Leggendo cosa si scrive ormai da tempo di Francesca Woodman, non si può non osservare la crescente sollecitudine con la quale se ne evoca la vitalità, quasi ad esorcizzare la morte per suicidio che nella sua emergenza puntiforme e insieme fatale, è relegata in una grinza di senso là dove prima era invece la leggerezza della sua giovane età ad essere trattenuta per far posto all’immanenza del presagio ed all’egemonia dei suoi significati. La morte c’è comunque e nonostante, nelle sue stampe baritate e sovraesposte; però ancor più che ‘nella’ fotografia della Woodman, la morte sta nella ‘scelta’ [1] che la Woodman fa della fotografia: come... linguaggio? forse, …come mezzo? anche, ma soprattutto come tra-mezzo.
Come quei qualcosa che senza pretesa alcuna d’essere portanti, «definivano le linee prospettiche e davano accesso al centro» [2] sottili quelli e riservato questo. Come quei qualcos’altro che senz’ambizione di definirsi quale dell’uno l’altro, per vezzo quasi, si mantengono, prossimi e distinti, l’uno all’altro centro e margine al contempo. La morte, quella noi moriamo ogni giorno che viviamo, è in questo centro ma anche periferia, in questa prossimità ma anche lontananza.
Sein zum Tode (M. Heidegger) che non è
Sein für den Tod, [3] ma
wir versten den Tod, denn er ist uns nicht fremd (H. Muller).
Quale il soggetto e quale l’oggetto delle ‘sue’ foto, allora, sue perché scattate da lei o sue perché la ritraggono? Ma è lei che ritraggono o chi o cosa? Siamo forse già nel o perfino oltre il passaggio da “ecco chi sono” a
io sono quello!? Quale il legame anche refrattario magari, che istituisce con le proprie (con)testualità e nel caso suo con esperienze del proprio corpo non più come un “corpo proprio”, ma come qualcosa di gettato (
situated) nell’ambiente circostante (
enbodied), fin’oltre i confini dell’inquadratura e del fotogramma? Senza convocare lo Spectrum di barthesiana suggestione, né ignorarlo però, ci viene meglio da dire che “ancora vivente”, detto in un modo o “natura morta” detto altrimenti, l’evento si fa processo e questo, ancora evento a sua volta ad ognuno dei fotogrammi che si succedono se li scorriamo o per ogni sequenza se la interrompiamo in una sua istantanea.
Evento e processo insieme: è crisi allora che espone chi le guarda le foto di Francesca Woodman, ‘a’ o ‘gli’ ri-vela un cronotopo ossimorico per il quale lo spazio scandisce il ritmo che r-incalza e il tempo s’agglutina in “discreti divisi in atto all’infinito” (Leibniz). Il “valore espositivo” (
Ausstellungswert) che nella fotografia prevarrebbe su quello culturale (
Kultwert), [4] torna a farsi culturale nella misura in cui è esposizione di chi guarda all’opera, e in questo
crisi, come evento processuale, che induce un qualche rischio esistenziale. Evento processuale, che non più distinguibile per posizione o gerarchia appunto, ma nemmeno confuso e indistinto, è piuttosto moto obliquo di cambiamento immanente e congiunturale nella continuità come ri-producibilità tecnica della fotografia, ma anche, nel caso di Francesca Woodman, come ri-proposizione di temi e modi (l’offerta del corpo reificato e contaminato, l’astrazione degli spazi [5] e l’incarnazione degli oggetti, il modello di sé modella di sé fotografa, …). L’evento ma processuale dello sguardo che rischia, in qualche modo impedisce che quella continuità si faccia algoritmo o che la possibile emergenza aurorale sia così fugace da non permettere la percezione.
Piuttosto prima ancora che veder (lo), magari osservar(lo) e tanto meno contemplar(lo), lo s’in-tra-(v)vede, quell’evento e la sua processualità, ‘in-between’: la crisi come evento processuale, che non è dettaglio, frammento e nemmeno come pure già sarebbe ambizioso interstizio o addirittura orizzonte intermedio, ma fenomeno del quale si è avvertiti e si può scegliere di avvedersi.
