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2012


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Invenzioni linguistiche nel mondo del delirio
(Louis Wolfson) *


di Pietro Barbetta



Un nuovo interesse per l’opera di Louis Wolfson — Mentre è in cantiere la prima traduzione italiana di Le schizo et les langues, in Francia è uscita una nuova edizione di Mia madre, musicista, è morta... («Nonostante le dita infilate nelle orecchie con forza, la melodia gli perforava il cranio, fino al cervello malato»).

Su un recente numero della “Quinzaine littéraire” (n. 1063, 16-30 giugno) William Irigoyen ha dedicato un lungo articolo alla nuova edizione di Ma mère, musicienne, est morte de maladie maligne à minuit, mardi à mercredi, au milieu du mois de mai mille977 au mouroir Memorial à Manhattan (1), di Louis Wolfson, uscita a maggio in Francia presso l’editore Attila. E anche in Italia, dopo molti anni, è finalmente in cantiere la traduzione del primo romanzo di Wolfson, Le Schizo et les langues. Sembra insomma delinearsi un rinnovato interesse per questo autore che — al pari e forse in modo più incisivo di Daniel Paul Schreber — ha trasformato la letteratura attraverso l’esposizione in dettaglio del suo delirio.

Wolfson è schizofrenico: Le jeune öme schizophrène nel suo francese riformato. Tra le caratteristiche della «sindrome di Wolfson» — come la definì Kevin McCann nel 2001 — c’è una radicale impossibilità di ascoltare la lingua madre, l’inglese. Per questa ragione Wolfson è indicato come l’inventore del walkman. L’invenzione si rese in certo senso necessaria per evitare appunto di percepire la lingua madre, nei momenti in cui il giovane era interpellato. Potremmo giungere a pensare che Wolfson escogitò un modo pratico per sfuggire all’interpellazione, all’assoggettamento agli apparati di potere. (E quale maggior potere della lingua madre dominante — se si tratta poi dell’inglese). Fu così dunque che Wolfson prese una radiolina, del nastro adesivo e uno stetoscopio medico, e li assemblò mettendo la testina dello stetoscopio contro la piccola cassa del transistor avvolgendoli col nastro adesivo. Quando qualcuno si rivolgeva a lui, bastava alzare il volume di un’emittente non inglese con le cuffie dello stetoscopio saldamente infilate nei padiglioni auricolari.

Wolfson viveva a Manhattan quando scrisse il suo primo romanzo — in francese, Le Schizo et les langues ou La Phonetique chez le psychotique (Esquisse d’un étudiant de langues Schizofrénique). Era sotto tutela, affidato alla madre, considerato incapace. Con il padre, ebreo, s’intendeva attraverso l’yiddish, «lingua che ha in gran parte il medesimo vocabolario e morfologia del tedesco».

Ma cosa significa delirio, nel caso letterario? E nella vita quotidiana? Wolfson è infatti un caso letterario e un caso di schizofrenia: a Parigi uno scrittore, a New York uno schizofrenico. Si sa che gli antichi chiamavano lira il solco tracciato dall’aratro. Questo è strictu senso il delirio, uscire dal solco, non metafora. La metafora è composta di due parti, il tenor e il vehicle, come vuole Ivor Armstrong Richards (2). Il delirio è metafora senza tenor. Se dico che «la sera della vita» è metafora di senilità perché «la sera della vita» dice immediatamente senilità, cosa significa Macchinetta trombetta di Tarcisio Merati, oltre a essere il titolo di un quadro? E quando Gregory Bateson parla degli uomini erba (gli uomini sono mortali, l’erba è mortale, dunque gli uomini sono erba) intende presentarci una metafora o condurci — insieme a Lewis Carroll, James Joyce e Louis Wolfson — nel mondo del delirio?

Del delirio non c’è criterio universale, generalizzabile. Perciò lo psichiatra che annoti sulla cartella clinica «delirio» non annota nulla. Non annota un evento, classifica una persona, la interdice dal mondo. Al contrario, Wolfson ha un suo proprio procedimento letterario e di cura, che consiste nel deviare le parole inglesi attraverso le altre lingue a lui conosciute. Così scrive Deleuze a proposito di Wolfson in Critica e clinica (3): «Il suo procedimento è il seguente: data una parola della lingua madre, trovare una parola straniera di senso simile, ma che abbia dei suoni o dei fenomeni comuni (di preferenza in francese, tedesco, russo o ebraico le quattro lingue principali studiate dall’autore)».

