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Calvino e l’utopia capovolta.
Come il terzo millennio ha smentito le Lezioni americane
Parte seconda. Molteplicità [Parte prima]

di Lorenzo Lasagna

15 febbraio 2020



Molteplicità è l’ultima delle cinque lezioni che Calvino riuscì a completare. Sebbene essa utilizzi il consueto argomentare lasco e nebuloso, svolto per accumulo di impressioni e riferimenti disordinati, il grado di coerenza dei contenuti che vi vengono esposti è — caso unico nel testo di cui parliamo — sostanziale.

In obbedienza a uno schema che verso metà lezione verrà chiaramente illustrato al lettore, la molteplicità è presentata da Calvino come un attributo della migliore letteratura e in tal senso, ci viene detto, la si dovrà coltivare in futuro. La predisposizione alla molteplicità non è però solo un pregio stilistico, ma anche un fattore di conoscenza che rende l’autore più saggio e più esperto della realtà che ha di fronte: “La conoscenza come molteplicità è il filo che lega le opere maggiori, tanto di quello che viene chiamato modernismo quanto di quello che viene chiamato il postmodern, un filo che — al di là di tutte le etichette — vorrei continuasse a svolgersi nel prossimo millennio”[1].

Anche il torrenziale apparato di riferimenti, in questa lezione, risulta calzante ed appropriato. In cosa consisterebbe dunque l’eterogenesi, il rovesciamento della prospettiva calviniana? Secondo noi, nel non aver previsto quale forma di molteplicità si sarebbe affermata nel ventunesimo secolo. Ma andiamo con ordine.

Abbiamo detto che nel testo della quinta lezione figura — ed è cosa assai rara — un elenco ragionato di esempi, concluso da uno schema che ci permette di ricavare una definizione chiara della categoria prescelta da Calvino. Citando Gadda, egli fa propria l’idea che l’opera letteraria aneli alla complessità, a costruire un sistema di relazioni capace di estendersi all’infinito: attraverso la scrittura “il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo”[2].

In tale prospettiva “ogni minimo oggetto è visto come il centro di una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventano infinite”[3]. “La grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo”[4]. La molteplicità, allora, altro non sarebbe che questa attitudine alla pluralità, al multiforme e al poliedrico.

Nel breve passo citato si riconoscono chiaramente gli echi di due esperienze intellettuali che hanno influenzato la poetica di Calvino dagli anni sessanta in avanti: parliamo del pensiero strutturalista e della corrente letteraria che faceva riferimento all’Oulipo di Raymond Queneau[5]. Si tratta di presenze molto forti nella produzione del tardo Calvino (quella che va da Le cosmicomiche a Se una notte d’inverno un viaggiatore). Dalla teoria strutturalista Calvino mutuò l’idea che esistesse uno schema alla base dell’opera, uno schema composto di elementi in relazione tra loro. Dalle opere dell’Oulipo ricavò invece la consapevolezza che un’azione controllata su quegli elementi da parte dell’autore genera effetti creativi simili ad una reazione a catena. Portando questi due concetti al loro punto di convergenza, capiamo perfettamente cosa affascinasse l’autore delle Lezioni americane nel concetto di molteplicità: anzitutto, la possibilità di agire sugli elementi dell’opera per governarne alla radice gli esiti narrativi (è lo stesso genere di attrazione che esercitava su di lui lo stile di Ariosto: la scrittura come prestidigitazione, come téchne — nel senso più artigianale del termine). Cesare Garboli ha reso questo concetto con la fortunata immagine del narratore “che gioca con le parole trattandole come dei pezzi sulla scacchiera”[6].

In secondo luogo, la molteplicità è per lui il presupposto e insieme l’effetto finale della permutazione, il gioco di tutti rimandi possibili, potenziali: una sorta di psicoanalisi senza inconscio, di automatismo psichico senza psiche. “Ciò avviene mediante lo sfruttamento del potenziale semantico delle parole, di tutta la varietà di forme verbali e sintattiche con le loro connotazioni e coloriture [...] che il loro accostamento comporta”[7].

