L’opera di Michel Foucault non si esaurisce nei testi fondamentali, sulla follia, lo sguardo medico e i sistemi di pensiero, sul potere segregativo e sul biopotere, un percorso trasversale insegue ai margini le tracce della presenza insistente, incombente e mascherata dalla stessa omnipervasività dei propri fenomeni di ciò che potremmo chiamare un’
ontologia della lingua. Che ci sia lingua, che si articoli, che faccia segno al mondo e che, come sosteneva Roland Barthes, il linguaggio umano non sia solo il modello del senso, ma anche il suo fondamento, è il tema che intendiamo approfondire. È esattamente in ragione della sua natura costitutiva del senso e della sua pervasività che il linguaggio si nasconde. Vogliamo indagare la sostanza occulta di un arbitrario culturale fondante.
Il percorso seguente riprende le argomentazioni foucaultiane che, attraverso l’analisi di tre autori (Raymond Roussel, Jean-Pierre Brisset e Louis Wolfson), ciascuno a suo modo grandiosamente divergente, ricerca il piano fondamentale del linguaggio attraverso quelle che per un verso possono individuarsi come patologie della lingua, per un altro come indici della sua verità. L’articolazione, sottratta al piano dell’intersoggettività di linguaggi che si sostentano esclusivamente in ragione del rigore bizzarro della propria composizione, fa segno ad una verità, il
procedimento costituente che dice il mondo, in ciò creandolo. Come la norma si individua solo in ragione di ciò che la eccede, così il piano dell’articolazione linguistica emerge dai suoi stati patologici. Possiamo liquidare i tre autori come psicotici, non di meno la loro opera è di una potenza espressiva sconcertante e porta la consapevolezza di un
Abgrund fondante la lingua che altrimenti sarebbe destinato a rimanere occulto.
Raymond Roussel
«In questo libro si parla dello spazio, del linguaggio e della morte; si parla dello sguardo» (1). Il folgorante
incipit con cui vengono introdotte le ricerche sulla storia della medicina che sostanziano la
Nascita della clinica, potrebbe aprire adeguatamente anche il
Raymond Roussel. I due testi, pubblicati nello stesso anno (1963), affrontano tematiche analoghe secondo percorsi estremamente differenti e sviluppano problematiche ereditate dallo studio precedente sulla storia della follia. La
Nascita della clinica ripercorre la svolta fondamentale che nella storia del sapere medico ha inaugurato l’organizzazione dei rapporti tra medico, morbo e paziente su cui si regge il moderno sapere clinico, in ciò utilizzando gli strumenti metodologici elaborati nella
Storia della follia. Il
Raymond Roussel sviluppa invece le analisi del rapporto tra linguaggio e follia, attraverso lo studio dell’opera del romanziere e poeta Raymond Roussel.
Concepite nello stesso periodo e articolate sulle stesse tematiche, le due opere condividono la medesima reputazione di testi marginali all’interno del lavoro di Foucault. La
Nascita della clinica viene trascurata in quanto troppo condizionata dalle metodologie strutturaliste (oggetto di una sconfessione parziale ne
L’archeologia del sapere) e per il carattere fortemente specialistico delle sue ricerche; il
Raymond Roussel è invece semplicemente rimosso dal
corpus foucaultiano ad opera della critica: a parte i doverosi accenni superficiali nelle biografie, alla monografia su Roussel è dedicato un solo scritto di rilievo, l’introduzione all’edizione francese di Pierre Macherey (2). Ciò malgrado Foucault in molteplici interviste abbia dichiarato l’importanza assoluta all’interno del proprio lavoro dello studio su Roussel (opera che, ancora nei primi anni ottanta, individuava come quella che sentiva maggiormente prossima), la critica non ha mai tentato di andare oltre lo «sconcertante» effetto prodotto tanto dalla lettura delle opere di Roussel quanto del saggio di Foucault.
La natura del linguaggio e il procedimento in Raymond Roussel
Autore di testi teatrali in prosa e in versi, precursore del surrealismo, psicotico maniaco-depressivo (in cura con Pierre Janet che al suo caso dedicò parte dello scritto
De l’angoisse à l’extase (3), individuandolo con uno pseudonimo ripreso dal protagonista di
Locus Solus, Martial (Canterel), Raymond Roussel cercò per tutta la vita una notorietà (4) che, al di fuori di ristrette cerchie di devoti estimatori, non riuscì mai a raggiungere. A motivare in Foucault un interesse per Roussel tale da promuovere la composizione di un libro, fu un breve scritto di Roussel stesso di poco precedente al suo misterioso suicidio (5) e che per sua stessa disposizione venne pubblicato postumo. Il titolo di tale breve scritto è
Comment j’ai écrit certains de mes livres. In quest’opera viene proposta una giustificazione retrospettiva delle opzioni tecniche che hanno orientato la composizione di alcune tra le sue opere più importanti.
