I.
Uno psichiatra e gli artigli del diavolo filosofico
Ho incontrato per la prima volta gli scritti di Binswanger quando mi sono imbattuta, nel mio percorso di studi filosofici, in uno dei suoi casi clinici più clamorosi: la paziente Ellen West, pseudonimo di una donna in cura da Binswanger di cui lo psichiatra svizzero nel 1944 ne narra le vicende in uno studio presto divenuto famoso sul suo ‘caso’, il “caso Ellen West” appunto, che doveva poi confluire nel suo
Schizophrenie, testo centrale della sua
Daseinsanalyse. La diagnosi a cui Binswanger giunge, dopo un’attenta osservazione della paziente, è quella di una schizofrenia paucisintomatica, caratterizzata da anoressia nervosa e episodi di bulimia. L’ambiguità diagnostica del caso diventa maggiore quanto più l’analisi si fa dettagliata e minuziosa. Accanto all’analisi clinica, Binswanger scrive pagine fondamentali per la descrizione della
Daseinsanalyse del mondo di Ellen; emergono temi strutturali come la “positività del nulla”, il conflitto tra il “voler essere disperatamente se stessi” e il “non voler essere disperatamente se stessi”, che giustificano il suicidio di Ellen come risoluzione autentica della sua tragica esistenza.
Dal mio personale interesse per il caso West mi sono avvicinata alla conoscenza di qualche testo di Binswanger e della sua posizione fenomenologica tesa a elaborare una nuova psicoterapia, superando l’approccio naturalistico ed inaugurando una nuova strada. Sia nella trattazione del caso Irma in
Versuch einer Hysterieanalyse del 1909 che nel più tardo
Über Phänomenologie [1] del 1923 Binswanger si muove con destrezza all’interno del terreno fenomenologico e cerca di operare una coniugazione di questo con i temi della
Daseinanalyse di Heidegger, sollevando le obiezioni dello stesso Heidegger su più fronti. La centralità di Husserl si traduce, nell’impianto psicanalitico di Binswanger, nell’importanza assegnata alle “forme immanenti della coscienza” (
Bewusstseinsgestaltungen) che emergono mettendo fra parentesi i concetti di “natura” o di “realtà”; tali forme sono una sorta di topos, di luogo, posto fra l’interiorità e l’esteriorità che emerge all’occhio attento dello psicopatologo fenomenologico. Se infatti lo psicopatologo, procedendo in modo descrittivo, descrive e cataloga un evento psichico o un avvenimento attraverso un sistema di segni, al contrario lo psicopatologo fenomenologo utilizza questi segni per cogliere l’essenza del fenomeno non isolatamente ma all’interno dell’orizzonte del
Dasein. È proprio questo primato della fenomenologia husserliana che fa da sfondo all’incontro con la speculazione di Heidegger.
Nel saggio
Die Bedeutung der Daseinsanalytik Martin Heideggers [2] del 1949 l’incontro con il pensiero di Heidegger sembra far crollare lo scenario concettuale e metodologico appena descritto, dal momento che ora la centralità metodologica è affidata a due parole chiave: trascendenza ed essere-nel-mondo. [3] Mentre nello scritto del ’23 Binswanger partiva dai vissuti coscienziali, ora insiste proprio sull’esserci in quanto
in der-Welt-Sein, legato alla temporalità ed alla trascendenza. Pur non usando quasi mai la parola di soggetto preferendo quella di
Dasein e intendendola come un essere-nel-mondo da comprendere in direzione di quella stessa fenomenologia da cui Heidegger proveniva, la sfida di Binswanger consisteva nel descrivere l’
Erlebnis dello psicotico affinché divenisse comprensibile proprio alla luce dell’essere-nel-mondo. Egli si rifiutava di rapportarsi alla psicosi come ad un oggetto da spiegare bensì la descriveva come una forma di soggettività da comprendere – “verso le cose stesse” recitava la fenomenologia husserliana. In tal senso, secondo Binswanger, la spiegazione freudiana della paranoia, pur condividendone il livello esplicativo, non ce la rende per questo più comprensibile. In cosa riposa questa comprensibilità di un qualcosa che è costitutivamente incomprensibile?
Utilizzando i concetti della Daseinanalyse heideggeriana che in
Essere e tempo vengono tematizzati, le malattie mentali sono interpretate da Binswanger come altrettante possibili modalità in cui si declina l’essere-nel-mondo dell’uomo; i sintomi non sono solo i segni di una disfunzione, ma anzitutto la chiave che permette l’accesso a quello specifico modo di essere nel mondo di un paziente, disvelandone il progetto e la sua costitutiva normatività – e il caso Ellen West si inserisce esattamente in questo tentativo di comprensione del progetto mondo e del poterlo abitare da parte della paziente.
