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Quel che resta dellutopia | Kasparhauser 14
A cura di Giuseppe Crivella
II. DIALETTICA DELL’UTOPIA
II.2 Progettare (e amministrare) lincubo
Novembre 2016
Abbiamo scelto di concentrarci su due autori come Orwell e Bradbury perché a nostro avviso le loro opere possono risultare a tutti gli effetti esemplari di quella che potremmo denominare una pragmatica della distopia. Dall’analisi dei loro romanzi emergeranno una serie di rilievi i quali potranno essere sottoposti ad un sorvegliato processo di generalizzazione dei caratteri salienti della distopia, in forza del quale avremo così ottenuto una sorta di preciso e fedele ritratto di ciò che abbiamo deciso di chiamare dialettica dell’utopia.
Se quanto esposto nel paragrafo precedente è vero, dobbiamo innanzitutto osservare che in entrambi i romanzi che andremo a studiare 1984 di Orwell e Fahrenheit 451 di Bradbury siamo di fronte ad una realtà futura propria di un mondo disumanizzato, violento, massicciamente colonizzato nelle sue strutture più capillari da una tecnologia che rappresenta la controparte più marcata di una scienza di cui si è perso il controllo, che si è distaccata tragicamente dall’uomo sopraffacendolo, soggiogandolo, deturpandone la fisionomia umana e dissolvendone ogni tratto morale. Se per Marx l’utopia meritava d’essere espunta dalla riflessione politica perché inabile ad assimilare in sé delle forme propriamente scientifiche, la distopia viene riammessa in questo tipo di discorso perché fa luce sui possibili deragliamenti a cui proprio la scienza può andare incontro.
Vi è quindi una prima notazione di carattere tematico da fare: la distopia è portatrice di un messaggio ad altissimo tenore apocalittico, ovvero essa mostra con precisione chirurgica in che modo la dimensione umana potrebbe essere nuovamente affetta da uno forma di soggezione “metafisica” tanto più violenta e schiacciante quanto più secolarizzata, cioè dalla metafisica del potere puro, la quale imprigiona l’uomo nella ferrea costruzione invisibile della propria logica pervasiva ed elefantiaca fino a condurlo alla estinzione non tanto fisica quanto etico-psicologica.
Se infatti la distopia vuole mostrare la progressiva disumanizzazione del mondo, rivelando nello stesso tempo i congegni e le disposizioni di natura tecnico-scientifica e politica con cui ciò viene perseguito e attuato, nello stesso tempo ad essere messa in luce è anche la fine della soggettività come luogo di riflessione e di consapevolezza. La narrazione spesso deve penetrare a forza all’interno di una psiche completamente azzerata, obnubilata da una compressione di forze esterne che spersonalizzano i soggetti fino a trasformarli in automi privi di identità definita o definibile. Le difficili analisi psicologiche tentate dall’inizio alla fine nei romanzi devono illuminare la desertificazione interiore delle figure come riflessi della desolazione esteriore in cui questi vivono e si muovono, non tanto agendo, quanto piuttosto essendo agiti da moventi che esse non sono in grado di penetrare ma da cui sono invece penetrati senza alcuna forma di opposizione o resistenza.
Come l’universo distopico è solitamente uno spazio chiuso, una cella amplificata fino a coincidere con tutta la realtà, così la psiche dei soggetti è una dimensione asfitticamente concentrazionaria di volizioni e tendenze eterodirette, di pensieri deprivati d’ogni spontaneità e genuinità, meccanicamente suggeriti da un sistema di falsi bisogni e reali influenze coattive che rappresentano una sorta di macro-psiche esterna al soggetto e perfusivamente incanalata nei corpi passivi o soltanto reattivi degli uomini.
Non è un caso allora che uno dei dettami cardine del sistema socio-politico di 1984 sia «l’Ortodossia consiste nel non-pensare nel non aver bisogno di pensare. L’Ortodossia è inconsapevolezza», [1] rivelando da un lato la pretesa da parte degli apparati di potere di sostituirsi in toto alle strutture razionali e cognitive dei soggetti, dall’altro denunciando in maniera felpata una sorta di pericolosità sociale del pensiero non irreggimentato, il quale rappresenta una minaccia da estirpare in tutti i modi. Al tempo stesso sinistramente informe e rigidamente coriacea a tutti i possibili attacchi dei dissidenti, l’Ortodossia costituisce un pericolosissimo precipitato in cui vengono a contaminarsi in modo ormai indissolubile una versione sottoposta a radicale deformazione grottesca della tradizione laico-illuministica borghese con residui di una patina goffamente religiosa che eleva quello stesso potere ad un livello prossimo alla trascendenza, sganciandolo quindi dal mondo alienato che esso secerne e schermandolo così da ogni ipotizzabile attacco ribellistico.