Comment j’ai écrit certains de mes livres vuole fornire una chiave interpretativa tale da aprire lo spazio per una comprensione adeguata di almeno una parte della sua opera. In tal modo Roussel, scorato dal fraintendimento con cui i suoi testi vennero accolti in vita, auspicava per sé una gloria futura: «e mi rifugio in mancanza di meglio nella speranza che forse avrò un po’ di fioritura postuma attraverso i miei libri» (RR 8). In quest’opera vengono illustrati i bizzarri processi che organizzano la composizione delle opere della maturità di Roussel, le opere in prosa
Impressions d’Afrique e
Locus Solus, nonché i testi teatrali
Poussiére de soleils ed
Etoile au front. Nulla viene detto circa gli espedienti che presiedono alla composizione delle opere giovanili e dell’ultima opera poetica,
Nouvelles impressions d’Afrique.
Foucault muove la sua analisi dalla constatazione dell’ambiguità dello statuto del libro postumo, in rapporto al complesso dell’opera di Roussel. Nello svelare l’architettura di alcune opere, quindi portando alla luce l’organizzazione latente che le sostiene, Roussel evidenzia un segreto che non può che condurre ad interrogarsi sull’esistenza di ulteriori segreti celati nell’opera e sulla natura stessa del suo linguaggio. «Una sola cosa è certa: il libro «
posthume et secret» è l’elemento ultimo indispensabile al linguaggio di Roussel. Nel dare una «soluzione» trasforma ogni parola in una trappola possibile, cioè in trappola reale, poiché la sola possibilità che ci sia un doppio fondo apre per chi ascolta uno spazio di incertezza senza requie. Cosa che non contesta l’esistenza del procedimento chiave, né il positivismo meticoloso di Roussel, ma da alla sua rivelazione un valore retroattivo e indefinitamente inquietante» (RR 15).
Il primo e fondamentale procedimento compositivo svelato da Roussel, consiste nell’organizzare l’opera muovendo da due frasi graficamente quasi identiche, ma che, in virtù di un minimo scarto fonetico, producono situazioni di senso completamente differenti. Caso esemplare di tale principio compositivo è
Impressions d’Afrique, in cui principio e termine dello sviluppo tematico dell’opera sono le evocazioni prodotte dalle frasi «
Les letteres du blanc sur les bandes du vieux billard» (6) e «
Les letteres du blanc sur les bandes du vieux pillard» (7). Uno scarto minimo produce una divaricazione assoluta di senso, che Roussel raccorda nello sviluppo dell’opera in consonanza con il proliferare brulicante di evocazioni di senso di volta in volta suggerite dall’incedere verbale. «L’identità delle parole — il semplice fatto, fondamentale per il linguaggio, che ci siano meno vocaboli che designano che cose da designare — è essa stessa un’esperienza a doppio versante: rivela nella parola il luogo di un incontro imprevisto fra le figure più lontane del mondo (è la distanza abolita, il punto di scontro fra gli esseri, la differenza raccolta su se stessa in forma unica, doppia, ambigua, minotaurina); ed essa mostra uno sdoppiamento del linguaggio che, a partire da un unico nucleo, si stacca da se stesso e fa nascere senza pausa altre figure (proliferazione della distanza, vuoto che nasce sotto i passi del doppio, crescita labirintica dei corridoi simili e differenti)» (RR 20). Il linguaggio di Roussel dispiega le potenzialità ludiche che gli son proprie muovendosi in uno «spazio tropologico» (8), che non è però organizzato attorno a delle figure, a dei tropi, ma in «uno spazio bianco sistemato nel linguaggio, che apre all’interno stesso della parola il suo vuoto insidioso, desertico e pieno di trappole» (RR 22) (9).