Mi sembra corretto poter dire che la sfida di Binswanger è consistita nel descrivere l’
Erlebnis psicotica come una forma di soggettività, per renderla comprensibile: rendere comprensibile un delirio, un avvenimento psicotico significa renderlo comunicabile, farne una narrazione che avvicini il medico al soggetto sofferente, riducendo la distanza dell’esistenza e della comprensione; non solo favorire la descrizione ma comprendere il fatto interpretandolo. Il metodo fenomenologico da lui impiegato ha conosciuto successo nella psichiatria del Novecento [4] perché estendeva al malato mentale quello che alcuni filosofi, nell'ambito della filosofia analitica, hanno chiamato
principio di carità. [5] Eppure, nonostante i suoi strumenti concettuali e clinici, permane una profonda differenza di statura fra il suo operato clinico e l’ambizione del progetto che voleva realizzare. Nelle descrizioni patografiche Binswanger sembra essere di molto indietro rispetto a Freud, sebbene la sua cultura filosofica sia decisamente più variegata e complessa. Non solo: ciò che colpisce nei suoi lavori è la completa assenza della sua persona nell’entrare in rapporto al paziente, il mettersi in relazione con questo. Questa assenza risulta marcatamente visibile ed appare ingiustificata quando leggiamo: “Il punto di partenza, cioè il fondamento, del giudizio diagnostico dello psichiatra non è solo l'osservazione dell'organismo del paziente, ma è soprattutto il mettersi in rapporto e il comunicare con lui in quanto egli è un uomo, cioè in quanto è co-esserci (
Mitdaseiend); in questo senso non si tratta essenzialmente solo dell'atteggiamento del «clinico» verso il suo oggetto scientifico, ma del suo comportamento con-umano «fondato» in uguale misura sulla «cura» e sull'amore. In questo modo l'essenza della condizione dello psichiatra si spinge oltre ogni sapere materiale ed anche oltre le possibilità oggettive che vi sono connesse, cioè oltre la sfera della scienza, della psicologia, della psicopatologia e della psicoterapia”. [6] Eppure, questa dichiarazione di intenti fallisce se si fa un bilancio della sua applicazione clinica.
II.
Heidegger e la psichiatria
Occorre chiedersi quanto vi sia di autenticamente heideggeriano nell’impostazione di Binswanger e in che modo gli strumenti dell’analitica dell’esserci siano stati usati ed approfonditi.
Non è una novità il fatto che Heidegger abbia ripetutamente affermato e scritto che il suo pensiero sia stato mal interpretato o frainteso dai suoi numerosi interpreti. Così, come non è una novità che i suoi scritti pubblici siano andati raramente in direzione di un chiarimento di ciò che nell’interpretazione fornita rimaneva oscuro o non approfondito. Poche volte si è difeso, poche volte ha chiarito, poche volte si è lasciato andare a dichiarazioni pubbliche che lo scagionassero dalle molteplici accuse e calunnie che la sua filosofia e la sua persona [7] ha attirato.
Una delle occasioni in cui non si è sottratto dall’esigenza del confronto è rappresentata dai seminari di Zollikon, tenuti tra il 1959 e il 1969 da Heidegger davanti ad un pubblico di medici, psichiatri e analisti, nella casa di Zollikon del dr. Medard Boss. La rarità dell’occasione è tale se si pensa che questi seminari hanno rappresentato per Heidegger un confronto con il mondo e con un mondo con cui non era del tutto familiare, cioè quello della medicina e dell’analisi dopo la sua interdizione dall’insegnamento alla fine della seconda guerra mondiale. Come raccontò Heidegger stesso, egli si attendeva molto dalla ricezione che un medico potesse avere del suo pensiero e attraverso un medico vedeva la possibilità “che le sue idee filosofiche non restassero nascoste nelle camere dei filosofi, bensì potessero tornare a vantaggio di molti più uomini” [8], anche e soprattutto quelli bisognosi d’aiuto. Forse in questa motivazione si può scorgere anche una porzione delicata del vissuto di Heidegger stesso, caduto in depressione a seguito dei fatti post bellici: privato, dopo la guerra, della sua dignità di docente da parte della Commissione di epurazione per l’Università insediata a Friburgo a motivo del Rettorato del ’33, mortificato per la confisca di una parte della sua abitazione