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2012
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La sproporzione antropologica e l’esperienza anoressica. Una temporalità di-sperata
di Omar Montecchiani
15 gennaio 2013
Una dimensione spazio-temporale intesa in senso cartesiano e/o fisicalista, o anche in senso agostiniano, è inconcepibile dal punto di vista del corpo vivente:
Io non posso concepire il mondo come una somma di cose, né il tempo come una somma di “adesso” puntuali: infatti, ogni cosa può offrirsi con le sue determinazioni piene solo se le altre cose si ritirano nella indeterminatezza dei lontani, ogni presente può offrirsi nella sua realtà solo escludendo la presenza simultanea dei presenti anteriori e posteriori, e pertanto una somma di cose o una somma di presenti è un non senso (1).
Se è l’intenzionalità “corporea” a dare senso al soggetto, al mondo, e alle cose che esso abita, il dispiegarsi di questa è possibile solamente a partire dalla dimensione del futuro che av-viene al mio presente, e che è a sua volta un trat-tenere il passato: è solo il tempo dell’attesa, della speranza, del desiderio e del progetto che permette al presente temporale della temporalità vissuta a “dotare” di senso l’esistenza (2). È il futuro che proietta retrospettivamente il senso del mio essere presente, che si dispiega continuamente verso di esso a partire dalla ripresa (anch’essa continua) del passato (3), attraverso quelle strutture intenzionali che Husserl chiama retentio, praesentatio e protentio. Essendo il corpo mancanza (genealogicamente anche mancanza istintuale costitutiva rispetto all’animale, e lo sviluppo della capacità tecnica e culturale come compensazione conseguente di quella (4)), è soltanto il suo protendersi verso le cose future attraverso la sua intenzionalità vivente e nella reciprocità del suo rapporto col mondo , che restituisce ad esso (al corpo) il senso autentico di esso in quanto corpo vivente (5). Ma se questo corpo, come nel caso del soggetto anoressico, non manca di nulla e anzi è esso stesso nulla, questo corpo non abita più la dimensione futura, non è più proiettato intenzionalmente nel mondo.
L’esistenza anoressica infatti si raggrinza in un presente in-esteso: la presenza diventa puntiforme, astratta, eterea le cose non “significano” allora più qualcosa per me, non av-vengono a me a partire da un mio protendermi verso esse, ma nella opacità dell’in-sé di un oggetto in-intenzionato, esse si danno nella loro casualità, improvvisazione, non-senso. Io vivo passivamente il mondo che si raccoglie nell’oggetto che in quel momento si presenta al mio sguardo: ma l’attimo presente che accoglie questo oggetto, essendo privo di estensione, non dispiega un senso esistenziale profondo e ricolmo di significati rispetto alle mie possibilità, ma solo una puntiformità stereotipata passiva, incalcolabile ed effimera.
L’eternità cui cerca di giungere l’anoressica e che, da un lato, è il tempo senza tempo della morte al-di-là della morte , altro non rappresenta per il vivente che il suo essere morto in vita. È l’immortalità mortale per il vivente, della materia inanimata. L’immortalità è, infatti, per il vivente che desidera “temporalmente” all’interno di una dimensione di speranza, di attesa e di progetto, una dimensione di morte in cui paradossalmente non potrebbe vivere (6), ma in cui l’anoressica cerca di costituire la propria esistenza senza confini. È l’eternità di un presente, appunto, percorso «da atti senza domani, da atti fissati, da atti a cortocircuito, da atti che non tendono a concludere» (7), cioè dagli stessi atti della ripetizione rituale del rifiuto del cibo e del vomito autoindotto, del controllo ossessivo delle forme corporee. Ma «con l’eternità la presenza non è più nel mondo, ma al di sopra e al di fuori del mondo, fissata in un presente che non è l’apertura (Offenheit) che ogni situazione dischiude, ma l’evasione in uno spazio etereo allucinato» (8). Ed è in questo senso che la definizione di Merleau-Ponty assume dei contorni così rappresentativi rispetto al discorso anoressico: «Un presente senza avvenire o un eterno presente è la definizione stessa della morte […]» (9).
