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Quel che resta dellutopia | Kasparhauser 14
A cura di Giuseppe Crivella
I. UTOPIA, I SIGNIFICATI E LA STORIA
I.1 ... Iam inde ab initio descriptam ab ipso Utopo ferunt
Novembre 2016
Nel settimo capitolo del suo illuminante libretto dedicato alle reti terminologiche che hanno contrassegnato la Modernità, Koselleck affronta l’utopia, concetto terminale della sua esposizione e lemma nel quale sembra condensarsi quasi tutta la storia delle idee politiche partorite dall’Occidente dopo il Medioevo. Dovendo introdurre questa nozione, egli così esordisce:
quando oggi si sente l’espressione «utopia» le può venire attribuito un significato positivo o negativo. Ciò dipende essenzialmente dalla presa di posizione politica di coloro che impiegano questa espressione. Prima che essa entrasse nel linguaggio politico e sociale erano trascorsi, da i tempi di Thomas More, circa trecento anni. L’espressione «utopia», nel senso che oggi le viene correntemente associato, cioè di una categoria politico-sociale con il cui aiuto si anticipano determinati elementi del futuro politico, ha poco in comune col significato della parola Utopia inventata da Thomas More per il suo romanzo, come sinonimo di «nessun luogo». [1]
L’osservazione dell’autore, per quanto possa sembrare stringata, contiene una sorta di microstoria del concetto dalla coniazione fino alla ricezione marxiana e post-marxiana. In effetti, ciò che Koselleck mette in evidenza è la profonda variazione semantica che il lemma /utopia/ subisce andando a designare, soprattutto dall’Ottocento in poi, un tipo di formulazione teorica di stampo fortemente politico sempre sospeso a metà tra la progettualità astratta e dunque consapevolmente destinata a rimanere inattuata e il disegno realizzabile in un arco di tempo indeterminato. Nate come genere letterario di ascendenza platonica, le opere aventi per oggetto un luogo utopico in modo sempre più marcato finiscono col penetrare nella storia o, per dirlo con più chiarezza, è la storia che si infiltra in esse trasformandole in programmi politici più o meno concretizzabili.
Ma che cos’era in origine l’Utopia di More? Un luogo, o meglio, un non-luogo ove l’autore vedeva realizzate una serie di istanze sociali, politiche, culturali sostanzialmente perfette, impeccabili sotto tutti i profili poiché scandite da due soli grandi principi-guida: libertà e uguaglianza. [2]
Va sottolineato però che Utopia non presentava, nelle intenzioni dell’autore, un programma politico da realizzare, ma piuttosto indicava l’esistenza di principi universali e generali destinati per lo più ad avere funzione normativa. L’elemento essenziale consisteva pertanto nella deliberazione d’espungere la proprietà privata da ogni tipo di formazione sociale. È questo un aspetto che More eredita direttamente da Platone, il quale nella sua Repubblica aveva già sottolineato come la proprietà dividesse gli uomini tra loro, facendo insorgere contese feroci destinate a protrarsi per decenni, mediante la barriera del “mio” e del “tuo”, mentre soltanto la comunanza dei beni poteva ripristinare e consolidare non solo l’unità del demos, ma anche la concordia tra i cittadini.
In Utopia inoltre scompaiono tutte le differenze di censo: i cittadini tutti godono di una perfetta uguaglianza e, proprio in forza di ciò, essi possono avvicendarsi a rotazione in maniera piuttosto bilanciata nei vari lavori dell’agricoltura e dell’artigianato, così che non risorgano, in seguito ad una ferrea e inflessibile divisione del lavoro, differenze e divisioni sociali. Va notato che anche il lavoro è soggetto a una sorta di precisa razionalizzazione, in modo da renderlo umano, cioè non massacrante e totalizzante all’interno della vita degli uomini, ai quali deve essere garantito un certo periodo di tempo nell’arco della giornata per gli svaghi e il riposo. In ultimo presso Utopia vi sono dei sacerdoti dediti all’amministrazione del culto, mentre un posto d’eccezionale rilievo è riservato ai letterati, ovvero a coloro che, nascendo con speciali doti e capacità intellettuali, sono chiamati a dedicarsi allo studio e alla riflessione.
Gli abitanti dell’isola immaginata da More sono pacifisti, accettano e ammettono culti differenti, sanno onorare Dio in modi molteplici e non dogmatici e sanno comprendersi e accettarsi reciprocamente in queste diversità.
A commento di quanto appena detto, scrive Lucien Febvre in un suo famoso studio del 1962:
l’Utopia di Thomas More come tutte le opere ulteriori che adotteranno in senso generico il nome proprio del libellus aureus dell’amico di Erasmo […] esprime al contempo i bisogni di evasione dalle realtà presenti e di organizzazione di quelle future che forniscono allo storico una delle traduzioni, al tempo stesso più deliberatamente infedeli e più inconsciamente fedeli, della realtà di un’epoca e di un ambiente. Anticipazioni e constatazioni frammiste; i lineamenti del mondo quale lo si osserva; i caratteri che si indovinano o si profetizzano del mondo di domani o di dopodomani. È proprio nelle epoche di crisi e di transizione che fioriscono gli indovini e i progetti […]. Essi parlano quando l’umanità, inquieta, cerca di precisare le grandi linee di sconvolgimenti sociali e morali che ognuno percepisce come inevitabili e minacciosi. In base a ciò le loro opere costituiscono, per lo storico, testimonianze spesso patetiche, sempre interessanti, non solo della fantasia e dell’immaginazione di alcuni precursori ma dello stato intimo della società. [3]
Vista in questo incrocio di prospettive ermeneutiche l’utopia si profila come una complessa formazione concettuale sulla quale grava tutta una serie di concrezioni eterogenee che forse è bene tentare di sviscerare in modo piuttosto dettagliato. Innanzitutto è necessario mettere in relazione Koselleck e Baczko al fine di notare come entrambi individuino nell’utopia un nucleo permanente che però, di volta in volta non smette di caricarsi di valori storici e tematici diversi. Se l’utopia di More indica un non-luogo ove ravvisare, anche solo per via immaginativa, un’organizzazione sociale impeccabile, al tempo stesso l’utopia rappresenta una pericolosa via di fuga attraverso la quale sottrarsi alle responsabilità effettive e concrete di un attore sociale calato in un contesto preciso. [4]
gc
[1] R. Koselleck, Il vocabolario della Modernità, a cura di C. Sandrelli, Il Mulino, Bologna 2006, pp 133-154.
[2] Per un’analisi particolareggiata del testo di More si rimanda a C. Quarta, Tommaso Moro: una reinterpretazione dell’utopia, Dedalo, Bari 1991.
[3] L. Febvre, “Pour une histoire à part entière”, Paris, 1962, in B. Baczko, L’utopia, Einaudi, Torino 1978, p. 7.
[4] Per una caratterizzazione più capillare dell’articolazione storica del concetto di utopia rimandiamo al saggio di Wunenburger posto alla fine di questo numero. Cfr infra J.J. Wunenburger, Variazioni su di un non-luogo.
Lorenz Stoer, Geometrische Korper und Architekturbauteile, 1567
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