Dunque, nel terzo millennio, 'molteplicità’ avrebbe dovuto significare questo: ampiezza e stratificazione delle relazioni e della combinazione tra i segni. Una vertiginosa quadratura del cerchio, nelle sue mille diverse forme possibili, tra vincolo formale e libertà: “[...] Il miracolo è che questa poetica che si direbbe artificiosa e meccanica dà come risultato una libertà e una ricchezza inventiva inesauribili”[8].

Vengono così isolate quattro categorie di molteplicità letteraria meritevoli di essere indicate a modelli per il futuro: 1) c’è la molteplicità dei testi polisemici, quelli interpretabili a più livelli; 2) c’è la molteplicità delle opere plurime, a più voci; 3) c’è quella delle opere incompiute e dunque aperte, dai molti esiti possibili; 4) infine, c’è quella delle opere frammentarie, non sistematiche e composite[9]. A riunirle tutte e quattro sono i tratti dell’unicità irripetibile, della complessità e della relazione.

Ora, torniamo ai giorni nostri e proviamo a considerare quale volto mostri effettivamente la molteplicità nel ventunesimo secolo. Per farlo, chiamiamo in causa due intellettuali della generazione precedente a quella di Calvino, la generazione dei nati nell’ultimo decennio del secolo diciannovesimo: il filosofo Walter Benjamin e lo scrittore, saggista e poeta Jorge Luis Borges.

Notiamo anzitutto che in ottemperanza alla regola delle Norton Lectures, Calvino era libero di organizzare i contenuti delle sue conferenze a proprio piacimento. Non c’era dunque obbligo di sorta cui dovesse sottostare, tantomeno l’obbligo di rispettare criteri di rilevanza. E’ tuttavia un fatto che la sua esposizione abbia dato ampio risalto ad aspetti oggi marginali del concetto, e ne abbia invece omesso le due forme che — col senno di poi — appaiono certamente più rilevanti, vale a dire la riproduzione (concetto sul quale si soffermerà Benjamin) e quella che — riflettendo su una metafora letteraria di Borges — chiamerei inflazione.

Walter Benjamin si dedicò ad esaminare lo statuto dell’opera d’arte nell’era industriale, in particolare di fronte alla possibilità della sua riproduzione. Le sue tesi si diffusero sin dal secondo dopoguerra, grazie ad un libello intitolato appunto “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”[10].

Sebbene fosse possibile, in linea puramente teorica, che la molteplicità si diffondesse nei modi della complessità semantica e della permutazione creativa, Benjamin intuì correttamente che nell’era della cultura di massa essa avrebbe imboccato ben altra strada, e seguito la china dell’imitazione attraverso la riproduzione. “La riproduzione tecnica dell’opera d’arte — annota — è [...] qualcosa di nuovo”[11]. A differenza della permutazione creativa, che arricchiva le potenzialità dell’opera, essa ne intacca alla radice lo statuto: se la prima era una forma di molteplicità autentica che guidava l’opera verso il proprio 'destino’ e il proprio compimento, la seconda ne altera irrevocabilmente l’identità. Infatti, scrive ancora Benjamin, “anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte”[12]. “Le circostanze in mezzo alle quali il prodotto della riproduzione tecnica può venirsi a trovare possono lasciare intatta la consistenza intrinseca dell’opera d’arte — ma in ogni modo determinano la svalutazione del suo hic et nunc”[13].

La conclusione di questo scarto è abbastanza ovvia: nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è altamente problematico per chiunque (artisti compresi) mantenere viva la relazione originaria tra molteplicità e differenza, e tra molteplicità e individualità (intesa non tanto nel senso numerico, quanto in quello di singolarità). La molteplicità resa possibile dai dispositivi tecnologici (e dalla scienza dei dati, aggiungeremmo) è infatti puramente quantitativa, comparabile, operazionale: è il risultato di un’iterazione di fattori già noti a priori. Entro questa cornice, l’esperienza artistica è divenuta un’esperienza per la quale sarebbe difficile tenere fermi i criteri classici di autenticità e autorialità, come pure ogni senso di valore. “Moltiplicando la riproduzione, [la tecnica] pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi”[14]. Risultato: la riproduzione annichilisce la singolarità.