di Zähringen e per la minaccia della confisca della sua biblioteca, per il lavoro coatto di sgombero delle macerie nelle strade di Freiburg imposto come sanzione, licenziato dalla propria carica con la proibizione di insegnare, Heidegger cadde in depressione e si rivolse alle cure del dottor Gebsättel, uno psichiatra, trovandovi, come egli si espresse in seguito, un aiuto e un sostegno che “umanamente” lo avevano confortato. [9] Proprio in nome di questa esigenza d’aiuto a cui tutti gli uomini vanno soggetti e nei riguardi della quale la scienza è chiamata a rispondere, negli incontri di Zollikon egli dice: “Nel voler aiutare del medico, si deve badare che ne va sempre dell’esistere e non del funzionamento di qualcosa. Se si ha di mira solo quest’ultima cosa, non si è affatto d’aiuto all’esserci. Questi appartiene allo scopo. L’uomo è, per essenza, bisognoso d’aiuto in quanto egli è sempre in pericolo di perdersi, di non venire a capo di se stesso. Questo pericolo è connesso con la libertà dell’uomo. L’intera questione del poter essere malato è connessa con l’incompiutezza (
Unvollkmmenheit) della sua essenza. Ogni malattia è una perdita di libertà, una limitazione della possibilità di vita”. [10]
L’atto preliminare di ogni operato medico è un atto empatico: chiunque voglia dedicarsi alla cura degli uomini deve accorgersi dell’altro: la parola chiave nella descrizione dell’atto di empatia è «rendersi conto» (
Gewahren). L’empatia (
Einfühlung) è sentire la presenza dell’altro, farlo risaltare dallo sfondo come figura, trarlo dall’insignificanza, anzi, dall’inesistenza. L’empatia è una prassi mimetica perché essa si ha quando “l’intenzionalità della coscienza si declina secondo modi, che possono essere espressi soltanto col ricorso a metafore corporali e di movimento: “andare incontro”, “aprirsi”, “accogliere”. Mimetica perché i movimenti intenzionali si modellano sull’altro. Quando la prassi mimetica è più che subliminare ed emerge alla coscienza come un fremito, allora ci siamo con l’immedesimazione, cosiddetta perché si ha l’impressione che l’altro si sia in qualche modo insinuato dentro di noi”. [11]
L’empatia, quindi, non è sinonimo di calore o accoglienza, ma è un rendersi conto (
Gewahren), come la Stein scrive: è l’osservare, l’accorgersi di qualcosa che “affiorando d’un colpo davanti a me, mi si contrappone come oggetto (come le sofferenze che ‘leggo sul viso dell’altro’)”. [12] C’è una sequenza, quasi simultanea, in cui l’altro e il suo dolore sono un evento che è di fronte a me e nel loro evenire, nel loro accadere rompono la continuità della mia esperienza. [13] L’empatia, in tal senso, è una frattura della continuità del singolo attraverso la quale l’altro entra dentro la predominanza dello sguardo, del guardare che si fa vedere e che, fra tutti i sensi, è quello che intrattiene una relazione privilegiata con le attività della mente. [14]
Empatia, allora, significa essere pronti ad un evento di rottura, a uno spezzarsi della continuità dell’esperienza del singolo per aprirsi all’esperienza dell’altro. In questo atto si ritrova l’essere emotivamente intonati di cui parla Heidegger e la dimensione dell’apertura che accompagna l’esserci nonostante la sua ontica manchevolezza e l’originaria negatività. L’apertura dell’esserci – all’altro, al mondo, alle cose – è il segno distintivo della progettualità con cui l’esserci riscatta il suo “non” – la Arendt chiamerà questa costitutiva apertura
amor mundi e la penserà con lo sguardo rivolto al miracolo della nascita. [15] “L’esistere in quanto esser-ci significa il tener aperto un ambito di poter-percepire la significatività delle datità che gli si rivolgono-assegnandoglisi a partire dal suo esser-levato-nello-slargo (
Gelichtetheit)”. [16]
Il costante interesse per la psicoterapia costituirà il fondamento delle domande che Heidegger pose a questa scienza interrogandola a partire da un’unica questione: la psicanalisi e la psichiatria hanno veramente a cuore l’ “uomo esistente”, il
Dasein nella sua effettiva e radicale sofferenza? Queste discipline sono davvero interessate a stagliarsi sull’orizzonte di comprensione dell’esserci come strumenti attraverso cui non ridurre la libertà del singolo?