Il gioco di identità e differenza evidenziato dal principio cardine del procedimento (la «frase eponima» (RR 26) e la sua ripetizione differente), si ripete in continuazione nelle opere: uno scarto morfologico minimo diventa il fondamentale organizzatore della composizione letteraria, ponendo in luce la natura profonda del linguaggio: «lama sottile che fende l’identità delle cose, il linguaggio le mostra incredibilmente doppie e separate da loro stesse fino nella loro ripetizione, e questo al momento in cui le parole ritornano alla loro identità in una regale indifferenza per tutto ciò che differisce» (RR 30).
Oltre alla frase eponima e al proliferare di quasi-indentità fonetiche che producono le associazioni di senso autrici dello sviluppo tematico delle opere, Roussel utilizza ed è il terzo elemento del procedimento l’ambigua preposizione
à quale ponte per generare associazioni fittizie,
mésalliances semanticamente anfibologiche (10). Anche questo agirà sulle parole come gli altri principi del procedimento: «insinuerà la sua lama in mezzo al loro spessore per farne uscire due significati estranei nell’unità mantenuta della forma» (RR 45).
Il procedimento di Roussel è essenzialmente un procedimento poetico (11), compie in prosa ciò che la rima realizza nei testi poetici (12) (come detto estranei al procedimento), gli compete quindi il ruolo di distruzione delle immagini e di edificazione di un senso altro che Foucault attribuiva al componimento poetico nell’introduzione a
Sogno ed esistenza di Ludwig Binswanger: «poesia, divisione assoluta del linguaggio, che lo restituisce identico a se stesso ma dall’altra parte della morte; rime delle cose e del tempo. Dall’eco fedele nasce la pura invenzione del canto» (RR 64).
Conseguenza fondamentale del procedimento, dell’imposizione di un diagramma articolato che presiede alla composizione, è la dislocazione del parlante rispetto al discorso. L’affiorare del procedimento si impone «trascinando l’autore in una logica di cui egli è più il momento che il soggetto («Il procedimento ebbe un’evoluzione e fui spinto a prendere una frase qualsiasi…»)» (RR 74) (13).
La rivelazione del procedimento, di una insospettata metodica architettonica che sottende e genera con minuziosa sistematicità l’opera, non deve portare a considerare la scrittura di Roussel come un’anticipazione della scrittura automatica dei surrealisti, ma come estremo tentativo di esorcizzare e padroneggiare l’aleatorio. «Il Procedimento consiste propriamente nel purificare il discorso da tutti questi falsi casi dell’«ispirazione», della fantasia, della penna che corre, per metterlo davanti all’evidenza insopportabile che il linguaggio ci viene dal fondo di una notte perfettamente chiara ed impossibile a dominare. Soppressione del caso letterario, delle sue scappatoie e delle sue traversie, affinché appaia la linea diritta di un caso provvidenziale: quello che coincide con l’emergenza del linguaggio. L’opera di Roussel… è un tentativo per organizzare, secondo il discorso meno aleatorio, il più inevitabile dei casi (14) » (RR 47). Certamente il materiale su cui il procedimento si applica è casuale, ma la consapevolezza che «l’alea non è il gioco d’elementi positivi, è l’apertura infinita, e ad ogni istante rinnovata, dall’annientamento» (15) (RR 53) permette al procedimento stesso di compiere la distruzione deflagrante delle significatività di partenza e l’edificazione di una significatività seconda sui frammenti deformi e sparpagliati degli elementi originari: «lungi dall’essere un linguaggio che cerca il proprio avvio, è la figura seconda delle parole già parlate: è il linguaggio di sempre lavorato dalla distruzione e dalla morte» (RR 53).
Foucault coglie nell’opera di Roussel una consapevolezza profonda dello statuto ontologico del linguaggio: «Tutta l’opera di Roussel, fino alle
Nouvelles impressions d’Afrique, ruota intorno ad una esperienza singolare (cioè, che bisogna mettere al singolare): il legame del linguaggio con questo spazio inesistente che, al di sotto della superficie delle cose, separa l’interno della loro faccia visibile e la periferia del loro nocciolo invisibile. E là, fra ciò che c’è di nascosto nel manifesto e di luminoso nell’inaccessibile, che si crea il compito del suo linguaggio» (RR 131). L’espediente attraverso cui Roussel realizza tale compito è il procedimento. La consapevolezza della «disgrazia ontologica» (RR 145) del senso muove Roussel alla ricerca di un principio organizzatore che di tale disgrazia si faccia carico, realizzando, nella sua «invisibile visibilità» (16), un’articolazione
altra capace di legittimarsi in se stessa, attraverso il rimando al principio stesso del procedimento.