La fatticità, l’obiettivazione della natura fuggitiva del presente, il raggrinzimento della dimensione protentiva del futuro, la negazione dell’alterità rispetto al proprio sé corporeo e rispetto alla natura transitiva dei fenomeni interiori che sono divenuti, in quanto possibilità di esserlo, situazione di fatto sono fenomeni che si incarnano nel corpo vivente, che assume in questo caso come sua possibilità (insieme a quella di una apertura al mondo della vita) quella di un ritiro dall’esistenza (10). La ripetizione non è, dal punto di vista del tempo vissuto, un tendere a un fine o un tendere a una fine; non è il compiersi e quindi il concludersi di un senso e, di conseguenza, il destinarsi a un altro senso nel desiderio o nel progetto, a partire da un’apertura verso il futuro: è il deserto mortale di un presente eterno, dove nulla comincia e dove nulla finisce (11). Ed è nel sintomo appunto, che si realizza quella concrezione/blocco di ogni capacità distensiva/protentiva, relativamente a una esistenza che, contrattasi e ripiegatasi in se stessa e su se stessa, fa del corpo una metafora vivente del nascondiglio della vita (12).
Dice Jaspers: «La sensazione della presenza, dell’assenza e della realtà è originariamente legata alla coscienza del tempo. Con lo scomparire del tempo, scompaiono il presente e la realtà. Noi sentiamo la realtà come un attuale temporale: oppure sentiamo come se fosse presente il “nulla”, privo di tempo» (13). In questo senso, seppur nella differenza sostanziale che contraddistingue l’esperienza maniacale da quella melanconica, possiamo scorgere, a mio avviso, dei punti di contatto e anzi di fusione all’interno del discorso anoressico.
Se la mania si contraddistingue a livello temporale e quindi esistenziale tout court rispetto alla malinconia, per l’attaccamento a un presente frammentato, effimero e fuggevole, e per una continua frenesia e iper-attivismo sia fisico che psicologico (che è più uno scomporsi nella dispersione e nella agitazione nevrotica che un vero e proprio vitalismo positivo e passionale), in cerca dell’istante “d’appoggio” rispetto alla caducità di tutti gli istanti e alla fuga delle idee, la malinconia (clinica ovviamente), dal canto suo, è caratterizzata fenomenologicamente dall’attaccamento/ripetizione rispetto al passato, da un senso della temporalità contraddistinto da un’attesa disillusa, senza speranza, che non è rivolta nemmeno a un determinato orizzonte futuro, ma all’agitazione superficiale e stereotipata della ripetizione, che funge illusoriamente da anticipazione perpetua (ma mai realizzata) per un cambiamento futuro che non avverrà mai. La pesantezza depressiva dell’omeostasi e della ripetizione dell’identico (a partire dal passato che si ripete) nella malinconia, infatti, si oppongono all’attività frenetica, effimera e discontinua del mondo maniacale (secondo un presente frammentato e atemporale): entrambi però cancellano dal proprio orizzonte il senso del futuro inteso come apertura al cambiamento, ed entrambi quegli aspetti (frenesia, esaltazione, iper attivismo da una parte; omeostasi, depressione, ripetizione statica) si incardinano insieme alla negazione del futuro nella posizione anoressica. Iper-attivismo euforico ed esaltante, e pietrificazione depressiva disperante: mondo etereo e mondo sepolcrale se vogliamo.
Ecco allora che oltre alla dimensione evitante, eterea, del presente atemporale (14) che contraddistingue la dimensione maniacale, la presenza anoressica si mette in luce a partire anche dal senso di colpa (fortissimo in questa patologia), che emerge proprio all’interno di un blocco e al tempo stesso di una ripetizione del tempo passato: è il futuro infatti, come abbiamo detto, la futurizione progettante che permette di oltrepassare il già vissuto e di “evolverne le potenzialità”, in una apertura temporale che permette il distanziarsi del (dal) “già” accaduto e lo scioglimento della ripetizione e della colpa. L’io che resta ancorato al passato non può che rivisitarlo continuamente, in un ripiegamento autolesionistico che, dando una parvenza di movimento temporale, non può che farlo sprofondare in una catabasi negativa di colpa e di autopunizione, in cui la redenzione, la resurrezione e la salvezza, non sono neanche contemplabili. A partire da un progetto di vita che si restringe all’essere-nel-mondo all’interno di possibilità già date infatti, il futuro e la futurizione stessa o diventano impossibili, oppure il futuro stesso diventa da promessa di gioia e di vita realizzata nella speranza e nella progettualità, una minaccia assoluta, perché in questo caso il futuro diventa appunto una ripetizione del passato (15). Cosi come nell’atteggiamento maniacale la presenza si racchiude nella circolarità di un presente etereo e atemporale; così a partire dal tratto malinconico dell’anoressica, la libertà viene trattenuta in uno sguardo retrospettivo in cui il ricordo, il rimpianto e il rimorso assediano il presente secondo modalità ossessive che non permettono il dispiegarsi del futuro, perché questo resta imprigionato nella monotona ri-produzione del passato (16).