È a partire da questi interrogativi che Heidegger sottolinea la necessità del connubio fra medicare e meditare, binomio antico eppure attuale, auspicabile e al contempo necessario, gravido di speranza affinché “si diano dei medici pensanti, i quali non siano disposti a cedere il campo ai tecnici della scienza” [17], che non defraudino l’azzardo della vita della sua attraente e anche angosciante apertura per usare le parole di Hans Jonas. Il tema della critica heideggeriana alla tecnica e alla tecnicizzazione del fare (e del pensare) sono noti a tutti coloro che si sono confrontati con le sue opere e spesso questi medesimi temi vengono citati in contesti eterogenei. La costanza con cui egli ha sottolineato l’esigenza di pensare l’uomo come un essere della mancanza, contrassegnato da una costante finitezza, ritorna anche nelle riflessioni in occasione dei seminari di Zollikon sotto la veste di un monito persistente ai medici e agli psichiatri di comprendere ed aiutare l’uomo facendo della sua originaria mancanza non un limite ma la restituzione di infinite possibilità. Se la malattia è la perdita della libertà e la riduzione della possibilità di vita, la cura medica è la restituzione della medesima e l’inveramento della vita nelle sue possibilità: “La psicologia, antropologia e psicopatologia tradizionali considerano l’uomo in quanto oggetto in senso ampio, in quanto qualcosa di semplicemente presente, in quanto ambito circoscritto all’ente, in quanto complesso di ciò che, conformemente all’esperienza, è constatabile nell’uomo. Ciò che qui viene omesso è la questione di che cosa l’uomo sia e di come l’uomo in quanto uomo sia; che, cioè, egli, secondo la sua essenza, fondamentalmente si rapporti all’altro ente e a se stesso, e che ciò, da parte sua, sia possibile solo in quanto egli comprende l’essere” [18], scrive Heidegger. Sono il
cosa e il
come che stanno a cuore al filosofo nella comprensione dell’uomo e nella sua relazione alle discipline che si occupano della relazione d’aiuto. Per definire e comprendere il cosa e il come occorre tornare alla categoria della possibilità e al poter esser dell’uomo la sua stessa possibilità. Le possibilità, in senso esistenziale, sono lo storico esser nel mondo dell’uomo, sono ciò che permette alla libertà di raggiungere il suo orizzonte più ampio. È in nome di questa centralità della possibilità, che prevarica e abbatte le maglie di ogni realtà, che l’esercizio medico va declinato verso questo orizzonte: “Esercitiamo la psicologia, la sociologia, la psicoterapia, per aiutare l’uomo di modo tale che l’uomo raggiunga la mèta dell’adattamento e della libertà nel senso più ampio. Ciò concerne in comune sia i medici che i sociologi, in quanto tutti i disturbi della relazione sociale e tutti i disturbi noxici del singolo uomo sono disturbi dell’adattamento e della libertà” [19] dirà il dr. Boss nel corso degli incontri di Zollikon: quella libertà che, di contro a Sartre, è essa stessa ad avere l’uomo.
Proprio perché interessato al ben-essere dell’esserci nei termini di una non perdita di libertà e una non limitazione della possibilità di vita, al centro dei seminari di Zollikon c’è l’insistenza con cui Heidegger esorta la psicologia e la psicanalisi a rinunciare alla convinzione per la quale soltanto la scienza dia la verità obiettiva. Senza l’
Ausweisung dell’Esserci, è impossibile pervenire alla
Auslegung dell’uomo. Non si tratta di rifiutare la scienza, ma di avere un rapporto meditato e sapiente con la scienza, che ne consideri veramente in profondità i limiti: “I tentativi di spiegazione dei fenomeni umani a partire dalle pulsioni hanno il carattere metodico di una scienza il cui ambito materiale non è affatto l’uomo, bensì la meccanica. Perciò, è fondamentalmente dubbio se un metodo, determinato in tal modo da un’oggettualità non-umana, possa essere, in generale, appropriato ad asserire qualcosa circa l’uomo in quanto (qua) uomo”. [20] Per Heidegger anche l’uomo, “che come psiche e soma è diventato oggetto della psichiatria e della medicina, va rivisitato alla luce di questa antropologia peculiarissima, che in quanto analitica dell’esserci che ne indaga il senso d’essere, è ontologia fondamentale nel senso di via regia all’interrogazione del senso dell’essere in generale, dove la domanda ‘antropologica’ si autotrascende nell’esibizione dello spazio ontologico, nell’intuizione dell’Essere che nel Ci trascende e tutto vi eventua, anche l’Esserci cui si rimette nel linguaggio”. [21] È così in opera un vero capovolgimento dell’interpretazione freudiana del soggetto: “ciò che spinge (
das Drängende) nella pulsione non è l’inconscio o l’Es, ma l’esserci stesso, l’essere-nel-mondo stesso come capacità olistica dell’Io di assumersi progettando nel suo esser-gettato in un modo o in un altro, sia quello libero dell’adesione non discussa nell’intimo colloquio con sé, dove regna la normalità anonima del “si” (inautentica), o dell’adesione scelta, passata al vaglio dell’angoscia essenziale (autentica), sia quello non libero di un’adesione al mondo vissuta come costretta e impoverita in una fissata possibilità mondana che elide ogni altra o in un arbitrio del significato fino al limite del rifiuto di mondo della sofferenza psicopatologica, nevrotica e psicotica”. [22] L’ermeneutica ontologica diviene in tal modo luogo di fondazione di una modalità che dovrebbe essere sottesa dalla medicina e dalla psichiatra.
