita informazioni scomode e non inquadrabili. Tuttavia egli, quasi involontariamente e inconsapevolmente, ha una caratteristica inestirpabile: è capace di pensiero; sebbene programmato per distruggere ciò che induce alla riflessione, egli reca insanabilmente in sé i germi temibili di quella attività che lui è chiamato a osteggiare e interrompere. Fahrenheit 451 è quindi la storia di una effrazione endogena che si produce nel sistema in modo inaspettato ma inarrestabile. La configurazione distopica qui genera dal proprio seno gli anticorpi che dovranno mettere fine ad essa. Se con Orwell l’utopia si era estroflessa in un accavallamento ordinato e fecondo di distopia e parodia, qui è proprio la prima a secernere i presupposti fecondi per una liberazione traumatica dalle calcificazioni opprimenti in cui si manifesta il potere.

Ancora una volta utopia e distopia intrattengono un rapporto controverso, di intestina e paradossale interdipendenza, non conflittuale ma di sotterranea congruenza e convergenza. La rinascita “intellettiva” di Montag corrisponde ad un cedimento progressivo dei vincoli e dei legami che il potere aveva tessuto intorno a lui. Ma il fatto che sia proprio un soggetto che incarnava i mezzi di salvaguardia e proliferazione di quei vincoli ad uscire dal sistema, rende il collasso endogeno del potere non solo più grave, grottesco e irreparabile, ma ne rivela anche tutta la profonda vulnerabiltà. È ancora una volta la fiamma a fare da discrimen tra il versante distopico e quello utopico, versante quest’ultimo nervosamente orientato verso una liberazione rivoluzionaria e catastrofica. Si legga il seguente passo tratto dal secondo capitolo:
con un ultimo balzo nell’aria [il Segugio] piombò su Montag da un buon metro al di sopra della sua testa con le sue zampe di ragno, protese il pungiglione alla procaina che spuntava fuori come un unico dente velenoso. Montag lo colse al volo con uno sboccio di fuoco, un solo stupendo sboccio che si arricciò in petali gialli, azzurri e arancione intorno al cane di metallo, lo rivestì di una nuova corazza nell’istante in cui piombava su Montag e lo respingeva per una decina di passi contro il tronco di un albero, sempre col lanciafiamme tra le mani. Montag sentì che il Segugio si agitava pazzamente, gli afferrava una gamba e aveva già cominciato a piantargli l’ago – un solo istante – nella gamba: ma in quel momento il getto di fuoco lanciò il Segugio in aria, facendo scoppiare le sue ossa metalliche alle giunture, mentre l’interno esplodeva in una sola fiammata rossa, come un razzo aereo legato alla strada. Montag disteso per terra vide la creatura morta-viva morire. [2]
Dopo aver dato fuoco alla propria casa — spazio di sedimentazione decennale delle strutture di potere alienanti e livellanti — Montag fugge alla ricerca di un luogo estraneo, altro, alieno da ogni alienazione; ma prima di raggiungere questa zone di confine, prima di occupare questa terra di nessuno egli deve affrontare e superare la carica del Segugio meccanico. La scena è intrisa di un forte impulso dinamico e drammatico, l’aggressione alla gamba ricolloca Montag nel suo stesso corpo e al tempo stesso fa sì che il congegno di controllo venga improvvisamente oggettivato come un elemento improprio della sua vita, spingendo in tal modo il protagonista a dargli fuoco.

La fiamma, ora libera, erompe potente fino a distruggere del tutto ciò che conculcava l’autonomia più profonda del soggetto. Se prima la combustione trovava la sua controparte elettiva nella carta — ipostasi palese della carne dei dissidenti — e al libro — simbolo esplicito di un pensiero eversivo condannato al rogo ideologico — ora essa colpisce e devasta direttamente il versante meccanico del governo, divenuto preda di una scissione intestina insanabile, poiché è proprio un suo (ex) funzionario che fa fuoco contro un dispositivo di sorveglianza: le due figure antagoniste del passo appena riportato, prima allineate in una medesima opera di repressione, ora tentano di sopprimersi a vicenda.

Un puntuale e calibrato rovesciamento di termini accompagna la rinascita di Montag: la fiammata distruttiva che divorava i libri in apertura riducendoli in funebri «farfalle di cenere» ora investe direttamente la tecnologia inebetente e livellante che aveva sostituito la pratica della lettura, tramutandola in una farandola variopinta la quale invade e fagocita l’attonito biancore degli schermi spenti. Si legga questo passaggio più che significativo:
e così giunse nel salotto dove i grandi mostri idioti giacevano addormentati coi loro bianchi pensieri e sogni nivei. E Montag lanciò una raffica contro ognuna delle pareti senza vita e il vuoto d’aria delle valvole schermate gli rispose sibilando. La vacuità rese il sibilo ancor più vuoto, un urlo senza senso. Egli cercò di pensare al vuoto su cui si era rappresentato il nulla, ma non poté. Trattenne il fiato poiché il vuoto non avesse a entragli nei polmoni. Ne allontanò la terribile vacuità, indietreggiò e dette all’intera camera un dono un gran fiore giallo, incandescente, di fuoco. Il rivestimento di sostanza plastica a prova di fuoco che ricopriva ogni cosa si spaccò in un largo squarcio e la casa cominciò a fremere tutta di fiamma. [3]
Il fuoco che avvolge lo schermo bianco dei monitors richiama l’infiammarsi improvviso del pensiero dinanzi alla molle catatonia di un asservimento felpato e feroce. Bradbury oppone la pagina gremita del libro, la memoria vigile e solerte del lettore alla sterile inerzia dello schermo, muto e ottenebrante, alludendo in tal modo al fatto che la realtà lobotomizzata del futuro distopico non riesce in alcun modo a produrre un calco mimetico di ciò che il Potere ha generato. La rappresentazione stessa del presente quindi risulta intrinsecamente contraffatta, costitutivamente compromessa ab ovo con quei moduli di raffigurazione che hanno innanzitutto lo scopo di eludere la loro stessa espressione.

