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come si accede al pensiero





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2012


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Una comune epoca globale
di Roberto Fai

14 giugno 2014



Ai non addetti ai lavori, l’espressione «La Nottola di Minerva e l’inafferrabilità del presente», a cui è dedicato il convegno connesso con la XIV edizione del Premio di Filosofia “Viaggio a Siracusa”, tenutosi nel gennaio 2014, potrà sembrare di difficile comprensione. L’espressione che riprende una metafora di Hegel tratta dalla “Prefazione” ai Lineamenti di filosofia del diritto, è tuttavia, a nostro avviso, di estrema attualità. Essa accosta l’uccello del mito a questo nostro inquieto e inafferrabile presente. L’espressione rimanda al ruolo e al senso della filosofia. Per riprendere Hegel, il pensiero filosofico, la filosofia — intesa metaforicamente come la Nottola, vale a dire la civetta, l’uccello del mito, «si alza in volo solo sul far del tramonto o sul far del crepuscolo» — si manifesta cioè a cose fatte, dopo che i processi (gli eventi, i fatti, gli accadimenti) sono accaduti, dopo che il mondo (la realtà) ha compiuto il proprio processo di formazione. Citando Hegel, «la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. [...] La Nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo». Nessun carattere profetico, pertanto, è assegnato alla filosofia: a essa è riconosciuta ed assegnata la funzione, il compito — questa la sfida, l’orizzonte del pensiero filosofico — di essere, di rappresentare «il proprio tempo appreso col pensiero» (ancora Hegel).

Per analogia, potremmo provare a dirne il significato in questi termini: ciò che è accaduto, che è sotto i nostri occhi, per il fatto stesso che è accaduto, non poteva che accadere. Non vi è in ciò alcun “naturalismo giustificazionista”, semmai, per il fatto stesso che qualcosa (fatti, eventi, accadimenti) è accaduto, al pensiero filosofico non rimane che il compito di saperne interpretare il senso, di inscrivere gli eventi dentro l’orizzonte di comprensione che si dispiega da quegli eventi: non fermandosi a ciò che è “accidentale” nel quadro di svolgimento degli eventi, bensì assumendo il compito di afferrare il senso — costruirne il concetto — di questa nuova, inedita realtà che irrompe davanti a noi, e dentro la quale ci accade di vivere. In questo, in questa realtà, tutto ciò che è accaduto — e proprio per il suo stesso accadere — manifesta ed esprime infatti la sua propria intrinseca “razionalità”. Se, facendo un salto di oltre un secolo, volessimo cogliere un dispositivo analogico a questa funzione che Hegel assegna alla filosofia, si potrebbe citare quella plastica espressione di Wittgenstein, secondo cui «il mondo è tutto ciò che accade». E quando una nuova realtà, un’inedita discontinuità epocale si affaccia davanti a noi, quando le forme storiche sono giunte al loro compimento, al loro “crepuscolo”, al pensiero — e alla filosofia in particolare — non rimane altro compito che quello di saper corrispondere alle nuove domande che l’epoca pone. Hic Rhodus, hic salta! (Qui è Rodi e qui devi saltare!) È l’epoca che dobbiamo saper interpretare, è l’epoca — il processo compiuto —, cui ci spetta saper corrispondere, per saperne delineare il senso, i profili, le dinamiche, per saperlo afferrare nel suo significato.

Forse oggi noi siamo gli ultimi eredi di quella Modernità, immaginatasi “senza fondamento”, pertanto pensatasi totalmente costruttivistica, e dispiegatasi inevitabilmente verso “magnifiche sorti e progressive” — la stessa idea di “progresso” è figlia del ’700 occidentale. Eredi di quell’epoca che, a partire da Hobbes, per oltre tre secoli ha scandito le tappe del legame tra ‘individui’ e ‘comunità’, attraversando la grande ‘sistemazione’ hegeliana e l’ipotesi di rovesciamento prefigurata da Marx, muovendosi lungo la scia della promozione di una soggettività prometeica che ha dispiegato la sua potenza dentro l’orbita della sua più potente “macchina artificiale” — quel Leviatano, lo Stato, quel Dio mortale, quel “mostro freddo” di Nietzsche —, che è riuscita ad assicurare a questa soggettività le forme e i luoghi della sua protezione, della sua tutela e della sua legittimazione. Ma adesso che questa ‘Megamacchina’ fa fatica, da sola, a corrispondere al tempo presente; ora che i singoli Stati-nazione appaiono giunti al compimento della loro esclusiva ‘sovranità’, qual è il destino di quest’anarchica ‘moltitudine’ mondiale, oramai privata dei suoi luoghi di(auto)riconoscimento sociale? Noi, pertanto, oggi siamo costretti a registrare che quest’epoca prometeica è finita, conclusa, esaurita, dovendo così prendere atto che la nostra condizione non è più quella di Pro-meteo (“Colui che vede prima”), bensì quella del fratello, Epi-meteo (“colui che vede dopo”), costretti così a prendere atto della necessità di dover corrispondere ad una fase in cui l’unica certezza sembra essere la fine delle grandi ‘certezze’, in cui il mondo del senso risiede nel “senso del mondo”: di questo mondo globalizzato, sì ingiusto, iniquo, carico di profonde diseguaglianze, e tuttavia “un mondo in comune”, che oramai avvita, a rete, tutte le nostre esistenze. Siamo così consegnati alla rinnovata ricerca — ancora con la filosofia — di dare ragione di un mondo che destinalmente ci mette “in comune”. Attorno a tali interrogativi, occorre provare ad interrogarsi attorno ad un ‘presente’ che ci immobilizza nella sua mera puntualità senza senso — un tempo, il nostro, privo di ‘futuro’, figlio di quella “spazializzazione dell’esistenza” e dell’esperienza che l’epoca globale ci consegna — e che sembra al tempo stesso davvero inafferrabile. Da qui, riparte la filosofia.




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