III.
L’analitica dell’esserci e l’analisi dell’esserci: prossimità e distanza
È nel contesto degli incontri di Zollikon che Heidegger chiarisce la differenza fra l’analitica dell’esserci e l’analisi dell’esserci: mentre l’analitica ha il compito di “portare allo sguardo il tutto di una unità di condizioni ontologiche” [23], l’analisi dell’esserci risolve in elementi l’unità dell’esserci, invertendo così il punto di partenza dell’analitica. L’analitica non ha a che fare con un solipsismo o soggettivismo, quanto con la comprensione delle strutture ontologiche dell’esserci. E’ in questo contesto che Heidegger chiama in causa Binswanger, la cui analisi dell’esserci si fonda su molteplici fraintendimenti.
Proprio l’uso degli esistentivi di cui
Sein und Zeit si occupa sollecita Heidegger ad una critica pungente nei confronti di Binswanger proprio nel contesto dei colloqui di Zollikon, per spiegare ai medici e agli psicanalisti lì convenuti che la
Daseinanalyse e la psicopatologia fenomenologica inaugurata da Binswanger sono tra loro distinte e procedono su piani distinti; tra i molteplici fraintendimenti, secondo Heidegger quello attraverso il quale la “cura” è scambiata per amore è solo il più evidente; Binswanger “non vede che la cura ha un senso esistenziale, vale a dire, ontologico, che quindi l’
analitica dell’esserci pone la questione circa la
costituzione ontologica (esistenziale) fondamentale di esso e non vuol dare una mera descrizione di fenomeni ontici dell’esserci”. [24] L’errore di Binswanger è quello di cadere in quella rappresentazione dell’esserci per il quale questo è una soggettività pensata nei termini di immanenza che fa esperienza del male attraverso la scissione soggetto-oggetto e le presunte forme di intenzionalità della coscienza sono solo un rafforzamento di quell’ego che deve esser tolto di mezzo quando si parla di esserci. Non solo: il fraintendimento nel modo più grossolano Binswanger lo manifesta con il suo libro
Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins. “In esso, egli crede” dice Heidegger “di dovere integrare la «cura» e lo «aver cura» attraverso un «modo d’essere duale» e attraverso un «essere oltre il mondo». Con ciò, rivela soltanto che egli misconosce onticamente l’esistenziale fondamentale, vale a dire, il tratto essenziale dell’esistere umano, cui io diedi il titolo superiore di «cura», vale a dire, egli scambia il concetto di «cura», da me pensato ontologicamente, con un singolo modo di eseguimento ontico di questo tratto essenziale, cioè, con quello di un modo di comportamento nel senso di un contegno tetro e preoccupato-premuroso di un determinato uomo. «Cura», invece, in quanto costituzione esistenziale fondamentale dell’esser-ci, nel senso di
Sein und Zeit, è nulla di più e nulla di meno che il nome per l’essenza complessiva dell’esser-ci, in quanto questi è sempre già rimesso a qualcosa che gli si mostra e rispetto a cui egli, costantemente fin dal principio, è sempre assorbito ogni volta da un rapporto, quale che sia il suo modo, con questo. In tale essere-nel-mondo in quanto «cura» si fondano cooriginariamente, perciò, anche tutti i modi ontici di comportamento sia di coloro che amano, che di coloro che odiano, che dello imparziale scienziato della natura, etc.”. [25]
La stroncatura di Heidegger verso Binswanger è riconducibile, da un lato, all'accusa secondo cui Binswanger avrebbe confuso l'ontologico con l'ontico e avrebbe scambiato un metodo ontologico con un’analisi psichiatrica dell’esserci e, dall’altro, ad aver accantonato la temporalità come orizzonte di comprensione del senso dell’esserci; Binswanger ha, secondo Heidegger, troppo insistito sul tratto dell’esserci come essere-nel-mondo, ampliando per altro le riflessioni di Husserl, a detrimento della temporalità. In questa operazione si perde ogni rimando al senso autentico della trascendenza, tanto invocata da Binswanger per la comprensione dell’altro nell’evento psicotico, poiché essa viene relegata alla soggettività, all’uomo, come se fosse l’uomo stesso a fondarla e a riempirla. Non c’è spazio alcuno in cui la differenza fra l’uomo e l’essere emerge, differenza che è il fondamento della trascendenza stessa. La perdita della differenza è la perdita della
diaferenza, del sopportare e del consegnare all’altro e alla collettività quella radicale differenza che permette all’uomo di rimanere progetto aperto non solo in una dimensione orizzontale (comunitaria, pluralistica) ma anche verticale, in cui non necessariamente il cielo deve esser abitato da Dio. [26]
