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Quel che resta dell’utopia | Kasparhauser 14
A cura di Giuseppe Crivella




INTRODUZIONE
La luminosa oscurità dell’utopia

Novembre 2016

Che l’urgenza di una approfondita ridefinizione del concetto di utopia e del suo doppio deforme — la distopia — si stia affermando con sempre maggior chiarezza in questi nostri tempi così difficili è indicato forse da un semplice episodio di cronaca: il nucleo portante del plot dell’ultimo libro di Houellebecq, Soumission [1] letto da una prospettiva eurocentrica appare come una proiezione violentemente disforica, là dove, rovesciando semplicemente il punto di vista, quello stesso plot colto dalla visuale di un attivista dell’Is, o di un islamico integralista, risulta come una prognosi ad altissimo contenuto utopico.

Congenita alla Modernità, l’utopia ha cambiato volto e funzione più volte, entrando spesso in crisi, richiedendo in più di un’occasione un’opera di riformulazione non solo semantica ma anche e soprattutto concettuale e speculativa. Il fatto che essa non sia solo il portato ottimistico di una immaginazione lanciata verso una progettualità che spazia nel futuro forse perché conculcata nel presente, ma sia anche fortemente compromessa con sistemi di potere che viziano e condizionano dall’interno quella stessa progettualità, dimostra che l’utopia ancora oggi si impone al nostro sguardo come un complesso e controverso dispositivo politico — e forse velatamente ideologico — che necessita di una approfondita conoscenza per essere utilizzato in modo virtuoso o, almeno, per non essere vittima, nel momento in cui lo si mette in pratica, di deformazioni e manipolazioni strumentali. [2]

L’utopia allora appare come un mezzo di conoscenza del presente proiettato nel futuro, ma anche come un mezzo di trasformazione del presente in vista di un futuro che rischia semplicemente di confermare lo stato attuale. Presente e futuro in seno alla progettualità aperta dell’utopia si scambiano spesso il posto: se il primo sembra essere ciò che il secondo prevede di scalzare, è vero anche che il secondo a volte non è altro che una proiezione concreta di determinate tendenze che il primo contiene allo stato latente e che i gruppi di potere puntano a realizzare in un avvenire non troppo lontano, facendolo apparire come una dimensione utopica di miglioramento e di progresso generale e collettivo.

L’utopia pertanto con sempre maggior precisione ha rivelato soprattutto durante il secolo breve un volto d’ombra prima sconosciuto e del tutto insospettabile, un volto d’ombra da cui essa non è separabile in modo netto e definitivo, ma piuttosto le appartiene come una tara genetica che deve essere conosciuta e isolata, per non esserne schiavi inconsapevoli.

Il nostro lavoro si muove proprio secondo questo doppio asse di analisi che abbiamo cercato di enunciare già in queste poche battute di apertura. Riprendendo con beneficio di inventario uno storico lavoro di Koselleck sulla società borghese, [3] da una parte abbiamo voluto mettere in luce la prima delle nostre linee di ricerca, ovvero quella che punta ad una disamina il più possibile ravvicinata degli elementi di crisi alquanto marcati e ineludibili che l’utopia ha manifestato negli ultimi cinquant’anni, dall’altra intendiamo invece abbozzare una sorta di Critica della utopia pura finalizzata ad evidenziare con particolare chiarezza quegli aspetti che ancora oggi sembrano essere essenzialmente immuni da ogni forma di patologia.

Sarà pertanto muovendoci in questo doppio ambito, in questo territorio scisso solo per motivi di analisi ma in realtà estremamente unitario, che faremo inoltre emergere un secondo, ma non secondario, tema di indagine, ovvero quello della distopia. Ci sembra utile precisare già da ora un dato assolutamente pregnante della nostra impostazione: a fronte di altri lavori che si soffermano sulla coppia ordinata utopia/distopia e che tendono a vedere questi due fenomeni in una relazione di interdipendenza paritetica, noi abbiamo scelto invece di porre l’utopia al centro dell’attenzione, collocando piuttosto la distopia in una posizione non di ancillarità, ma di derivazione rispetto alla prima. Ciò accade perché la nostra lettura si addenserà in primis intorno ai problemi specifici che hanno colpito l’utopia portandola ad uno stato di crisi da cui crediamo la distopia si sia separata, quasi per una forma particolare e aberrante di partenogenesi, andando ad occupare — o forse a creare — un posto alternativo e parallelo a quello prima occupato in modo totalizzante dalla utopia.