Ricordiamo il caso emblematico di Ellen West. Nella sua oscillazione disperata tra i poli estremi dell’esperienza psicotica, da una parte vive, nell’angoscia di diventare vecchia, brutta, grassa, all’interno del mondo etereo, il dispiegamento temporale (in senso ontologico cioè del tempo estatico) nel più totale rifiuto, vuole quindi “trattenere” il tempo assurgendo a una presunta eternità (intesa nel senso forte di assenza di tempo): ma nella sua chiusura/esitamento rispetto al proprio fondamento, il passato non viene ripreso nella sua autenticità, e quindi il futuro si rivela infinito, sconfinato, ricolmo di possibilità in-autentiche seppur nella ricchezza tonale infinita ed effimera al tempo stesso dei contenuti (17). Se da una parte c’è l’evitamento ossessivo rispetto alla riconduzione verso il proprio fondamento a partire da una verticalizzazione spaesante e dispersiva, eterea dall’altra parte il suo stesso fondamento minaccia di “inghiottirla” e di dominarla. Ecco allora che nella dimensione sepolcrale essa vive non avendo più un futuro rispetto al quale aprirsi un ripiegamento ineludibile sul proprio passato: il tempo si irrigidisce, si allunga infinitamente (non scompare come nel mondo etereo) perché il passato si ripete come futuro; il passato cioè non passa ritorna costantemente all’interno di una immobilità rigidamente collegata al modo dell’essere-stati, in una chiusura assoluta rispetto alla decisione autentica, che apre il “ci” dell’esserci come situazione (18). Come nel discorso inerente alla thanatologia pulsionale, la ripetizione mortale interna alla dimensione esistenziale si sviluppa a partire dalla dinamica di una reiterazione che da una parte tende al ritiro dall’esistenza rispetto alla dimensione del futuro, dall’altra questo ritiro nel passato (e nel presente), verso “l’origine” imperscrutabile, rappresenta esso stesso un tentativo di vita, una possibilità del vivente (come in Ellen West) ma certamente in senso inautentico, cioè non libero ma opprimente, deterministico, e soprattutto non liberante, rispetto alle proprie possibilità d’esistenza e al proprio storicizzarsi.
Se, ulteriormente (come è stato detto in precedenza), rispetto alla temporalità vissuta sia gli aspetti maniacali che melanconici si fondono in unità nel discorso anoressico, dal punto di vista della “sproporzione antropologica” binswangeriana l’esperienza della psicosi maniacale che si dispiega all’interno della dimensione della “orizzontalità” (o dell’esperienza effimera in superficie) non può essere direttamente associata alla dimensione anoressica dell’ideale fissato.
Se l’esistenza maniacale si sviluppa orizzontalmente attraverso “il saltare”, il “dileguarsi effimero”, lo scomporsi esistentivo che diventa “preda” dell’attimo, dall’altra parte la fuga delle idee del maniaco richiama certamente la dimensione eterea, ideale, di un mondo delle idee perfetto, trasparente e iper-reale. Ma questo mondo non è quello dell’esperienza schizofrenica, che, a differenza del cielo ideale maniacale, non è caratterizzata dalla volubilità immaginifica ed effimera, ottimistica, danzante e fugace, seppur ideale: ma da una “fissazione” ideale sradicata dall’esperienza, che si incarna in una presenza solitaria e monodica ripiegata completamente su se stessa, e che assume i contorni di una assolutizzazione del valore del problema o dell’idea cui è asceso, nella sua idealità fissata (19), il soggetto malato. «[…] l’esaltazione fissata equivale a un’assolutizzazione di una sola decisione» (20).