Non solo: se per la psicologia e per la psicanalisi nello scambio mimetico si gioca la partita del transfert e del controtransfert, Heidegger rigetta il concetto freudiano di transfert (
Übertragung) in nome della costituzione ontica dell’esserci: “Ogni rapportarsi è, fin dal principio, già sempre intonato-affettivamente, e perciò non ha proprio alcun senso parlare di «transfert». Non occorre che venga trasferito proprio niente, in quanto l'essere-in-una-tonalità-affettiva, di volta in volta attuale, a partire da cui soltanto e corrispondentemente a cui tutto ciò che si fa incontro è in grado di mostrarsi, c'è già sempre”. [27]
Gli esistenziali cioè gli attributi dell’esserci non possono costituirsi come dei punti di partenza per la psichiatria o per ogni analisi dell’esserci, poiché essi sono il contenuto delle medesime; l’analitica dell’esserci non è il pianterreno da cui si innalzano i piani successivi dell’edificio della conoscenza dell’uomo in ambito clinico, afferma con audacia Heidegger [28]: “Binswanger pretende costantemente di correre qua e là sopra e sotto, ovvero egli crede di potersi limitare all’indagine dei ‘piani superiori’ degli ambiti oggettuali psichiatrici. Ma in realtà non si dà affatto un su e un giù, in quanto non v’è nulla di separato. Giacchè la differenza ontologica non è, invero, una separazione. Essa è precisamente l’opposto”. [29]
Davanti a queste accuse, Binswanger non solo procedette a dichiarare pubblicamente il suo misconoscimento ma fu anche cauto nell’evitare di usare, da quel momento in poi, espressioni che rimandassero alla
Daseinanalyse, preferendo tornare alla sua ricerca di impostazione husserliana, utilizzata come base per la sua ricerca clinica.
IV.
Conclusioni. Sul dolore
È possibile una psichiatria intesa come avere-a-che-fare (
Umgang) con persone sofferenti che non appiattisca l'ontologico sull'ontico? È possibile far emergere la cura dell'esserci come costitutiva anche della sofferenza mentale? In che prossimità sta l’analitica dell’esserci con la sofferenza dell’uomo? È capace la
Daseinanalyse di fronteggiare il dolore dell’uomo senza ricadere sotto lo scacco del primato ontico su quello ontologico? Ne va solo una questione di linguaggio? Può il medico trovare soluzioni adeguate alle relazioni di cura che è chiamato ad intrattenere con i pazienti attraverso la strumentazione che la filosofia di Heidegger propone? Queste domande non sono un esercizio teoretico intorno alla
Lebenswelt schizofrenica o all’evento psicotico, piuttosto vorrebbero rendere ragione di quanto pensato fin qui in direzione della relazione di cura.
Sartre è stato molto critico con la possibilità di usare la strumentazione heideggeriana dell’analitica dell’esserci in un campo esistenziale come quello del lavoro con persone sofferenti; al contrario, Boss si fa interprete dell’esigenza di sdoganare Heidegger anche nel terreno della psichiatria dal momento che la sua filosofia può diventare un fondamento delle indagini scientifiche dei metodi ontici concreti. [30]
Credo che gli abissi della malattia mentale e della sofferenza che ne vieni fuori non possano essere oggetto di virtuosismi teoretici né di costruzioni poetiche o poetizzanti. Parafrasando Borgna, i paesaggi dell’anima sono misteriosi e invisibili e la psichiatria oggi non è più discorso sull’anima ma sulle sue ferite e lacerazioni. [31] Proprio perché tale, mi sembra necessario che questa disciplina si interroghi a partire da un’impostazione fenomenologica più che dal discorso heideggeriano il quale, pur essendo in parte prossimo a quanto la fenomenologia insegna, tuttavia se ne allontana per indicare quelle vie che si muovono verso l’ontologia. Non credo, pertanto, che il metodo ontologico di Heidegger possa dirsi pienamente inverato dall’uso clinico del medesimo; l’impostazione heideggeriana, il cui merito è innegabilmente quello di aver descritto le strutture fondamentali dell’uomo all’interno dell’orizzonte della temporalità come l’orizzonte unico per la comprensione dell’essere dell’esserci, aver insistito sulla necessità di affidarsi al pensiero e non alla scienza nell’epoca del dominio diffuso della tecnologia ed, infine, aver marcatamente destrutturato la soggettività cartesiana ego fondata, tuttavia sembra non poter tollerare il peso della carne, il peso del dolore, il peso della diversità. Non è solo in gioco una questione linguistica esserci piuttosto che uomo; ontologico piuttosto che ontico e via dicendo ma tutta l’impostazione che sta a fondo della filosofia heideggeriana.