Crisi e critica indicano dunque una doppia prospettiva, cioè una sorta di intestina bifocalità che un lavoro sull’utopia per forza di cose deve esplicitamente esibire al fine di mostrare non solo la pregnanza ermeneutica che la stessa utopia possiede nei confronti del presente, ma anche e soprattutto allo scopo di smascherare quel fosco portato di condizionamenti, quello strano e spesso trascurato doppio fondo di elementi disforici che una proiezione utopica contiene in sé forse senza esserne pienamente consapevole. [4]

La distopia quindi non va intesa qui come una sorta di parallelo negativo dell’utopia; essa si configura in questo lavoro come una sorta di riflesso deviato e deviante che l’utopia possiede in sé, come una sorta di tendenza naturale a secernere una prospettiva negativa sul futuro, ove però le sue compromissioni con il potere vengono smascherate e denunciate con forza, invece di essere celate in una strutturazione falsamente euforica.

Utopia e distopia si dividono il campo della riflessione politica mostrando come esse possono risultare a volte decisamente permutabili non tanto sotto il profilo della progettazione di un futuro più o meno immaginario, quanto piuttosto sotto un altro punto di vista che di solito rimane colpevolmente implicito: esse aprono il discorso sulle forze effettive che spingono il soggetto a immaginare e a progettare; esse, inquadrate in un discorso come il nostro, sono dei terminali analitici da cui è possibile dedurre una diagnosi socio-politica che invece di risolversi semplicemente in una dimensione astrattamente prognostica, ricade in modo strenuamente analitico sul presente sezionandolo dall’interno, rivelando quale sistema di potere opera sottilmente in esso spostandosi lungo un reticolo sotterraneo di condizionamenti che non hanno altro scopo che quello di conservare lo statu quo pur invitando a sognarne altri.

Che l’utopia abbia decisamente e definitivamente ormai mutato statuto epistemologico è un dato di fatto, testimoniato da una serie di fenomeni che cercheremo di mettere in luce nelle pagine seguenti. Qui, in sede di introduzione, però ci preme soffermarci soprattutto su un aspetto che dimostra appunto quanto lo statuto e la funzione della utopia si sia modificato rispetto all’immagine che essa aveva nella prima metà del Novecento: chiudendo uno dei suoi testi più importanti, Spirito dell’utopia, [5] Ernst Bloch parlava dell’utopia definendola gnosi rivoluzionaria, [6] prospettandone cioè un profilo complesso perché spinto sia nella dimensione prettamente conoscitiva — conoscitiva cioè dello stato presente, dell’attualità in cui il pensiero deve farsi strada per postulare un possibile dotato di margini di realizzabilità — sia nella dimensione intensamente attiva, propositiva, fattiva, costruttiva, orientata quindi verso un’ulteriorità del tempo che non sia solo mera prospezione immaginaria, ma progetto concreto, disegno reale di una possibilità che aspetta solo di essere messa in atto.

Ma che cosa rimane oggi di quella tensione conoscitiva, di quella duplice istanza che Bloch vedeva come fisiologicamente coniugata nella idea di utopia? Di quell’espressione è soprattutto il plesso rivoluzionario che sembra essere entrato definitivamente in crisi, o forse semplicemente si è rivelato fatuo e pretenzioso, astrattamente sbilanciato verso un’idea di contestazione per cui i tempi non sembrano essere mai maturi, per cui le società e gli attori sociali non sembrano essere mai pronti. La gnosi rivoluzionaria dunque si è dimostrata inefficace, inconcludente, inattuabile. Ma soprattutto essa si è rivelata incapace di produrre un quadro d’analisi e d’azione che ostentasse linee di attendibilità a lungo raggio. Inutile dire che il programma di Bloch, per come si è venuta a configurare la filosofia del Novecento, non poteva non trovare problemi di realizzazione, afferenti non solo al polo della rivoluzione, ma anche e non secondariamente a quello della gnosi.