Roussel, Brisset, Wolfson
In uno scritto destinato ad introdurre una riedizione de
La science de Dieu (17) di Jean-Pierre Brisset, Foucault approfondisce e generalizza le analisi sul procedimento condotte nel
Raymond Roussel.
Ad accomunare Roussel e Brisset, oltre all’incomprensione generale che ne accolse l’opera e alla labilità psichica con cui entrambe dovettero confrontarsi (18), è l’infaticabile lavoro di distruzione e riorganizzazione del linguaggio che si compie nella loro opera.
Dopo il tramonto delle ricerche filologiche sull’origine della lingua, Brisset compie un ulteriore tentativo di render ragione dell’origine delle parole. A differenza dei filologi (Foucault cita Duret, de Brosses e Court de Gébelin) che diligentemente cercavano una lingua originaria in cui reperire le radici comuni a lingue contemporanee diverse, «l’origine del francese non è assolutamente, per Brisset, ciò che gli è anteriore; è il francese stesso che gioca su se stesso, cadendo fuori di sé, in una polvere ultima che è il suo cominciamento» (SPSA 13). Non si tratta di cercare in una lingua arcaica le matrici perdute della lingua parlata, «la primitività è piuttosto per lui uno stato fluido, mobile, indefinitamente penetrabile del linguaggio, una possibilità di circolarvi in ogni senso, il campo libero ad ogni trasformazione, rovesciamento, suddivisione, la moltiplicazione in ogni punto, in ogni sillaba o sonorità, dei poteri di designazione. All’origine, ciò che Brisset scopre, non è l’insieme limitato di parole semplici fortemente legate alla loro referenza, ma la lingua quale noi la parliamo oggi, questa lingua stessa allo stato di gioco, al momento in cui i dadi sono gettati e, rotolando, mostrano le loro facce successive» (SPSA 14-15).
Le etimologie fantastiche (19) proliferano secondo principi di scomposizione e accoppiamento, generando forme emergenti da un «linguaggio in emulsione» (SPSA 15), che ripete scientemente «il percorso e la ripetizione del caso della lingua» (SPSA 16). Il procedimento cui egli sottopone le parole, consiste nel polverizzarle attraverso l’applicazione successiva di principi combinatori elementari, capaci di far emergere un fascio di significatività correlate che convergono, per prossimità semantica, per allitterazione o per infiniti e casuali accostamenti fonetici, verso la parola in esame. Questa combinatoria, più prossima all’enigmistica che alla filologia, costituisce la «
science de Dieu» (20) scoperta da Brisset.
Foucault coglie nel procedere di Brisset un fondamentale principio di proliferazione: «ciò che si scopre, nello stato originario della lingua, non è un tesoro, benché straordinariamente ricco, di parole; è una moltitudine di enunciati. Sotto una parola che noi pronunciamo, ciò che si nasconde, non è un’altra parola, e nemmeno più parole saldate tra loro, c’è, il più delle volte, una frase o una serie di frasi. Ecco la doppia etimologia — e ammiriamo giustamente la doppia gemellarità — d’
origine e d’
immagination: «
Eau rit, ore ist, oris. J’is nœud, gine. Oris = gine = la gine urine,
l’eau rit gine. Au rige ist nœud. Origine. L’écoulement de l’eau est à l’origine de la parole. L’inversion de
oris est rio, et rio ou
rit eau, c’est le
ruisseau. Quant au mot
gine il s’applique bientôt à la femelle:
tu te limes à gine? Tu te l’imagines.
Je me lime, à gine est? Je me l’imaginais.
On ce, l’image ist né; on ce, lime a gine ai, on se l’imaginait.
Lime a gine à sillon; l’image ist, nœud à sillon; l’image ist, n’ai à sillon.» Lo stato primario della lingua non era pertanto un insieme definibile di simboli e di regole di costruzione; era una massa indefinita di enunciati, uno sfavillio di cose dette» (SPSA 22-23). Le parole si rivelano in Brisset già istoriate di discorsi che le sostengono, «modalità enunciative fissate e ridotte al neutro» (SPSA 23). Le parole non sono dunque primità giacché anteriore ad esse si dispiega lo spazio discorsivo che le rende possibili, che la
scienza di dio vuole far riecheggiare nelle parole stesse, ponendole quale nucleo, attorno e attraverso cui si rappresenta una molteplicità di scene.