Al centro dell’esperienza noxica sta la persona, sta il suo dolore, sta il mondo del suo delirio; il sintomo, come segno di un universo da descrivere e comprendere, rovescia l’orizzonte di senso e lo statuto epistemologico di questa disciplina. L’esperienza di sofferenza provata dalla persona è l’esperienza di un mondo che deve esser compreso oltre che descritto; non è in gioco il solo esser-nel-mondo ma soprattutto il modo con cui il mondo quel mondo fatto dal buio della malattia mentale si staglia davanti agli occhi della persona. Nell’evento psicotico o nel delirio schizofrenico, così come nei disturbi del comportamento alimentare e in ogni figura della sofferenza di
psyche, ci sono “figure” del nulla che si incamminano verso lo sguardo della persona. Ogni morso dato da questo nulla che avanza mette l’uomo un passo più indietro e dentro al suo dolore, in cui il mondo ordinario si dissolve per lasciare lo spazio alle ombre e alle figure del delirio. È così che rischia di finire il mondo: la propagazione della Wahnstimmung dissolve questo mondo e ne crea uno suo, dove solo il malato sta. Forse gli arrischiati non sono solo i poeti, per dirla con Rilke, ma tutti coloro che hanno fatto e fanno esperienza di questo mondo. Rimane da capire quanta luce può venire da un essere che sta in quel buio e in questa operazione trovo che la riflessione di Jaspers abbia indicato strade percorribili sia per la psichiatria, sia per la psicopatologia fenomenologica sia per la filosofia stessa. Affido ad una poesia di Ellen West, intitolata
Cattivi pensieri, raccontare le dissolvenze che la sua anima conosce, a conclusione di queste riflessioni:
“Da sola non oso più
andare nel bosco,
poiché dietro ad ogni albero
stanno gli spiriti malvagi.
Poiché dietro ad ogni cespuglio
mi osserva un coboldo selvaggio,
e fra i rami verdi
ride un demonio.
E quando mi scorgono
così sola, senza nessuno,
allora mi rinchiudono da tutte le parti
schernendomi.
Poi mi vengono addosso selvaggiamente
e mi prendono per il cuore,
e ridono e prendono in giro
i miei lamenti ed il mio dolore.
“Non sai forse” dicono,
“Chi siamo stati?
Non sempre spiriti malvagi,
non sempre prole dell’inferno.
Un tempo eravamo i tuoi pensieri,
le tue speranze, orgogliose e pure!
Ma adesso dove sono i tuoi progetti,
i tuoi sogni?
Sono scomparsi tutti,
avvizziti in vento e tempesta,
tu stessa diventata un niente,
un miserabile verme.
Per questo dobbiamo svanire
via nella notte nera,
tanto cupi ci ha reso la maledizione
che ti ha colpito.
Quando cerchi quiete, pace,
ti strisciamo attorno,
vogliamo vendicarci
con le nostra urla di disprezzo!
E se cerchi felicità, gioia,
noi ci mettiamo in mezzo,
accusando, schernendo
saremo sempre insieme a te!” [32]
[1] Cfr. L. Binswanger,
Über Phänomenologie, in Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, Francke, Bern, 1955 .
[2] Cfr. L. Binswanger,
Die Bedeutung der Daseinsanalytik Martin Heideggers, in Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, cit., vol. II.
[3] Cfr. A. Ales Bello, «Binswanger fra Husserl e Heidegger», in Salsa A. e Schiavone M.,
Autismo schizofrenico, Patron, Bologna 1990; Id., «Alle origini della psicopatologia fenomenologica: Ludwig Binswanger», in “Comprendere”, 21, 2010, pp. 14 e ss.
[4] Cfr. S. Benvenuto, «Il progetto della psichiatria fenomenologica», in “Dialeghestai”, 2004.