Pensiamo solo per un attimo all’impatto che la teoria critica dei francofortesi e il decostruzionismo francese hanno avuto in ambito sociologico e la risposta sulle cause del fallimento del disegno blochiano non tarderanno ad arrivare: l’aspetto conoscitivo non può non entrare in crisi nel momento in cui ci si rende conto che la prospettiva da cui questo affondo viene portato avanti rischia di essere compromesso in larga parte con quelle strutture — di potere e non solo — che esso dovrebbe contestare e tentare di rovesciare. Ma anche l’accenno ad una esplicita immanentizzazione dell’intento rivoluzionario — non è un caso infatti che Bloch parli a chiare lettere di gnosi — designa un postulato speculativo che nel corso del Novecento si è venuto a definire con caratteri sempre più problematici. Le religioni della politica, le forme di secolarizzazione più o meno riuscite durante il secolo breve hanno messo in luce quanto sia difficile progettare il futuro senza che questo sia contaminato da una sorta di escatologismo latente e deformante, da cui il pensiero umano sembra non riuscire a congedarsi in alcun modo. La gnosi diventa forzatura, deformazione o esclusione di una propensione progettuale spuria — a metà tra immanenza e trascendenza — da cui i soggetti non sanno allontanarsi e in cui la dimensione politica appare profondamente e vitalmente invischiata. Leggere l’utopia oggi come gnosi rivoluzionaria significa allora formulare una utopia alla seconda, una utopia dell’utopia, una utopia che prescriva non solo una certa idea di futuro da attuare in un tempo sostanzialmente imponderabile e indefinibile, ma che preformi una certa deontologia epistemica alla stessa idea di utopia, senza però prendere in considerazione il fatto che tale deontologia non riesce ad instaurare un dialogo fecondo con tutti quegli aspetti e quei problemi che contaminano dall’interno l’utopia rendendola inefficace, disinnescandola, lasciando che essa mimi soltanto le movenze di un progetto politico, il quale quindi ha la funzione di dissipare, piuttosto che di realizzare, le istanze di rinnovamento.

Non è allora un caso che i curatori dell’edizione italiana di Spirito dell’utopia, nella densa Nota critica posta in appendice del volume, osservino con grande acume:
lo spirito utopico è apocalittico e quindi concreto, mentre lo spirito borghese è astratto e sovrannaturale. Nella società borghese il rapporto individuo specie è invertito e gli uomini non sono che le maschere caratteriali di questa inversione. L’apocalisse della filosofia utopica svela le maschere, libera l’uomo da tutte le maschere sociali e politiche, lacera penetrandola l’apparente impenetrabilità della coscienza necessariamente falsa, pone l’individualità vivente contro la propria maschera di carattere, il lavoro contro il lavoro salariato, la libera volontà, il vero volto della volontà contro la libera volontà spezzata su cui si basa la democrazia borghese [...]. Apocalisse è la rivelazione della coscienza necessariamente falsa – e quindi del soggetto utopico – che avviene oggi attraverso il pensiero cosiddetto negativo. [7]
L’utopia qui appare non solo apocalittica ma anche ascrivibile unicamente a quel filone proprio del Novecento che viene denominato pensiero negativo e che nessuno meglio di Cacciari ha tratteggiato in un testo degli anni, ’70 [8] insuperato e insuperabile quanto a chiarezza esegetica e vastità tematica.

Non potendo per ovvi motivi soffermarci su questi problemi, vogliamo qui puntare la nostra attenzione solo su due elementi che riteniamo imprescindibili: la natura apocalittica della utopia indica che essa da una parte, più che disegnare possibilità future, smonta il presente facendolo apparire nella sua falda interna di forzature ideologiche e costrizioni politiche; dall’altra l’utopia rivela ora una vocazione problematizzante che la porta quasi a sognare la fine della storia, la cessazione di uno sviluppo funesto e deformante. L’apocalisse qui pertanto va intesa nella sua accezione: etimologica, ovvero come rivelazione della tare specifiche e storiche proprie della situazione presente, derivata dalla riflessione sulla fine dei tempi e dunque intesa quale apertura progettuale ad una alterità e ulteriorità della storia che però non conosce che margini di definizione alquanto sfumati e nebulosi.

Lo sforzo della nostra lacerata post-modernità sembra allora essere quello di pensare e interrogare una utopia negativa, una utopia che innanzitutto faccia i conti con la propria fine e con i problemi che l’hanno condotta a questo esito; in secondo luogo tale utopia negativa deve essere una utopia che si ponga dinanzi al presente cogliendolo come un compito aperto o, come avrebbe detto Weber, come una unendliche Aufgabe, come un compito infinito che quindi non può essere mai evaso o ultimato, ma ripreso ogni volta da capo al fine di chiarirne con sempre maggior risoluzione critica le disfunzioni che lo rendono inadeguato nella sua configurazione a rispondere alle esigenze plurali e eterogenee della situazione storica. Apocalisse, pensiero negativo e fine dell’utopia si impongono in fine al nostro sguardo come le tre coordinate cartesiane che avremo l’obbligo di mettere in campo e di far reagire l’una con l’altra nel corso del nostro lavoro. Se le prime due sono state, seppur brevemente, già introdotte e inquadrate nelle poche battute qui sopra, la terza ancora non ha trovato finora una esplicazione piena. Con la formula fine dell’utopia naturalmente non possiamo che riferirci al noto testo di Marcuse, pubblicato in Germania nel 1967. Se per Bloch si trattava di rifondare e rimodulare dalle fondamenta il concetto di utopia, saldandolo ad una serie di nuovi apporti emersi nel corso del Novecento, per Marcuse la riflessione intorno a quella stessa nozione assume caratteri completamente diversi, non di rimodulazione tematica ma di esplicito e necessario congedo.