C’è un aggettivo che Calvino ama associare alla buona scrittura: l’aggettivo 'memorabile’ (sinonimo per lui, come si vedrà nella lezione sulla visibilità, di icastico). Nella fruizione dell’opera post e tardomoderna quella parola ha perso ogni significato, e ciò per l’ovvia ragione che la memoria chiama in causa eventi unici colti in una dimensione temporale, e non può invece darsi alcuna memoria nell’eterno presente della riproduzione infinita del segno. Benjamin aveva capito che “l’unicità dell’opera d’arte si identifica con la sua integrazione nel contesto della tradizione”[15], e che senza quell’unicità, la possibilità di mantenere una significazione di tipo 'storico’, cessa. In conclusione, “nell’istante in cui il criterio dell’autenticità nella produzione dell’arte viene meno, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte”[16] e “l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali [...] quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale”[17].

Ma non è tutto. Se la riproduzione mette in discussione lo statuto dell’opera sul piano ontologico (o comunque — per stare a Benjamin — su quello funzionale), l’inflazione è il volto che la molteplicità ci mostra ogni giorno (diremmo anzi ad ogni istante) sul piano pratico, quello dell’esperienza soggettiva.

Volendo attingere da un repertorio e da un autore cari a Italo Calvino, potremmo indicare come perfetto esempio di inflazione il racconto La biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges[18].

In un enigmatico edificio, privo di confini visibili, sono custoditi volumi che raccolgono tutte le possibili combinazioni di venticinque segni alfabetici. La maggior parte di essi è naturalmente illeggibile, ma da qualche parte, tra le congerie di libri, in modo casuale si trovano anche le grandi opere dell’ingegno letterario: La Divina Commedia, l’Odissea, il Chisciotte. Nel caos della biblioteca, ogni libro nasce da un meccanismo di ricombinazione cieca: nessuna intelligenza lo guida, nemmeno un destino. L’emergere delle parole dal non-senso non segue un disegno o una volontà creatrice, ma la variazione di uno schema. Sarebbe persino improprio parlare di caso, come piaceva al Calvino del Castello dei destini incrociati: lo schema non genera infatti autentiche singolarità [19], ma una totalità indefinita di esiti, anzi: tutti gli esiti possibili. In essa il Chisciotte non occupa un posto diverso da qualunque congerie di lettere ripetute in disordine. Nulla è rilevante nell’inflazione del segno: la natura dei libri è “informe e caotica”[20]. E naturalmente, nulla suscita autentico stupore o meraviglia, salvo qualche bizzarra combinazione di segnali che resta però inaccessibile: “Non posso immaginare alcuna combinazione di caratteri dhcmrlchtdj che la divina Biblioteca non abbia previsto, e che in alcuna delle sue lingue segrete non racchiuda un terribile significato”[21]. “E’ ormai risaputo: per una riga ragionevole, per una notizia corretta, vi sono leghe di insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze. (So d’una regione barbarica i cui bibliotecari ripudiano la superstiziosa e vana abitudine di cercare un senso nei libri, e la paragonano a quella di cercare un senso nei sogni o nelle linee caotiche o delle linee caotiche della mano [...])”[22]. “[L]a certezza di ciò, che tutto sta scritto, annienta o istupidisce”.

E’ interessante il fatto che in un lontano passato (il ventesimo secolo di Calvino e dell’Oulipo?), quando presero coscienza della struttura del mondo che li circondava, gli abitanti della Biblioteca provarono una “straordinaria felicità. Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e segreto”[23]. Ma col passare del tempo, “[a]lla speranza smodata [...] successe una eccessiva depressione”[24]. Nei giorni in cui scrive il narratore del racconto, coloro che un tempo cercavano ora sono scoraggiati: “ogni tanto, prendono il libro più vicino e lo sfogliano [...]. Nessuno, visibilmente, s’aspetta di trovare nulla”[25].