[5] L’espressione “principio di carità” venne introdotta da Neil Wilson nel 1959 e successivamente fu resa popolare da Willard O. Quine, nel saggio «On Empirically Equivalent Systems of the World», in “Erkenntnis”, 9, 1975. In base a questo principio si presuppone che argomenti che ci appaiono a prima vista illogici, irrazionali, insomma «folli», abbiano una loro logica e razionalità che deve e può essere ritrovata. Forse è a partire anche da queste considerazioni e dallo studio e dall’uso della fenomenologia che ha tratto origine il movimento anti-psichiatrico degli anni 60 e 70 (Laing, Cooper, Esterson in UK; Basaglia e Napolitani in Italia; Deleuze e Guattari in Francia), in sintonia con i movimenti di contestazione dell'epoca. Questo movimento cercava di rendere comprensibile il modo di pensare psicotico a chi psicotico non è, annullando così la barriera discriminante tra sani e malati. Per questa anti-psichiatria non bisogna, quindi, tanto curare la follia quanto renderla intelligibile, attraverso il dialogo e la relazione empatica, come forma di soggettività.
[6] L. Binswanger,
Essere nel mondo, Astrolabio, Roma 1973, p. 223.
[7] Il dr. Medard Boss ricorda che Martin Heidegger era la persona più radicalmente calunniata fino ad allora incontrata da lui, “irretita in una rete di menzogne di molti dei suoi colleghi. […] Misterioso restava soltanto il perché egli non si difendesse pubblicamente da queste calunnie” (M. Boss, «Prefazione», in M. Heidegger,
Zollikoner Seminare, Klostermann, F. am M., 1987;
Seminari di Zollikon, trad. it. a cura di A. Giugliano, Guida, Napoli 2000, p. 9). Tra i numerosi appunti e scritti rimando a M. Heidegger,
Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweges (1910-1976), Klostermann, F. am Main, 2000;
Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita (1910-1076), trad. it. a cura di N. Curcio, C. Angelino, R. Brusotti, A. Fabris, Il Melangolo, Genova 2005, p. 377.
[8] M. Boss, «Prefazione», in M. Heidegger,
Seminari di Zollikon, cit., p. 10.
[9] Cf. H. Ott,
Martin Heidegger: sentieri biografici, trad. it. a cura di F. Cassinari, Sugarco, Milano 1988.1990, p. 273.
[10] M. Heidegger,
Seminari di Zollikon, cit., p. 222.
[11] L. Calvi, «Fenomenologia è psicoterapia», in “Comprendere”, n. 10, 2003.
[12] M. Nicoletti (a cura di), E. Stein,
L’empatia, Milano: Franco Angeli, 1986, p. 62; Cfr. E. Stein,
Zum Problem der Einfühlung, Halle, Buchdrucheri des Waisenhauses, 1917;
Il problema dell’empatia, trad. it. a cura di E. Costantini e E. Schulze, Studium, Roma 1998.
[13] Cfr. L. Boella, A. Buttarelli,
Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Raffaello Cortina, Milano 2000; L. Boella,
Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina, Milano 2006.
[14] Cfr. H. Arendt, The life of the mind, NY-London, 1978; La vita della mente, trad. It. a cura di A. Dal Lago, Il Mulino, Bologna 1987, p. 209.
[15] Cfr. F. Brencio,
L’essere-nel-mondo e la natalità nella riflessione di Hannah Arendt, in “Oros”, 2013, pp. 45 e ss.
[16] M. Heidegger, Seminari di Zollikon, cit., p. 36.
[17] Ivi, p. 172.
[18] Ivi, p. 217.
[19] Ivi, p. 219.
[20] Ivi, p. 236.
[21] E. Mazzarella,
Ermeneutica dell’effettività. Prospettive ontiche dell’ontologia heideggeriana, Guida, Napoli 1993, p.155.
[22] E. Mazzarella,
Ermeneutica dell’effettività. Prospettive ontiche dell’ontologia heideggeriana, cit., p. 160.
[23] M. Heidegger, Seminari di Zollikon, cit., p. 172.
[24] Ivi, p. 172.
[25] Ivi, p. 403.
[26] F. Brencio, «Sulla soglia. Lo smarrimento e l’attesa», in
Scritti su Heidegger, Aracne, Roma 2013, pp. 45 e ss.
[27] M. Heidegger, Seminari di Zollikon, cit., p. 230 e s.
[28] Cfr. Ivi, p. 404.
[29] M. Heidegger,
Seminari di Zollikon, cit., p. 404.
[30] Cfr. M. Boss, «Il significato di M. Heidegger per il lavoro con persone sofferenti e per l’autocomprensione della psicoterapia», in M. Heidegger,
Seminari di Zollikon, cit., p. 413.
[31] Cfr. E. Borgna,
Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, Milano 2003, p. 11.
[32] E. West,
Cattivi pensieri, in AA.VV.,
«Ellen West. Nel regno dell’ansia», a cura di G. Conserva, in “Kasparhauser. Philosophical culture quarterly”, n. 2, gennaio-marzo 2013.
Francesca Woodman, Self-Deceit 3