Nella precisa, chirurgica relazione iniziale dell’autore, due sono i punti chiave che a nostro giudizio non possono in alcun modo essere trascurati. Marcuse li espone nel seguente modo:
1) questa fine dell’utopia, e cioè il rifiuto delle idee e delle teorie che si sono ancora servite di utopie per individuare determinate possibilità storico-sociali, oggi possiamo anche concepirla come fine della storia; nel senso cioè [...] che le nuove possibilità di una società umana e del suo ambiente non possono più essere immaginate come prolungamento delle vecchie, né essere pensate nel medesimo continuum storico, col quale anzi presuppongono una rottura.

2) io credo che si possa parlare di utopia solo quando […] un progetto di trasformazione sociale si trova in contraddizione con leggi scientifiche realmente determinate e determinabili. In senso stretto solo i progetti di questo genere sono utopistici, vale a dire extra-storici. [9]
In questi due punti è sintetizzata la originalissima pozione di Marcuse che, distanziandosi come sempre maggior chiarezza dalla teoria critica dei francofortesi, arriva a conclusioni che lo portano ad escludere quasi l’utopia da ogni riflessione di carattere politico. Per Marcuse è utopistico un disegno che rechi già in sé ab ovo le marche e le tare della propria irriducibile irrealizzabilità. Il secondo punto che abbiamo trascritto afferma infatti a chiare lettere come sia utopistico un progetto che incontri delle limitazioni non solo politiche, ma scientifiche, ovvero latamente materiali e quindi inoltrepassabili. Ciò situa tale forma di utopia in una latitudine extra-storica, ma potremmo dire tranquillamente meta-temporale, facendole assumere i tratti di una sorta di fantascienza il cui compito non sia quello di proporre una alternativa valida allo stato presente, ma di mostrare quasi lo stato presente come alternativa valida ad ogni proiezione chimerica della fantasia.

Più problematico risulta invece il primo punto. Mentre nel secondo l’utopia viene derubricata come una fuga nell’irrealizzabile, nella prima osservazione la fine dell’utopia sembra essere legata ad una serie di reiterate sconfitte che quell’idea ha subito. In effetti l’affermazione di Marcuse contenuta nel punto uno appare da un lato come la ratifica definitiva di una insanabile incapacità prognostica della utopia a immaginare e a progettare il futuro, dall’altro lato come la constatazione che tale incapacità è dettata da una compromissione inapparente che l’utopia conserva con le forze e i poteri da cui deriva e da cui avrebbe dovuto sganciarsi.

È chiaro che, letta sulla base di questa duplice matrice, il concetto stesso di utopia è portato ad implodere e a dissolversi. Se essa non può intrattenere alcun tipo di rapporto con il mondo presente, dove essa potrà trovare radicamento? La necessità di rescindersi da ogni situazione attuale rende l’utopia non solo inefficace, ma assolutamente informulabile. Un’utopia, per Marcuse, è una proiezione che reca in sé tutte le tare storiche e sociali della condizione materiale che la produce. L’utopia, in tal senso, non progetta il futuro, non sogna un altrove della storia, ma semplicemente si limita a produrre a fianco della realtà una dimensione di fuga che trasfiguri i problemi che l’hanno generata.

Progettare quindi, continua Marcuse, è sganciarsi da ogni tipo di prolungamento che saldi la tensione verso il futuro al presente. L’utopia pertanto, proprio perché è incapace di tale congedo, rappresenta una forma di dissipazione delle energie positive di affermazione del nuovo, una forma di fuga che ricolloca quelle energie al servizio dei poteri che puntano al mantenimento dello stato presente. Se l’apocalittica blochiana, come visto, faceva ricadere polemicamente l’utopia su ciò che l’aveva provocata, Marcuse è ancora più radicale e insinua il dubbio che l’utopia non riesca neppure a proporre una critica immanente allo statu quo e ne sia piuttosto un derivato che in qualche modo finisce con l’assicurarne la conservazione.

