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Essere giusti con santa Teresa d’Avyla
di Marco Baldino

27 ottobre 2012


Vorrei tentare anch’io di essere un tantino giusto con Teresa D’Avyla. Brevissima osservazione, taglio un po’ diverso da quello di Pietro Barbetta: Essere giusti con Teresa, “Doppiozero”, 24 ottobre 2012.

Si dice che il libro di Julia Kristeva su santa Teresa D'Avyla (Teresa, mon amour, tr. di A. Piovanello, Donzelli 2009) sia una profonda riflessione sul nostro attuale bisogno di credere. Ma è una leggerezza, intanto perché non c’è un’attuale bisogno di credere e poi perché non è vero che Teresa D’Avyla sublimasse nella propria scrittura (come sostiene la Kristeva, ma anche la Irigaray e, forse, lo stesso Pierre Janet) il possesso dell’Altro, dell’amato o, peggio, il tentativo di incorporare l’Altro nei gangli del proprio corpo. In Italia l’attenzione per le sante possedute, la trascrizione psicanalitica delle estasi mistiche in altrettanti orgasmi, si è consumata nel corso degli anni Ottanta come coda del femminismo. Il libro della Kristeva, almeno da questo punto di vista, giunge quindi in ritardo.

Ho Qualche dubbio più radicale relativamente all’altra questione, quella del credere. Il bisogno di credere adultera ogni autentica visione del divino — a me par chiaro. Non voglio proporre una sorta di neo-arianesimo, né, tanto meno, lo scioglimento del cristianesimo in una sorta di etica, ma il pensiero religioso all’altezza dei tempi mi pare essere quello che presenta un Cristo compatibile con la chiusura della rappresentazione creaturale.

Proprio i grandi santi mistici, da Teresa d’Avyla a Tersea di Lisieux a Teresa di Calcutta (di cui ho letto l’epistolario due estati fa, proprio insieme a Libro de su vida, di Teresa d’Avyla), lo sapevano benissimo. Il loro grande segreto è infatti che Dio (nel senso catho, nel rivestimento catechistico del termine) non esiste o, almeno, non esiste più.

Mi rendo conto di piegare volontariamente la lettura di Barbetta, facendovi confluire anche il rapporto con la trascendenza — rapporto non piano, come ho osservato — e se Barbetta, o Fuentes o Enrique Llamas Martinez, hanno visto un’acqua nera al fondo della mistica gloriosa di Teresa, è perché, a parer mio, c’è lì una singolare scoperta e — seconda questione — questa è davvero una questione attuale: non il demonio è l’eresia che sta al fondo dell’azione mistica, ma il vuoto. Del resto, una cosa che Teresa dice nel Libro de su vida, è che mai ebbe visioni attraverso la preghiera rivolta a Dio Padre, ma sempre e solo concentrandosi sulla passione di Gesù.

L’aridità mistica è esperienza diretta dell’insostenibilità dell’approccio teistico al divino: con Gesù, bisogna lasciar cadere ogni teologia, ogni religiosità, ogni diretto rapporto col Padre — il Padre nostro è preghiera assolutamente ebraica, preesistente nella sostanza e in molte formule, che trova nel testo evangelico una sintesi per collazione, ma che non rappresenta affatto la novità della Philosphia Christi.


Estasi di santa Teresa d'Avila, Pittura italiana sec. XVIII. Venezia, Piazzetta Giovanni Battista



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