Come comprende senza sforzo il lettore del ventunesimo secolo, la semiosfera contemporanea è un universo molto simile a quello immaginato da Borges nel 1941. Il modello inflattivo (e non la molteplicità intellettualmente creativa del Calvino che rileggeva Gadda e Perec) costituisce il pattern su cui si basa la circolazione dei segni e delle informazioni: uno schema che si accresce alla cieca, e ci inonda di risultati caotici, sovrabbondanti, di sequenze potenzialmente infinite, ottenute mediante semplice accostamento ed accumulo di elementi, in assenza di processi intrinsecamente creativi (laddove la creazione nel suo senso archetipico sarebbe atto discreto, discontinuo: ex nihilo). Si pensi all’offerta paralizzante di opzioni che la tecnologia digitale ci sottopone in ogni singolo momento della nostra giornata, o all’oceano di dati e informazioni che sta alla base delle contemporanee scienze della cosiddetta data analysis — scienza macchinica per definizione, giacché nessun intelletto umano potrà mai dominarla — e si proveranno emozioni molto simili a quelle degli istupiditi e depressi personaggi di Borges.

Volendo concludere: come era accaduto nella lezione sulla rapidità, anche in questo caso Calvino si è lasciato fuorviare da una lettura intellettualizzata del tema scelto, tralasciando le sue componenti più elementari, tenaci, le stesse che alla distanza avrebbero prevalso. Con tutta evidenza, la diffusione della molteplicità (avvenuta principalmente grazie ai mezzi tecnologici di comunicazione, ma anche in seguito ad altri fenomeni macroscopici come la democratizzazione del corpo sociale e l’alfabetizzazione di massa) ha avuto più l’effetto di inibire l’esercizio e la diffusione della conoscenza, che quello di potenziarla o di rappresentarne una manifestazione esemplare (come accadeva negli scrittori eminenti scelti da Calvino).

Qualcuno potrebbe eccepire che il suo era un auspicio, non una previsione — e tantomeno una profezia. E’ senz’altro vero, ma nel momento in cui un intellettuale indica un valore come ricchezza per un’epoca a venire, ci si aspetta che non lo faccia declinandolo secondo modalità astratte o didascaliche, bensì in modo critico, valutando con precisione possibilità e modi della sua ricezione. Ciò non sembra essere avvenuto nel caso della molteplicità, concetto che nell’enunciazione svolta da Calvino si risolve in una bella digressione, in un raffinato omaggio ad autori del suo secolo, ma in un debolissimo strumento per i cittadini del secolo successivo.

(2- Continua)

NOTE

[1] LA, p.113 (corsivo dell’autore).
[2] Ibid., p. 105.
[3] Ibidem.
[4] Ibid., p. 110.
[5] L’Oulipo (acronimo di Ouvroir de Littérature Potentielle, Officina di letteratura potenziale) è il gruppo che riunì in Francia matematici e scrittori, nella ricerca comune di strutture che — attraverso la combinazione, la permutazione o altri generi di interazione vincolata tra i propri elementi — generavano processi creativi. Questo meccanismo venne progressivamente applicato ad un’ampia cerchia di discipline, dalla fotografia, alla teologia e persino all’economia. Fondato nel 1960, accolse formalmente Calvino tra i suoi membri nel 1973. Il contatto con l’ambiente strutturalista è di qualche anno precedente, e può essere fatto risalire all’inizio del 'periodo parigino’ di Calvino: il 1967.
[6] C. Garboli, Plutone nella rete, in «L'Indice dei libri del mese», 10, dicembre 1988, p. 12.
[7] LA, p. 105.
[8] Ibid., p. 118.
[9] Ibid., p. 114.
[10] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi (Torino) 1998 (d’ora in avanti: OA).
[11] OA, p. 6 (corsivo dell’autore).
[12] Ibid., p. 8 (corsivo dell’autore).
[13] Ibid., p. 9.
[14] Ibid., p. 10.
[15] Ibid., p.12.
[16] Ibid., p. 14.
[17] Ibid., p. 15.
[18] Per ironia della sorte, Borges figura proprio tra gli autori citati da Calvino in questa lezione (LA, pp. 115-117).
[19] Il misterioso narratore arriva ad affermare che se anche molte opere importanti fossero andate distrutte, di ciascuna esisterebbero pur sempre ancora migliaia di varianti ciascuna, quasi identiche alle originali.
[20] J.L. Borges, Finzioni, Einaudi (Torino) 1985, p.71 (d’ora in avanti: F).
[21] Ibid., p.77.
[22] Ibid., pp. 71-72.
[23] Ibid., p.73.
[24] Ibid., p.74.
[25] Ibidem.


Ubaldo Oppi, Il fratello prodigo, 1924.

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