Ecco allora la metafora dell’alpinista di Binswanger riflettere l’esperienza del circolo anoressico: come l’alpinista che, asceso ad un’altura assoluta e non ulteriormente valicabile non riesce più né a salire né a scendere, così l’anoressica rimane impigliata nella reversibilità angosciata e impenetrabile tra il “mangiare e il non mangiare”, tra il riempimento e lo svuotamento. L’orizzonte esistenziale dell’anoressica si riduce a questa verticalizzazione esasperata, a questa trascendenza assoluta, a questo ascetismo della fissazione ideale: che sì, da una parte la protegge, ma dall’altra la comprime all’interno di una dimensione di stallo. E se da una parte staccarsene costituirebbe un pericolo mortale, dall’altra è anche impossibile rimanere fermi in quella posizione (21). È da queste vette inaccessibili e glaciali che si sviluppa la dimensione d’angoscia come isolamento assoluto dell’esserci, configurandolo come solus ipse; ed è solo ora che, ulteriormente, la morte diventa «la grande amica» (22).
In questo senso, come ha ben evidenziato Binswanger, nuovamente, il nichilismo anoressico non rappresenta dunque semplicemente uno sguardo “sul” nulla dell’esistenza (in quello che potremmo definire un nichilismo scettico), ma, uno sguardo “dal” nulla (23), che addirittura accede o lascia accedere alla positività della vita stessa. Nei soggetti gravi infatti, da un punto di vista antroposofico, la morte non è più un’ombra oscurante e terrificante gettata sulla vita, ma è la luce che l’illumina, la sorgente negativa che definisce positivamente i contorni di una vita consacrata alla morte fin nelle radici della sua presenza, cioè nel suo fondamento (24).
(1) M. M.-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. di Andrea Bonomi, Bompiani, Milano, 2005, pp. 427-432.
(2) M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi e F. Volpi, Longanesi, Milano, 2006, pp. 382-394.
(3) «La temporalizzazione non è una “successione (Nacheinader)” delle e-stasi temporali. L’avvenire non è posteriore al passato e quest’ultimo non è anteriore al presente. La temporalità si temporalizza come avvenire-che-va-al-passato-venendo-al-presente». Ivi, p. 507.
(4) U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 2007, Parte seconda: “Genealogia della tecnica: l’incompiutezza umana”.
(5) U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 153.
(6) V. Jankélévitch, La morte, tr. di V. Zini, Einaudi, Torino, 2011, 266, 179.
(7) E. Minkowski, Il tempo vissuto, a cura di A. Maria Farcito, Einaudi, Torino, 2004, p. 265.
(8) U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 353.
(9) M. M.-Ponty, Op cit, cit., p. 433.
(10) Ivi, p. 232.
(11) E. Minkowski, Op. cit., tav. XXIII.
(12) Ibidem.
(13) K. Jaspers, Psicopatologia generale, a cura di R. Priori, Il pensiero scientifico, Roma, 2008, p. 91.
(14) Se l’attimo effimero del tratto maniacale nell’anoressia mette allo scoperto una dimensione temporale di “eternità”, intesa nel senso forte della a-temporalità, cioè di eternità intesa come assenza di tempo, dall’altra parte la temporalità melanconica nell’anoressica evidenzia, nella ripetizione infernale del passato, un tempo “infinito”, cioè un tempo che non passa, che si estende infinitamente.
(15) E. Borgna, Malinconia, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 111.
(16) U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, cit., p. 304.
(17) L. Binswanger, Il caso Ellen West, tr. di C. Mainoldi, SE, Milano, 2001, pp. 104-112.
(18) Ivi, pp. 113-117.
(19) L. Binswanger, Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo, tr. di E. Filippini, Il saggiatore, Milano, 1964, pp. 19-21.
(20) Ivi, p. 23.
(21) M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Mondadori, Milano-Torino, 2010, pp. 152-153.
(22) L. Binswanger, Il caso Ellen West, cit., p. 78.
(23) S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Bari, 2006.
(24) L. Binswanger, Il caso Ellen West, cit., pp. 100-102.
Nathan Ford, The Anonym, 1998 - 2001.
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