La distopia qui funziona non tanto come una rovesciamento della utopia, ma come una sua feroce parodia. A questo proposito nota infatti ancora Beatrice Battaglia:
Nineteen Eighty-Four […] è certamente una delle opere più adatte per discutere l’utopia poiché questo fantasy presenta, sotto la forma di un romanzo naturalistico, un complesso dibattito sull’utopia e una messa in discussione del concetto tradizionale di utopia.
Oceania non è solo o semplicemente la rappresentazione di una realtà distopica o la proiezione assurdizzata del presente, ma è anche una parodia grottesca dell’utopia intesa come modello razionale o programma ideale: è una denuncia che il promesso viaggio del Male presente al Bene futuro in nome della Ragione collettiva è in realtà una grande menzogna: il sacrificio dell’hic et nunc concreto ad un futuro ideale, ossia il sacrificio del tempo all’eternità, l’asservimento del corpo alla mente […] è il frutto del trionfo dell’astratto sul concreto, della parola sull’azione. Orwell smaschera l’utopia come parola per mostrarla per quello che è: strumento dell’«intelletto liberato», della ragione astratta in preda alla tautologica follia dell’onnipotenza. [2]
Ecco che quindi metatestualità e critica sociale si trovano improvvisamente e proficuamente saldate nella distopia, trasformata non solo in una forma di utopia negativa che riflette sul presente trasfigurandolo in un futuro alterato, ma anche in una forma narrativa che riflette innanzitutto su se stessa e sulle potenzialità concrete della utopia. In effetti non esiste un testo letterario che più di 1984 tenti di interrogarsi non tanto sulle forme aberranti che l’avvenire potrebbe assumere quanto sugli inganni che la prognostica politologica sarebbe in grado di produrre al fine di mettere in campo i presupposti perché quell’avvenire si realizzi, con la sottaciuta presunzione di far passare quello stato di cose ferocemente disforico come una realizzazione quasi paradisiaca.
Utopia e distopia qui si intrecciano perversamente e strettamente in un discorso pseudo-filosofico che si sviluppa sulla falsariga delle utopie seicentesche calate però in una situazione politico-sociale la quale non può non farsi carico del palese fallimento di tutte quelle istanze velleitariamente ottimistiche che reggevano il vecchio paradigma utopico. In sostanza Orwell mette in scena una sorta di meta-utopia per dimostrare come essa possa perfettamente realizzarsi nel presente il presente della finzione narrativa a costo però di inguainare quest’ultimo in una sorta di macroscopica bolla ideologica la quale permei sottilmente e pervicacemente ogni aspetto e momento della realtà.
Critica e autocritica, ironia, parodia, utopia e iper-testualità si trovano a giocare l’una sull’altra e l’una contro l’altra, in un sistema di inscatolamenti paradossalmente infiniti, i quali non smettono di complicare i loro rapporti, sviluppando un diagramma fitto, intensivo e trasversale di raccordi e intersezioni ma sarebbe più giusto definirli deliberate interferenze da cui è difficile uscire. 1984 risulta a questo punto un magistrale luogo di scambi e sostituzioni tra livelli di riflessione e di argomentazione diversi ma concordanti. Se da un lato esso appare come una variante distopica della progettazione politica a lungo raggio, dall’altro lato il romanzo non può non proporsi con i tratti di una considerazione meta-testuale sulle possibilità effettive che ha una utopia distorta in negativo di pronunciarsi sul futuro. Tale doppio livello ne genera un terzo che è quello che porta la narrazione a ripiegarsi sul presente questa volta quello reale dell’autore il quale viene tematizzato nelle sue strutture profonde o recondite da cui è possibile far emergere in modo indiretto tramite cioè la finzione letteraria le vaste e ramificate componenti ideologiche le quali si trovano ad essere messe in scena, e quindi svelate nella loro malcelata efficacia deformante, nella capillare descrizione che l’autore fa delle brutture palesi ma mistificate del totalitarismo ritratto in 1984.