La brutale cosmesi a cui il Governo ha dato corpo può solo mostrare gli effetti ma non le matrici in base a cui essa viene resa operante. Lo schermo nudo che appare nell’episodio dell’ecpirosi liberatrice appena riportato rimanda alla incapacità di riflettere su se stessi propria di tutti i raffinatissimi meccanismi di morbida repressione e capillare controllo messi a punto dal Governo, ovvero alla incapacità di riflettere sulle loro disumane finalità, sui loro presupposti sinistramente ideologici, sulle loro pratiche di radicale rimozione psico-fisica dei soggetti non allineati.

La pletora di immagini addomesticate che fiotta ininterrottamente dai monitors strangola lo sguardo degli spettatori, ne occlude le capacità di visione, ne ottunde le capacità immaginative colonizzandole con dei patterns di rappresentazione preformati e stantii, rassicuranti e avvolgenti. La visibilità stessa del mondo dispiegata sugli schermi è la trappola sottile e invisibile in cui si trovano invischiati i personaggi del romanzo: visibilità piatta, assolutizzante e annichilente, presenza pura di una immagine che ostenta se stessa proponendosi quale unica forma di predicazione possibile, legittima e ortodossa riferita al reale.

Danzando sul filo tagliante che mette in contrasto dialettico la pagina scritta con lo schermo vuoto, Bradbury fa scorrere lungo di esso una serie di elementi che, una volta analizzati da vicino e riordinati secondo una precisa chiave di lettura, evocano per forza di cose la felpata fisionomia di una dimensione che possiamo a pieno diritto chiamare ideologica.

Se il libro, come dice esplicitamente il vecchio Faber in un dialogo con Montag custodisce all’interno della sua irrefutabile materialità di oggetto una «una vita che scorre come una fiumana in infinita profusione», [4] lo schermo è ciò che senza essere visto, percepito o notato dà luogo a tutte le figure sensibili che non solo strutturano e popolano la realtà messa a punto dal Governo, ma la rendono accettabile e condivisa, proponendola come l’unica versione possibile, come il migliore dei mondi possibili.

Onnipresente senza essere mai visto nella sua identità di amplificatore ideologico, il monitor è ciò che deve essere guardato poiché, nel momento in cui lo sguardo si posa su di esso, questo si riempie di immagini, informazioni, segni, fattori di una irreggimentazione interpretativa univoca e preordinata della realtà che essi mettono in scena: lo schermo stesso è così simbolo e veicolo della ideologia, pervasivo ma inavvertibile, invadente sebbene sempre irreperibile, spettrale e oppressivo perché sempre protetto dalla folla di figure che esso ininterrottamente secerne. [5]

Forzando forse un po’ la mano, potremmo dire che in Bradbury l’utopia si riafferma con i caratteri precisi e vigorosi di una fenice: essa rinasce dalle proprie ceneri, rifiorisce completamente rigenerata dai cascami informi di una chirurgica distillazione di precipitati distopici che non riescono più ad occupare in modo convincente lo spazio prima appartenuto alla utopia.

Se Orwell richiamava in causa quest’ultima per assimilazione e contaminazione di generi, temi, modi e moduli, Bradbury la fa riapparire in scena non scalzando la distopia o sottoponendola a ibridazione, ma piuttosto dimostrando come questa non possa, condotta ad un certo grado di tensione degli elementi interni, non rovesciarsi nuovamente in una fluida e dinamitarda prospezione utopistica.

La distopia appare ora come una sorta di travestimento vitale, di bozzolo da incubazione in cui l’utopia si è rifugiata per rigenerarsi: essa sorge rinnovata, risanata, potenziata perché alleggerita da quella responsabilità di impegno scientificamente politico a cui la ricezione marxiana l’aveva costretta. Adesso l’utopia è ancora in grado di pronunciarsi sul futuro, sia prospettandone gli esiti nefasti — nella sua coloritura densamente distopica — sia tentando di indicare le eventuali vie d’uscita a fronte di tali esiti. In ottemperanza a quell’afflato prognostico che abbiamo visto essere uno dei caratteri precipui e inestirpabili dell’utopia, questa pertanto da una parte interroga il presente sondandone le possibilità future, dall’altra cerca di progettare l’avvenire vagliando — e scartando — le attitudini degenerative ravvisabili nel presente.
gc


[1] R. Bradbury, Fahrenheit 451, a cura di G, Monicelli, Mondadori, Milano 1989, p. 5.
[2] Ivi, p. 133.
[3] Ivi, p. 129.
[4] Ivi, p. 92. Sebbene non evochi mai il romanzo di Bradbury, Agamben in un saggio de Il fuoco e il racconto sviluppa delle osservazioni molto prossime a quelle contenute in queste pagine di Fahrenheit 451 (cfr G. Agamben, Il fuoco e il racconto, Nottetempo, Roma 2014, pp. 87-111).
[5] R. Bradbury, Op cit, pp. 62 e soprattutto 93. Sorprendente è la prossimità di Bradbury rispetto ad alcune tesi sul cinema e la televisione esposte qualche anno prima dai francofortesi in Dialettica dell’Illuminismo, cfr M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. di L. Vinci, Einaudi, Torino 1966, pp. 125-137.



Remedios Varo, Recuerdos de la Valkiria (1938)

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