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2012


Philosophical culture quarterly


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La temporalità del mondo sepolcrale
di Ludwig Binswanger

(da Ludwig Binswanger, Il caso Ellen West e altri saggi, a cura di F. Giacanelli, Bompiani, 1973, pp. 143-147)


4 gennaio 2013


Già a questo punto sarà chiaro che come il mondo etereo è dominato dal futuro (inautentico), il mondo sepolcrale è dominato dalla supremazia del passato continuamente presente e, in quanto privo di futuro, inautentico. (…)

L’ispessimento, il consolidamento, il restringersi dell’ombra sull’imputridimento vegetativo e l’accerchiamento totale sino ai muri del sepolcro sono espressione della crescente supremazia del passato su questa presenza, della supremazia dell’essere-già nella situazionalità dell’inferno e dell’inevitabile indietro-su-di-essa. Questa angoscia dell’inferno è l’angoscia della presenza di venire inghiottita dal suo fondamento, dal quale tanto più profondamente viene inghiottita quanto più in alto tenta di balzargli via, di sfuggirgli. In luogo dell’auto-impadronirsi del fondamento e del divenir-trasparenti a se stessi sulla sua base compare l’angoscioso esserne dominati, come sprofondamento nel nulla.

Dove la presenza non può progettarsi in vista di se stessa, dove è “tagliata fuori dal futuro”, il mondo in cui essa esiste scade all’insignificatività, perde il suo carattere di appagatività e si trasforma in inappagatività. In altre parole: la presenza non trova più nulla in base a cui possa comprendersi, il che peraltro vuol dire che si angoscia, che esiste nel mondo dell’angoscia o, come noi diciamo è nudo orrore. È però ora importante sapere che il nulla del mondo, innanzi a cui l’angoscia si angoscia, non vuol dire che nell’angoscia sia sperimentata un’assenza del semplice-presente intramondano, questo, piuttosto, deve venire incontro proprio affinché non si possa avere con esso nessuna appagatività ed esso si possa mostrare nella sua vuota spietatezza. Ma a questo si aggiunge ancora che l’insignificatività del mondo che si dischiude nell’angoscia rivela la nullità di ciò di cui ci si prende cura o, come noi diciamo, nella prassi. “L’angoscia si angoscia per la nuda presenza in quanto gettata nello «spaesamento»”.

A tale proposito, è da osservare in primo luogo che nell’angustia del mondo sepolcrale il mondo non ha tuttavia completamente perduto il suo carattere di appagatività, non è scaduto a completa insignificatività e che la presenza ha qui ancor sempre qualcosa in base a cui poter comprendersi, e questo è appunto il sepolcro, il carcere, il buco nella terra. Che qui la presenza, ciononostante, sia nell’angoscia, indica che già il restringimento e il livellamento della significatività del mondo, di pari passo procedenti con il prevalere dell’essere-stato, già la perdita da parte del mondo del suo carattere di appagatività significa angoscia.

Abbiamo seguito a passo a passo questo sfigurarsi del mondo e l’abbiamo riconosciuto nello ‘scadere’ della mondità da un mondo estremamente mobile, estremamente fuggevole in un mondo estremamente rigido, amorfo (privo di forma), dove la presenza non trova più niente di ‘nuovo’ in base a cui possa comprendersi, ma solo può farlo in base al passare e al decomporsi dell’abituale e di ciò che è a sazietà noto. La presenza dunque si angoscia già là dove, nel libero progettarsi in vista di se stessa, nel suo più proprio poter-essere si fa non libera. Il semplice-presente intramondano non ha dunque affatto bisogno di mostrarsi nella sua vuota spietatezza, è sufficiente che si mostri nel suo aspetto di svuotamento, nel nostro caso nell’aspetto di terra, di sepolcro o di buco nella terra.

Tutte queste espressioni indicano però una cosa, che lo svuotamento della significatività del mondo, lo sfigurarsi del suo carattere di appagatività e ‘vuoto esistentivo’ hanno un unico e medesimo significato, e ciò in base ad una modificazione dell’unico senso esistenziale della temporalizzazione. Se il mondo diventa insignificante e sempre più perde il suo carattere di appagatività, se sempre meno la presenza trova qualcosa su cui possa progettarsi e in base a cui possa comprendersi, se il mondo si mostra, dunque, nell’aspetto dello svuotamento (della terra, della voragine, della fossa nella terra) e la presenza non è più proiettata in avanti, bensì rigettata sul mero esser-stato, nel quale non può più comprendersi in base a ‘qualcosa di nuovo’ ma soltanto in base alla cerchia dell’abituale e del noto compresi a sazietà, tutto questo significa che, come tanto bene si esprime la lingua parlata, niente più si muove e ‘tutto rimane ancorato al passato’. Questo non-muoversi-più e rimanere-ancorati-al-passato, che dunque concerne tanto il mondo quanto l’esistenza, non è se non un restar-fermo o al massimo uno strisciare.

