Orrenda la sensazione di vuoto. Non ho nulla che riesca ad attenuare questa sensazione.
Certo il quadro, in generale, si è spostato. Ancora un anno fa mi rallegravo di aver fame e mangiavo di buon appetito. I purganti che prendevo ogni giorno mi impedivano di ingrassare. Sceglievo naturalmente i cibi con la stessa preoccupazione, evitavo ogni alimento ingrassante, ma tuttavia mangiavo con piacere e gioia le cose che potevo permettermi. Adesso invece, nonostante la fame che sento, ogni pasto è un tormento; accompagnato ogni volta da sentimenti di angoscia. Ora, tali sentimenti di angoscia non mi lasciano assolutamente più. Li sento come qualcosa di fisico: un male qui nel cuore.
Quando mi sveglio al mattino provo l’angoscia per quella fame che so che ben presto si farà sentire. La fame mi spinge fuori dal letto. Faccio colazione e non passa un’ora che ho di nuovo fame. Per tutto il giorno la fame o l’angoscia per questo mi tormentano. L’angoscia di aver fame è qualcosa di orribile. Essa bandisce tutti gli altri pensieri dalla mia testa. Persino quando sono sazia penso con spavento che tra un’ora la fame sarà un’altra volta lì a tormentarmi. quando ho fame non posso più scorger con chiarezza, analizzare nulla.
Descriverò brevemente quanto mi può succedere al mattino. Siedo allo scrittoio e lavoro. Ho molto da fare; molte cose di cui son lieta di occuparmi. Se non che una tormentosa inquietudine non mi consente di raccogliermi. Balzo in piedi, corro qua e là, continuo a fermarmi davanti alla credenza in cui tengo il pane. Ne mangio un poco; altri dieci minuti, e salto di nuovo su e ne mangio ancora. Mi propongo severamente di non a mangiare più nient’altro. E naturalmente posso esercitare una sufficiente forza di volontà per farlo. Ma il desiderio di mangiare, questo è insopprimibile. Per tutto il giorno non riesco a cacciarmi dalla testa il pensiero del pane. Riempie a tal punto il mio cervello che non c’è più posto per altri pensieri: non posso concentrarmi né nel lavoro, né nella lettura. Per lo più finisce che esco in istrada. Fuggo davanti al pane nella credenza e vado in giro senza meta. Oppure prendo un purgante. Come si può analizzare tutto questo? Da dove viene quest’invincibile inquietudine? Perché penso di poterla attenuare soltanto mangiando? E perché poi il mangiare mi rende tanto infelice? Si potrebbe dirmi: ‘Mangia dunque questo pane e ti calmerai’. Non è così invece, quando ho mangiato sono altrettanto infelice. Torno a sedermi e allora il pane che ho mangiato è sempre lì, davanti ai miei occhi, mi palpo lo stomaco e son costretta a pensare senza requie: ecco, adesso ingrasserai! Quando tento di analizzare tutta questa faccenda, non ne vien fuori che teoria. Un almanaccamento. Sentire, mi riesce soltanto di sentire l’inquietudine e l’angoscia. (1) Ma tutte queste sono solo immagini fantastiche; devo stillarmi il cervello, per pensarle. Sarebbe facile analizzare un altro in questo modo. A me, invece, non resta frattanto che voltolarmi nella mia angoscia mortale e devo passare mille e mille ore d’orrore. Mi sembra che i giorni siano fatti di migliaia di ore, e spesso tutto questo pensare morboso mi stronca a tal segno che non mi auguro ormai che la morte. La cosa più orribile è ogni volta che mi alzo da tavola. Quel che vorrei sopra ogni cosa è non mangiare affatto per non ritrovare quell’orribile sensazione dopo ogni pasto. Ormai per tutta la giornata ho paura di questa sensazione. Come far a descriverla? È una oscura sensazione di vuoto nel cuore, una sensazione d’angoscia e d’abbandono. Talvolta il cuore mi batte così forte che me ne vengono le vertigini. Nell’analisi abbiamo dato questa spiegazione: nel mangiare io cerco di soddisfare due cose: la fame e l’amore. La fame viene appagata l’amore no! Resta il gran buco non riempito.
Al mattino, al risveglio, già comincio ad avere paura dell’«angoscia-dopo-il-pranzo»; e questa angoscia mi accompagna tutto il giorno. Provo angoscia persino all’idea di entrare in un negozio di generi alimentari. La vista dei generi alimentari desta in me delle brame che essi (i generi alimentari) non possono mai appagare. Come se uno tentasse di estinguere la sua sete nell’inchiostro.
Troverei forse la liberazione se potessi risolvere questo enigma: scoprire il punto di raccordo tra il mangiare e la brama. Il rapporto erotico-anale è mera teoria. (2) Mi è del tutto incomprensibile. Assolutamente io non mi capisco. È terribile non capire se stessi. Io sto di fronte a me stessa come ad un estraneo: ho paura di me stessa, ho paura dei sentimenti dei quali in ogni momento sono in preda senza che me ne possa difendere. Questo è l’orribile nella mia vita: essa è ricolma di angoscia. Angoscia del mangiare, angoscia della fame, angoscia dell’angoscia. Dall’angoscia può liberarmi soltanto la morte. Ogni giorno è come camminare su una cresta vertiginosa, un eterno bilanciarsi sugli scogli. È inutile che l’analisi mi dica in anticipo che questa angoscia, questa tensione la voglio io. È ingegnoso, ma non è di nessun aiuto per il mio povero cuore: chi la vuole questa tensione, chi, che cosa? Non vedo più nulla, tutto si confonde, tutto è sottosopra.
Il mio è sempre e soltanto un rovello dell’intelletto. Nel mio io più riposto nulla muta, il tormento permane identico. È facile dire: tutto è perspicuo. Quel che bramo è la violenza e in effetti mi sto violentando ora per ora. Ho dunque raggiunto il mio scopo.
Ma l’errore dov’è, dov’è l’errore? Perché la mia miseria è senza limiti e mi sembra stupido dire: ‘proprio questo voglio: essere miserabile’. Queste sono parole, sono soltanto parole, parole… e intanto soffro, come non si lascerebbe soffrire una bestia.
(1) “Segue un tentativo di analisi” [nota di L. Binswanger].
(2) “Era allora in corso la seconda analisi” [nota di L. Binswanger].
Jannis Kounellis, catrame su carta, 1990 (courtesy Albanese Arte)