Un fenomeno diadromico [6] tra noema e noesi (le “due diverse datità correlative” di cui dice Husserl) che rinunciano, o meglio sono forzate, anche tecnicamente, a rinunciare alla propria polarità fino a fare a meno della discrezionalità, per cui l’esperienza di Francesca Woodman trascina il suo interlocutore occasionale tra le molteplicità noematiche che assediano il soggetto presunto e le prolissità noetiche che le pervadono oltre la reificazione oggettuale, in una dimensione referenziale ed esperienziale che non riduce la fotografia ad oggetto estetico finito. Francesca Woodman s’anticipa postuma nello sguardo altrui, nel quale torna ad apparire già morente; non solo se stessa soggetto e oggetto della rappresentazione come si è scritto, ma intenzionale e reciproca nell’assenza e inafferrabile nella presenza [7]. La morte che c’è, non c’è come fissità (per Barthes la Morte è l’eidos della fotografia) della forma, ma come racconto ‘negli’ e perfino ‘degli’ occhi di chi guarda. «Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini complete, nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dell’osservatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza.» (Francesca Woodman).
La costruzione del senso che s’annuncia, inizialmente o iniziaticamente, in un dove e come che non appartiene ancora all’intersoggettività, come attesa o promessa di una riemergenza possibile del tempo anteriore, e come tale pre-testo, è magia profetica di co-naissance con-testuale (cum-textum)e complessa (cum-plexus) che testimonia, e in questo è già fenomeno sociale, nonostante ogni successivo successo o spettacolare messa in scena [9]. Lo scambio avviene nella misura eveniente e irrisolvibile della processualità come tessiturad’identità / alterità… alterità / alienità..corpo/materia… organico/inorganico... immobilità / movimento… geocronia / cronotopia... persona / personaggio… evidenza / mimesi... mancanza / eccedenza...).
Francesca Woodman rinasce morente nel momento in cui co-nasce con lo sguardo altrui in cui di nascita e morte insieme è fatta l’ipotesi della con-possibilità (non solo compatibilità!) dell’esperienza sua e di chi ne guarda le opere, se costui abbandona la pretesa dell’indagine e dell’interpretazione, e lascia che nell’imperfezione ostinata e mai definitiva della loro sequenzialità s’in-plichi l’avvenire più che s-piegarsi il passato, avvenga la morte comune e vitale più che la vitalità immortalata. Una simile prospettiva di avvicinamento alle piccole immagini di Francesca Woodman è antidoto alla presunzione inerziale e conforme del senso indifferentemente comune come all’anticonformismo presunto del dissenso precocemente sterilizzato. Allora la scelta ‘mortale’ della fotografia, la vocazione a sparire B. Sebaste nella sinossi geometrica della performazione, [10] è proprio quella che consente a Francesca Woodman d’essere colei che sopravvive.
Un fenomeno che non è afferrabile attraverso una qualche clinica visuale (Jean-Martin Charcot) o vività sintomale (Georges Didi-Huberman), bensì appare possibile, anche se non automatico, quando e come l’epochè improvvisa dello scatto recidiva nel battito di ciglia che accomoda la visione, generando le condizioni di un
lieu commun (Albert Camus), una sorta d’intercampo tra durata sospesa e sospensione protratta, in un ritornare andando continuo tra quel che il tempo anteriore anticipa e quel che il tempo posteriore riporta in emersione; infine tra vita e morte. Un fenomeno che in Francesca Woodman è ulteriormente enfatizzato dall’essere lei stessa quella che sta di fronte a sé stessa che ‘si’ e ‘la’ fotografa. Un fenomeno che allude quasi all’aura magica della profezia e dello spiritismo, [11] e che veicola comunque indizi d’intersoggettività liberati da ogni naturalizzazione o realismo ingenuo così che si manifestano nella loro matrice preidentitaria, presimbolica e trascendentale e manifestano altresì, con eco d’intenzionalità l’appartenenza del soggetto-oggetto dell’autoscatto [12] e del oggetto-soggetto della visione ad un comune orizzonte mondano.