Illustrato il procedimento di Brisset, Foucault lo confronta con quelli di Roussel e Wolfson. Ciò che secondo lui sul piano più generale accomuna i tre procedimenti è la pratica sistematica dell’«
à-peu-prés», del suppergiù, del pressapoco, benché ciò si realizzi secondo modalità tuttaffatto differenti nei diversi autori. «In Roussel, come in Brisset, c’è l’anteriorità di un discorso trovato a caso o anonimamente ripetuto; nell’uno e nell’altro si danno serie, nell’interstizio delle quasi-identità, d’apparizioni di scene meravigliose che con le parole fan corpo» (SPSA 36). Ma mentre Roussel apre, in una faglia infima prodotta dalla differenza fonologica, un abisso che solo un lungo racconto può raccordare, Brisset salta di parola in parola guidato da prossimità foniche («salaud, sale eau, salle aux prix, salle aux pris(onniers), saloperie» (SPSA 37)), facendo sorgere ad ogni scarto un proliferare di rappresentazioni sceniche (un teatro della crudeltà) iscritte nei suoni della lingua, e che ne costituiscono la storia.
Louis Wolfson è l’autore assolutamente straordinario di due testi «la cui bellezza e densità rimane nel patologico» (21), in cui racconta le proprie vicende biografiche, parlando in terza persona di sé come dello
studente di lingue schizofrenico. Di straordinario interesse è il rapporto di Wolfson con il linguaggio: rifiutando la lingua materna, dal cui solo ascolto si sente ferito, dedica il suo tempo allo studio delle lingue straniere, in particolare francese, tedesco, russo ed ebraico e all’elaborazione di complessi meccanismi di traduzione immediata delle parole inglesi in altre corrispondenti nelle lingue conosciute. Gran parte di
Le schizo et les langues è costituito da esperimenti di traduzione di parole particolarmente ostili della lingua materna, basati essenzialmente su corrispondenze fonetiche (consonantiche) e semantiche. L’approssimazione, l’
à-peu-près, si compie in Wolfson quale «mezzo per trovarsi improvvisamente all’esterno, per intendere, fuori dalla patria, un linguaggio neutralizzato…. Grazie a questi ponti leggeri gettati da una lingua all’altra, e sapientemente calcolati in anticipo, lo studente di lingue psicotico, appena assalito dal furioso idioma materno, si ritrae in quello straniero e non intende altro che i termini pacificati» (SPSA 39-40).
Brisset agisce in modo inverso, muovendo da un termine neutro e facendo emergere, per allitterazione, una costellazione sonora in cui ciascun termine evocato produce scenari di desiderio, di guerra e di devastazione. «La ripetizione fonetica non segna la liberazione totale del linguaggio in rapporto alle cose, ai pensieri e ai corpi…; al contrario conficca le sillabe nei corpi, rendendo loro funzione di grida e di gesti; ritrova il grande potere plastico che vocifera e gesticola; rimette le parole nella bocca e attorno al sesso, fa nascere e affacciarsi, in un tempo più rapido di ogni pensiero, un turbine di scene frenetiche, selvagge o giubilatorie, da cui le parole sorgono e che le parole chiamano. Sono l’«Evohé» multiplo di questi Baccanali. … Si tratta di una scenografia fonetica indefinitamente accelerata» (SPSA 42-43).
In conclusione al saggio Foucault analizza le coordinate generali del procedimento, al di là delle singole modalità applicative. Il procedimento entra in gioco quando viene meno il rapporto di designazione tra parole e cose, di significazione tra due proposizioni, di traduzione tra due lingue (22). Il procedimento è innanzitutto manipolazione delle implicazioni di parole e cose in vista di una purificazione di queste (come nella pratica di traduzione di Wolfson), è inoltre un gettar ponti tra le frasi per produrre una proliferazione di eventi discorsivi (come nel caso della frase eponima di Roussel), infine «il procedimento — e questo all’estremo opposto di ogni traduzione — decompone uno stato di lingua con un altro, e da queste rovine, da questi frammenti, da questi tizzoni ancora roventi, edifica un ambiente per ripetere le scene di violenza, di assassinio e d’antropofagia» (SPSA 47) (come in Brisset).
Queste modalità generali del procedimento si trovano in qualche grado presenti nei tre autori analizzati, benché ciascuno di loro abbia affidato un ruolo privilegiato ad un singolo aspetto. Ciò che comunque li accomuna è la presenza di un principio di organizzazione rigoroso che, lavorando sul linguaggio e nel linguaggio, determina l’affiorare di potenzialità inespresse, di riarticolazioni e rappresentazioni inaudite.