Quando Ellen West si concepisce come verme della terra, con ciò esprime la medesima cosa che quando si accorge che il suo ‘sviluppo è cessato’, che è tagliata fuori dall’avvenire, che più non scorge innanzi a sé ampiezza e luce, e che al contrario non le è concesso se non il voltolarsi lentamente in un cupo, angusto cerchio. Questo però non significa se non quanto noi in psicopatologia e la stessa Ellen West definiamo uno scadere dall’altezza ‘spirituale’ ad un livello più basso, al livello del soltanto-ancora o del quasi-soltanto-ancora-vegetare, del mero appetire. L’appetire è caratterizzato in termini esistenziali con la prossimità, l’angustia e il vuoto del mondo, con il suo aspetto di voragine, in cui la presenza si appaga di ciò che è a portata di mano e, come nel nostro caso dobbiamo dire, ‘a portata di bocca’, dove dunque nulla è oggetto di riflessione e di scelta, ma tutto viene afferrato o addentato con frenesia e ci si getta freneticamente ‘come un animale’ su quanto appunto è semplicemente alla mano. La forma di temporalizzazione di questo essere-nel-mondo non è più l’aspettarsi (del futuro), bensì un mero presentificare, un presentificare il mero ora, che né nasce dall’avvenire, né si lascia alle spalle un passato. La ‘serietà animale’ di questo presente si mostra in ciò, che tutto ancora si ‘aggira’ unicamente intorno al mangiare o divorare, come l’unica appagatività in base alla quale la presenza possa ancor comprendersi.

Dopo tutto quello che siamo venuti esponendo, sarà ormai chiaro che, come si è sottolineato in precedenza, una simile bramosia di mangiare, in quanto espressione dello svuotamento e della trasformazione in terra del mondo dell’esistenza, è angoscia. Il fatto che Ellen West si getta sul cibo ‘come un animale’ significa che ella è mossa dall’angoscia, e se da un lato cerca di farla tacere nella bramosia del divorare nel mero ora — infatti nel trangugiare il cibo ancora ‘qualcosa si muove’ — è soltanto per ricadervi nel successivo punto-ora. Questo è il ‘laccio’ da cui Ellen non si può sciogliere e in cui la sua presenza è irretita. L’angoscia di ingrassare si rivela così come un’altra espressione dell’angoscia dinnanzi alla perpetuazione della bramosia nella forma dell’ingrassamento, della trasformazione in verme, dell’imputridimento, dell’insipidezza, dell’imbruttimento e della despiritualizzazione della presenza. L’esser-grassa è il perpetuo rimprovero che qui la presenza si fa, la sua autentica ‘colpa’. La contraddizione tra il mondo etereo e il mondo sepolcrale, tra l’esistentiva iperilluminazione e l’ombra esistentiva, si era rivelata come contraddizione tra un danneggiarsi-sollevando il peso della temporalità della presenza e un esserne tirata-giù.

Nella storia della vita della nostra malata ciò si manifesta con stupefacente nitidezza. Che sussista una contraddizione tra i due mondi. non significa dunque che l’uno sia unicamente una festosa gioia della presenza e l’altro unicamente lutto o malinconia della presenza: entrambi i mondi piuttosto, se così si può dire, sono mondi dell’angoscia, quello etereo, nel senso dell’angoscia sorta dal voler-essere-diversa dinanzi al futuro autentico e quindi anche dell’angoscia dinanzi alla morte, il mondo sepolcrale, nel senso dell’angoscia dinanzi al mero esser-stato. Nell’uno, la presenza si consuma nel mero desiderare della fantasia, nell’altro, nella mera bramosia di vita. La contraddizione tra i due mondi non è contraddizione tra non-angoscia, festosità della presenza o ‘serenità [Gelassenheit] (E .Straus) da un lato e angoscia dall’altro, ma contraddizione tra due diverse forme di angoscia, l’angoscia dinanzi alla vecchiaia e alla morte e l’angoscia dinnanzi alla vita. In entrambe le forme può trovare la sua espressione l’unica angoscia dinnanzi alla nullità della presenza ed entrambe possono dunque venir scambiate: Ade può significare Dioniso e Dioniso Ade. La contraddizione tra le due forme di angoscia è contraddizione dialettica nel senso dell’antinomia della presenza, cioè dello stretto intrecciarsi della vita con la morte e della morte con la vita. Il suicidio è tuttavia una consapevole rottura di questa antinomia, mediante una ‘conclusiva-decisa’ azione della prassi nella quale, alla fine, la libertà trionfa necessariamente sulla non libertà. L’essenza della libertà come necessità si fonda tanto profondamente nella presenza da poter dunque ancora disporre della presenza stessa.”


Nathan Ford, PInk boy (courtesy Fairfax Gallery)


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