Qui la ‘chiacchiera’ (M. Heidegger) che scaturisce dai “background beliefs”, [13] dai fascinanti stereotipi corrispondenti ad un immaginario tanto piu` rassicurante quanto piu` sottratto alla sua problematicità, [14] propenso ad adagiarsi e adagiare i fotogrammi di Francesca Woodman in una categoria estetica di appartenenza istituita (type) di cui ogni scatto sarebbe solo una citazione, esaurisce il suo effetto appagante e recupera in ognuno di quelli la sua occorrenza contingente (token) indisponibile alla contemplazione passiva. Un ‘tra’ epistemologico e insieme creativo si propone come qualità che non ‘è’ del fenomeno processuale ma in esso ‘affiora’: un’atmosfera, piuttosto, di
agencement, [15] attraverso e oltre il dentro del fuori e il fuori del dentro, il futuro del passato e il passato del futuro, la vitalità del morire e la mortalità del vivere. Su questa soglia mobile, interstiziale, precaria, alterata, l’incontro con Francesca Woodman è ancora e per la prima volta ogni volta, possibile, giammai impune e comunque insoluto.
[1] «Ogni scelta diviene così la concreta, mistificata espressione di una Geworfenheit ineliminabile, della gettatezza irrimediabile di una parzialità, in una zona, in una fascia cromatica del campo antropico continuo» (S. Piro, Introduzione alle antropologie trasformazionali, La Città del Sole, Napoli 1997).
[2] R. Deakin, Nel cuore della foresta. Un viaggio attraverso gli alberi, EDT, Torino 2008.
[3] « ...gravi errori possono prendere stabilmente piede, come quello che si è insediato attraverso le prime traduzioni francesi – e che ormai è quasi impossibile da sradicare –, e cioè la traduzione della locuzione Sein zum Tode con être pour la mort anziché être vers la mort» (in M. Heidegger, H. Arendt, Lettere 1925-1975 e altre testimonianze (1988), Einaudi, Torino 2007).
[4] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966.
[5] Labile e intensivo invece che misurabile ed estensivo
[6] Diadromè: il correre attraverso, l’andare e venire.
[7] «Il mistero degli occhi e dello sguardo/del soggetto e dell'oggetto, trasparente/sull'orrore che sta oltre se stesso; il muto/sentimento di ignorare se stessi,/e la tormentata commozione che nasce/dall'avvertire la follia del vuoto;/l'orrore di, un'esistenza incompresa/quando da' tale orrore si giunge all'anima/rende ogni dolore umano un'illusione./Quello è il supremo dolore, la vera croce./Vogliono disprezzare il tuo senso di orgoglio,/Cristo!/Allora io vedo-orrore-l’intima anima,/il mistero perenne che attraversa/come un sospiro i cieli e i cuori» (F. Pessoa).
[8] Non “skilled visions”, sguardi competenti” o saperi dello sguardo, ma…
[9] Il tempo della magia, in cui il ‘prima’ e il ‘poi’ ricorrono nel tempo e nello spazio e anticipano e recuperano il senso.
[10] Lo scatto è preceduto da uno studio meticoloso che non è solo un’operazione tecnica, ma una finzione della geometria (J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva, Il Mulino, Bologna1999).
[11] I “ritratti profetici” di Capuana.
[12] «Noi (che) non possiamo mai sperimentare direttamente il campo visivo di un altro essere umano» (M. Merleau Ponty) nel fotogramma di Francesca Woodman modella di sé stessa, condividiamo il campo visivo che la comprende come soggetto noemante e oggetto noemato e siamo offerti alla vicinanza lontananza dal suo corpo esposto in comune oscenità (nell’etimologia inventata di Carmelo bene.
[13] Jonathan Cohen e Aaron Meskin, “On the Epistemic Value of Photographs”. Journal of Aesthetics and Art Criticism, 62, 2, 2004. Id., “Photographs as Evidence”, in S. Walden, 2008, Photography and Philosophy. Essays on the Pencil of Nature, MA: Blackwell, Malden 2008.
[14] Próblema: enigma e progetto; «ciò che si pone o si getta davanti a sé, la proiezione di un progetto, il compito da realizzare, ma anche la protezione di un sostituto, di una protesi che mettiamo davanti per rappresentarci, sostituirci, proteggerci, dissimularci o nascondere qualcosa di inconfessabile, come uno scudo (…) dietro il quale mantenersi in segreto o al riparo in caso di pericolo» (J. Derrida, Aporie. Morire – Attendersi ai “limiti della verità (1966), Bompiani, Milano 2004).
[15] Il deleuziano concatenamento.
Francesca Woodman, autoscatto all'età di 13 anni, 1972