Foucault racconta che, nel 1906, Brisset organizzò una conferenza il cui programma era il seguente: «L’Arcangelo della resurrezione e il settimo angelo dell’Apocalisse, i quali non son che uno, faranno udire la loro voce e suoneranno la tromba di Dio per bocca del conferenziere. In quel momento il settimo angelo verserà la sua coppa nell’aria» (SPSA 56).
Spetta al procedimento far udire l’inaudito, dar voce al settimo angelo (23).
Il procedimento e il metodo archeologico
L’insistenza di Foucault sul procedimento muove a considerare l’eventualità di una possibile relazione forte tra il procedimento stesso e la pratica metodologica elaborata da Foucault. Abbiamo visto come il procedimento, benché non sia che un esorcismo disperato, costituisca l’unico espediente in grado di divincolare dalle maglie del Medesimo, attraverso un principio ad un tempo dissolutore delle identità e produttore di positività. È legittimo supporre che, per Foucault archeologo, il metodo (omologo del procedimento) si presenti come il principio di riarticolazione delle significazioni, capace di autolegittimarsi. L’ultimo testo integralmente (24) archeologico di Foucault, l’
Archeologia del sapere, potrebbe del resto chiamarsi legittimamente
Come ho scritto alcuni dei miei libri, essendo l’esposizione (postuma, rispetto all’elaborazione e all’impiego del metodo stesso) del procedimento archeologico. Gli enunciati, oggetto del metodo archeologico, sono emergenze di senso concrete nel linguaggio e nelle pratiche che caratterizzano il tempo della loro evenienza e ne sono al contempo determinate. Più che elementi organicamente disposti a costituire un mondo, sono frammenti significanti dislocati in uno spazio di dispersione: il metodo archeologico si propone una loro risignificazione secondo coordinate capaci di produrre effetti di verità. In ciò si manifesta la natura di procedimento del metodo archeologico.
Anche la questione del rapporto di Foucault con lo strutturalismo può illuminarsi se vista alla luce delle analisi del procedimento. Lo strutturalismo (in linguistica, innanzi tutto) si presenta come un procedimento rigoroso. Ciò che Foucault sembra rimproverargli è l’essere ancorato allo schema angusto degli opposti binari (25) e una tendenza alla totalizzazione del metodo, rivelatrice di una scarsa consapevolezza del proprio statuto di principio euristico, limiti che ne pregiudicano l’applicazione a strutture significanti più articolate (26).
Conclusioni: in cammino sotto il linguaggio
Almeno da Platone in poi, la lingua è al centro della riflessione del pensiero occidentale. Molti dei suoi aspetti sono oggetto di discipline specifiche, grammatica, glottologia, atti linguistici, linguistica sociale, generale, comparata. La nostra analisi ha cercato di muoversi su un piano soggiacente l’espressione codificata, tanto nella forma sincronica della
langue quanto in quella eventuale della
parole, l’atto espressivo verbale individuale. Ci si è calati nel magma significativo che precede l’emergenza delle forme, ciò che Julia Kristeva ha chiamato il semiotico pre simbolico, alla ricerca del principio d’ordine che presiede alla costituzione del senso. Abbiamo seguito Foucault nella ricognizione del lavoro nel linguaggio di Roussel, Brisset e Wolfson, individuando i caratteri specifici che il procedimento assume nell’opera di ciascuno. Interrogandoci quindi sul significato dell’interesse di Foucault per il procedimento, fino ad ipotizzare un’omologia tra il procedimento costituente e il metodo archeologico, modalità per dare una nuova forma alla dispersione degli enunciati. Il “produrre effetti di verità”, il “pensare altrimenti”, compiti etici che Foucault attribuiva al proprio lavoro, procedono dall’attivazione di una macchina per produrre senso i cui ingranaggi costituiscono il metodo archeologico esposto nell’
Archeologia del sapere.
* Il testo originale, pubblicato nel 2009 in BDF 5.0 Bateson, Deleuze, Foucault (vedi: bdf-23-foucault-e-il-procedimento-2009) è stato rivisto dall'autore. In quello stesso sito è presente un video che riproduce un seminario del 2009, svolto da Enrico Valtellina e da Pietro Barbetta sul medesimo argomento.
(1) Nascita della clinica, Torino, Einaudi, 1969, p.3.