Muovendoci nello spettro di riflessioni descritto dalla oscillazione tra le posizioni di Bloch e Marcuse, il nostro lavoro tenterà di approcciare il tema della utopia dapprima inquadrandolo in un discorso di natura storica, finalizzato a mettere in luce le molteplici e contraddittorie modalità in cui esso è venuto configurandosi lungo l’arco della Modernità; in un momento successivo esso cercherà di sviluppare un approfondimento esegetico ponendo il problema della utopia secondo una prospettiva particolare — in parte estranea sia alla impostazione blochiana sia alla speculazione di Marcuse — quella cioè che lo porta a coniugarsi con la complessa costellazione della distopia.

Sarà in questa seconda sezione che l’utopia verrà a delinearsi con caratteri decisamente nuovi rispetto a quelli che essa si vedeva riconosciuti come propri almeno fino all’inizio del Novecento, sfoderando una dimensione speculativa nuova, originale e, a nostro giudizio, potentemente rivoluzionaria. Se sia Bloch che Marcuse devono registrare un esaurimento della capacità prognostica della utopia, mostrando come questa si rovesci piuttosto in un dispositivo diagnostico delle falsificazioni perpetrate dalle forze politiche in gioco nel presente, allora ripensare e ritematizzare l’utopia vorrà innanzitutto dire puntare l’attenzione su questa sua dimensione d’analisi del presente, mettendo in luce come le sue proiezioni in realtà non siano altro che scomposizioni prismatiche di una situazione materiale che deve essere conosciuta nelle sue dinamiche sottili per essere modificata.

Vedremo allora come anche la posizione di Marcuse, sebbene colga lo stato di crisi profonda in cui versa ormai da tempo l’utopia, in realtà non costituisca una soluzione adeguata per questa crisi; sostenere che l’utopia non sia oggi altro che il retaggio di un tempo che non riesce a fare i conti con il proprio presente non è a nostro giudizio del tutto corretto. Che una rettifica profonda della funzione, della identità speculativa e delle capacità ermeneutiche dell’utopia si sia resa necessaria con sempre maggior chiarezza è una verità alla cui pressione non possiamo sottrarci. Ma sostenere che essa non abbia diritto di cittadinanza nel campo delle nostre scienze umane è una posizione che rigettiamo in pieno. Proprio per questo motivo la distopia si configura ai nostri occhi come l’elemento vitale per un recupero non tanto del concetto dell’utopia quanto per il mantenimento di quello spazio di osservazione, discussione e precisazione di quel concetto che non può essere negato o occupato da altri fattori in modo definitivo.

Sebbene la figura e la funzione dell’utopia siano diventate ospiti inquietanti del nostro pensiero, ciò non vuol dire che questo debba sottrarsi al compito difficile ed impervio di penetrare tale inquietudine, cercando di mettervi ordine o quantomeno di capirne le cause. In questo senso il nostro lavoro non vuole dare la risposta definitiva ad una domanda di particolare urgenza, ma vuole piuttosto limitarsi a chiarire i termini della questione per consentirne un approccio più lucido e consapevole.
gc


[1] M. Houellebecq, Soumission, Flammarion, Paris 2015.
[2] Va detto che in effetti l’urgenza di una rimodulazione concettuale del tema dell’utopia era stata perfettamente colta e analizzata già nel 1950 da Raymond Ruyer in R. Ruyer, L’utopie et les utopies, PUF, Paris 1950. Nel 1979 il discorso viene invece ripreso da J.J. Wunenburger, L’utopie ou la crise de l’imaginaire, Paris 1979.
[3] R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna, 1972.
[4] Su questo cfr soprattutto il lucidissimo studio di Wunenburger, in parte la terza sezione intitolata Les trois voies de l’imagination utopique, J.J. Wunenburger, L’utopie ou la crise de l’utopie, Delarges, Paris 1979, pp. 165-224.
[5] E. Bloch, Spirito dell’utopia, a cura di V. Bertolino e F. Coppellotti, La Nuova Italia, Firenze 1964.
[6] Ivi, p. 321. L’espressione è tratta dalla “Avvertenza” del 1934, quasi un’appendice aggiunta in seconda battuta non tanto all’intero testo, quanto all’ultimo saggio di esso, quello non a caso dedicato a Marx e intitolato Karl Marx, la morte e l’apocalisse.
[7] E. Bloch, Spirito dell’utopia, cit., p. 329.
[8] M. Cacciari, Krisis, Feltrinelli, Milano 1978.
[9] H. Marcuse, La fine dell’utopia, s.t., Laterza, Roma 1968, pp. 9-11.



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