Il primo romanzo di Wolfson, Le Schizo et les langues è scritto in terza persona e l’autore descrive la vita quotidiana del giovane studente schizofrenico e dei suoi tentativi di liberarsi dall’intrusione della lingua materna. Un giorno il patrigno del giovane decide di regalare alla madre di Louis una pianola elettrica. Dopo averla rifiutata in modo isterico, la madre comincia a usarla in casa, impedendo al giovane studente schizofrenico di praticare i suoi studi in lingue. L’organo dotato di altoparlante permette alla madre di cantare ad alto volume durante la giornata, quando il marito è fuori a lavorare.

«Per una qualche ragione — scrive nel suo romanzo Wolfson — una canzone popolare che sua madre suonava frequentemente era Good Night Ladies (goud, u aperta e breve, naït, monsillabico con i aperta, breve e debole; lédis o piuttosto leidis, l’accento tonico è, naturalmente, sulla prima sillaba, e le i sono aperte e brevi e quella del dittongo, che è dunque cadente, è debole), che significa buona notte signore; e in particolare la parola ladies (anche, = femmine, donne), anche se si usa in tedesco, in francese, ecc., irritava lo studente schizofrenico, saltando nella sua testa in quasi tutte le frasi del pezzo. E davvero, nonostante le dita infilate nelle orecchie con forza, la melodia gli perforava il cranio, particolarmente dall’osso temporale (direttamente dietro il padiglione auricolare e la via usata per certi apparecchi uditivi), fino al cervello malato, facendo vibrare forse, letteralmente come un insieme, come un sol blocco, la scatola cranica se non anche quest’organo delicato e afflitto ch’era il suo cervello, perché il suono, emanando dall’altoparlante, era talmente pieno, talmente forte, che faceva vibrare palpabilmente, se non anche visibilmente i mobili e persino i muri».

Questo testo incalzante è un crescendo che parte da un elemento fonetico quasi privato, una idiosincrasia, e sfocia in una amplificazione che coinvolge attraverso gli organi uditivi l’intero sistema nervoso. Per ladies (signore) si può trovare un suono simile nel tedesco Leute, ma Leute vuol dire “gente”, “tutti”, non solo le donne. La trasformazione è insufficiente. Siamo coinvolti nel pieno del delirio, stiamo condividendo il funzionamento della macchina Wolfson, siamo pronti ad aiutarlo a trovare il fonema migliore. Così uno scrittore ti coinvolge. Ciò che in Conversazioni (4), Gilles Deleuze e Claire Parnet chiamano agencements, le disposizioni: «Le strutture sono legate a condizioni d’omogeneità, ma non le disposizioni».

Il procedimento di Wolfson, osservato nella citazione da Le Schizo et les langues, dispone gli elementi espressi nella lingua madre e li trasforma in variazioni di altre lingue possibili, conosciute dall’eroe del racconto: russo, francese, tedesco, ebraico. Se l’operazione riesce, la crisi schizofrenica si smorza. Se non riesce, permane. La trasformazione non si dà automaticamente, non è il frutto di dispositivi tecnici pre-definiti. Come nel delirio, non c’è un tenor stabile di riferimento. Avviene per assemblaggio. Qui e là c’è qualcosa che mi permette di tenere insieme la macchina — non macchina funzionale, bensì originaria. Organi senza corpo, assemblati in qualche modo, senza un punto di trascendenza che costruisce un progetto, senza alcuna finalità cosciente. Si dispone nell’immanenza. Come dire piove.


(*) Apparso in “Il Manifesto”, 10 agosto 2012.


(1) L. Wolfson, Mia madre, musicista, è morta di malattia maligna martedì a mezzanotte nella metà di maggio del mille977 nel moritorio del memorial a Manhattan, trad. it. di G. Pavanello, SE, Milano 1987.

(2) I. A. Richards, The philosophy of rhetoric, Oxford University Press, New York 1965 [1936] (trad. it. La filosofia della retorica, Feltrinelli 1967).

(3) G. Deleuze, Critica e clinica, trad. it. di A. Panaro, Cortina, Milano 1996.

(4) G. Deleuze, Claire Parnet, Conversazioni, trad. it. di G. Comolli e R. Kirchmayr, Ombre Corte 2007.



“Ma mère”, Adaptation théâtrale de Benjamin Lazar, 24-25 april 2012. Théâtre de Cornouaille


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