(2) Pierre Macherey, Foucault - Roussel – Foucault, presentazione a Michel Foucault, Raymond Roussel, Paris, Gallimard, 1992, pp.I-XXX. Unica eccezione ulteriore è Gilles Deleuze, che nel Foucault e in Pourparlers elabora i temi della metamorfosi e del labirinto e del rapporto tra visibile e dicibile proposti nel Raymond Roussel.
(3) Sui rapporti tra Janet e Roussel rimando al mio Roussel – Janet – Roussel in tysm.org.
(4) Pubblicando a proprie spese le sue opere e facendo rappresentare dalle più quotate compagnie, sempre attingendo alle sue cospicue risorse, le opere teatrali.
(5) Roussel pose fine alla propria esistenza con una dose eccessiva di barbiturici (farmaci di cui faceva ampio uso per provocare l’effetto-paradosso di euforia) in un albergo di Palermo, che avrebbe dovuto lasciare il giorno successivo per recarsi in Svizzera, dove porsi in cura (curiosi ricorsi) da Binswanger. Alle strane circostanze del suicidio Leonardo Sciascia ha dedicato Atti relativi alle circostanze della morte di Raymond Roussel, Palermo, Sellerio, 1987.
(6) Le lettere del gesso sulle sponde del vecchio biliardo.
(7) Le lettere del bianco sulle bande del vecchio predone.
(8) Foucault nota un’analogia con le teorie linguistiche dei grammatici del XVIII secolo, secondo cui (cita Dumarsais) la povertà di forme linguistiche e la loro capacità di piegarsi a sensi differenti, apre la possibilità di un senso altro, di un «senso tropologico», secondo le figure di conversione denominate «tropi».
(9) In questo vuoto costitutivo nel linguaggio, Roussel «sente, più che la semi-libertà dell’espressione, una vacanza assoluta dell’essere che bisogna investire, padroneggiare e colmare con l’invenzione pura: è ciò che egli chiama in opposizione alla realtà, la «concezione» («chez moi l’immagnation est tout»); egli non vuole doppiare il reale di un altro mondo, ma negli sdoppiamenti spontanei del linguaggio, scoprire uno spazio inaspettato e ricoprirlo di cose ancora mai dette» (RR 22).
(10) Foucault riporta i seguenti esempi: «Crachat à delta. Bolero à remise. Dragon à élan. Martingale à Tripoli.» «Tutte espressioni con doppio significato, pressoché intraducibili: Sputo a delta / Decorazione a delta. Giubbetto con risvolto / Danza in rimessa. Dragone con slancio / Arcigna con alce. Martingala con tripolo / Giuoco del Tripoli.» (RR 44-45 di seguito alla citazione di Foucault è riportata la nota esplicativa del traduttore).
(11) «Il procedimento, in fondo, è apparentato alla rima. In entrambi i casi c’è creazione imprevista dovuta a combonazioni fonetiche. Si tratta essenzialmente di un procedimento poetico» (RR 64).
(12) «Dall’inizio alla fine dell’opera, e senza eccezione, il linguaggio di Roussel è sempre stato doppio, ora tenendo discorsi senza procedimento, ora discorsi con procedimento; ma i primi sono in versi, i secondi in prosa. … Solo una possibilità è esclusa: un linguaggio senza procedimento né rima, cioè senza doppio» (RR 109).
(13) A questo tema si è dedicato Foucault in «Che cos’è un autore?» in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 1973. Anche nella conclusione dell’Archeologia del sapere Foucault si decentra dal proprio lavoro: “Non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere”.
(14) È chiaro ora in quale senso, precedentemente, Foucault parlasse di «positivismo meticoloso» di Roussel.
(15) «In questo caso moltiplicato, mantenuto e rivolto in distruzione incessante, la nascita e la morte del linguaggio comunicano, e fanno nascere queste figure immobili, ripetitive, metà morte e metà vive, uomini e cose contemporaneamente che appaiono sulla scena d’Ejur o nelle logge di resurrezione di Martial Canterel» (RR 53).
(16) In tutto il Raymond Roussel si insiste sulla «invisibile visibilità» del procedimento.
(17) Lo scritto, che risale al 1970, è disponibile in un’edizione successiva indipendente dal testo di Brisset: Sept propos sur le septième ange, Paris, Éditions Fata Morgana, 1986.
(18) L’ultimo paragrafo dello scritto di Foucault su Brisset, Ce que nous savons de Brisset, raccoglie le scarne notizie biografiche disponibili sull’autore.