Possiamo quindi dire che nel romanzo di Orwell accade qualcosa che non si verifica in nessun altro romanzo ascrivibile al filone della distopia: esso non solo si presenta come una utopia elevata a potenza, ma mostra in tutto il suo vigore quale sia lo strumento principe attraverso cui le malformazioni del presente finzionale vengono deformate agli occhi dei cittadini-sudditi facendole passare come realizzazioni normali e fisiologiche di un regime politico interamente accettabile e razionale: tale strumento è il linguaggio. 1984 pertanto, oltre a rivestire un ruolo di autocritica della utopia, rivela il proprio marcatissimo intento smascherante inducendo il lettore a riflettere su quella che è la materia stessa di quella riflessione, ovvero la parola, il discorso, le formazioni linguistiche specifiche che Big Brother conia per rendersi al tempo stesso onnipresente ma invisibile, come una sorta di natura artificiale che si stende sulle cose mimandone a perfezione la superficie imperfetta, infettandola però di mistificazione. Ecco come Battaglia illustra questo modus operandi di Orwell:
[esso ha] indicato nel linguaggio il principale strumento attraverso il quale il processo di secolarizzazione tende a distruggere, oltre all’al di là, anche il promesso al di qua e insieme l’uomo stesso […]. La realtà però non [viene] ridotta e poi negata attraverso un impoverimento, un progressivo restringimento, quantitativo e qualitativo, del linguaggio; la realtà [si dissolve] nell’allargamento, nel moltiplicarsi delle paroles, nell’autoriproduzione, in una inarrestabile inflazione del linguaggio. Il criterio non [è], come più giustamente aveva previso Huxley, quello, in qualche modo sempre individuante, della limitazione e della costrizione, ma quello della emancipazione, della liberazione totale, che di fatto si realizza nel suo contrario, in quanto obbligo ad un continuo rinnovamento, ad un’incessante trasformazione ossia autonegazione. [3]
Nonostante le traversie che il concetto di utopia ha conosciuto dai suoi esordi nel Seicento fino al Secolo Breve, un sottilissimo ma infrangibile filo rosso sembra legare More a Orwell: la parola è in entrambi gli autori protagonista assoluta. Il linguaggio crea forme alternative di mondi possibili che non solo narrano di un altrove del mondo in cui le cose vanno diversamente dalle realizzazioni effettive, ma prospettano linee di speculazione altrimenti imponderabili.
L’Utopia del filosofo inglese era un figmentum completamente slegato rispetto alla Inghilterra del Seicento. Nonostante ciò le creazioni verbali dell’autore trasformavano quell’isola in uno spazio libero di postulazioni che non potevano non tornare, cariche di un portato critico più o meno marcato, sulla realtà presente illuminandola dall’interno in ciò che essa aveva di problematico. Nello stesso modo, il linguaggio di Orwell esplode nella mente del lettore con una forza precipuamente anti-ideologica incontenibile: là dove la parola del totalitarismo serve a manipolare la realtà, mostrandola diversa da quella che è, operando in essa come un dispositivo cosmetico di ordine e abbellimento posticci e superficiali la meta-parola del romanzo disfa dall’interno l’ordito viscido di quella trama ignobile, facendone saltare le mistificazioni attraverso un intervento su quelle stesse strutture semantiche con cui suddette mistificazioni vengono attuate.
Non è un caso allora che il mito, un difficile e nostalgico recupero del mito inteso qui anche nella sua accezione prettamente etimologica si profili come uno dei motivi interni della narrazione, quasi a suggerire con esso il ripristino di uno spazio puro e forse vergine di rinnovata dicibilità del mondo anteriore ad ogni adulterazione ideologica più o meno consapevole.
Anomia sistematizzata e sterilizzante, elevata a struttura tentacolare che domina e controlla, e eterotopia del linguaggio sono i due epicentri di sviluppo della vicenda orwelliana. Se il primo si manifesta nel romanzo con le fattezze di un governo metastatico nei suo organi di potere e veicolato da una potenza verbo-visiva che occlude il pensiero stesso giungendo ad occupare lo spazio stesso solitamente riservato ad esso, il secondo, doppiando le produzioni e le ipostasi stesse del potere come una sorta di mimetica infiltrazione eversiva, ora lo porta al collasso ora lo manda in stallo, dimostrando così che tale potere può funzionare a pieno regime soltanto se incassato all’interno di una organizzazione compatta e coesa di dispositivi manipolatori che si giustifichino e legittimino a vicenda.
In tal modo Orwell ci dice che il potere finisce dove (ri)comincia la capacità demistificatrice del linguaggio, di un linguaggio chiamato a veicolare un pensiero sempre prossimo alla insubordinazione, non addomesticato e non addomesticabile, ancora in grado di sognare e produrre spazi di senso nuovi, vergini seppur embrionali o solamente aurorali, uno spazio di senso, il quale non deve assolutamente valere come luogo dell’ennesima proiezione utopica la quale finisce con l’esser l’alibi ove rifugiarsi rispetto alle urgenze del presente ma come dimensione atopica in cui sottoporre a decompressione la asfissianti e assedianti forze costrittive proprie del sistema di dominio.
gc
[1] G. Orwell, 1984, a cura di S. Manferlotti, Mondadori, Milano 2013, p. 19.
[2] B. Battaglia, Nostalgia e mito nella distopia inglese, Longo Editore, Ravenna 1998, p. 135. Corsivo nostro.
[3] Ivi, p. 39.
André Masson, Card Trick, 1923
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