(19) È fortemente esplicativa per intendere il senso dell’argomentazione, la seguente etimologia della parola démon; si può ben intendere perché Brisset sostenesse che la sua opera fosse intraducibile. «Le demon = le doigt mien. Le démon montre son dé, son dais, ou son dieu, son sexe… La construction inverse du mot démon donne: le mon dé = le mien dieu. Le monde ai = je possède le monde. Le démon devient ainsi le maître du monde en vertu de sa perfection sexuelle… Dans son sermon il appellait son serf: le serf mon. Le sermon est un serviteur du démon. Viens dans le lit mon: le limon était son lit, son séjour habituel. C’était un fort sauteur et le premier des saumons. Voir le beau saut mon.» (SPSA 15)
(20) L’opera principale di Brisset si intitola appunto La science de dieu, opera rielaborata successivamente con il titolo mutato in Les origines humaines. Su Brisset rimando al mio Le rane, la lingua e dio su tysm.org.
(21) Gilles Deleuze, Logic of sense, New York, Columbia University Press, 1990, p.84; un ulteriore saggio particolarmente rilevante di Deleuze su Wolfson è «Louis Wolfson, ou le procédé», in Critique et clinique, Paris, Minuit, 1993, pp.18-33. Deleuze ha dedicato pagine estremamente interessanti al lavoro di Louis Wolfson, in molteplici opere, a cominciare dall’introduzione (in cui coglie a sua volta il legame tra il procedimento di Roussel e quello di Wolfson) all’edizione francese della prima e fondamentale opera, pubblicata per intercessione di Pontalis: Louis Wolfson, Le schizo et les langues, Paris, Gallimard, 1970, (introduzione, titolata Schizologie, pp.5-23). Wolfson è autore di un testo ulteriore, Mia madre, musicista, è morta di malattia maligna martedì a mezzanotte nella metà di maggio del mille977 nel moritorio del Memorial a Manhattan, Milano, SE, 1987.
(22) È dunque naturale il suo legame con gli stati di turbamento delle relazioni di designazione, significazione e traduzione, in primo luogo quindi con gli stati di alterazione psichica: «Deleuze ha detto mirabilmente: «La psicosi e il suo linguaggio sono inseparabili dal «procedimento linguistico», da un procedimento linguistico. È il problema del procedimento che, nella psicosi, ha rimpiazzato il problema della significazione e dellla rimozione» (prefazione a Louis Wolfson: Le schizo et les langues, p.23)» (SPSA 45).
(23) Alla luce dell’attenzione straordinaria di Foucault per i procedimenti deliranti, sembra strano che non si sia mai occupato delle analisi di Saussure sugli anagrammi, anche in considerazione della grande produzione teorica nata da tali testi in quegli anni (ad opera di autori di tendenze diverse quali Jean Starobinski, Julia Kristeva e Louis-Jean Calvet). Sarebbe interessante verificare lo statuto del linguaggio che emerge dall’analisi degli anagrammi alla luce delle ricerche di Foucault sul procedimento. Per ciò si veda Jean Starobinski, Le parole sotto le parole. Gli anagrammi di Ferdinand de Saussure, Genova, Il melangolo, 1982.
(24) L’abbandono del metodo archeologico non si realizza in blocco, ma attraverso una riorganizzazione globale delle categorie di analisi. Da una topologia articolata e qualitativa della storia realizzata nelle opere archeologiche (le configurazioni epistemiche e i luoghi che le caratterizzano), Foucault sposta la dominante (anche attraverso il ripensamento del lavoro di Nietzsche di cui è traccia «Nietzsche, la genealogia e la storia», in Microfisica del potere, Einaudi) verso un’energetica, un’analisi delle produttività del potere.
(25) Si veda U. Eco, La struttura assente, Milano, Bompiani, 1987, pp.343-350.
(26) L’insistenza sul procedimento accosta Foucault al formalismo russo (Sklovskij, Jakobson, Eichenbaum, Tynianov), corrente a monte di tutti gli strutturalismi, avendo alcuni suoi esponenti (Jakobson, Karcevskij) promosso il circolo linguistico di Praga. I formalisti analizzavano le opere letterarie per evidenziare appunto il procedimento che presiede alla composizione, un titolo tipico di un testo formalista è Come è fatto il cappotto di Gogol, di Boris Eichenbaum.
Alfred Hitchcock, Psychose, 1960