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L’educazione, o la responsabilità del passato.
Alcune note

di Guido Cavalli

25 settembre 2015



“… come se gli anni che ci siamo lasciati alle spalle fossero ancora nel futuro”
W.G. Sebald*

Ho letto il tuo articolo sulla tirannide, caro Baldino, ma non è di questo che ti vorrei parlare. È stata la citazione della Arendt, che non conoscevo, che mi ha sconcertato. [1] Il tuo ragionamento sull’educazione come “responsabilità verso il futuro” poi ne consegue. Ma vorrei invitarti a fare un passo indietro. Com’è stato possibile arrivare a porre la questione dell’educazione in questi termini? Com’è stato possibile arrivare a pensare l’educazione in termini diversi, anzi opposti, rispetto ad un patto di continuità tra generazioni? Il problema non nasce forse esattamente quando abbiamo smesso di pensare l’educazione come responsabilità verso il passato?

Educare ovvero “salvare il mondo dalla rovina”, “inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani”, ovvero “preparare al compito di rinnovare il mondo” attraverso “qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile” — così scrive la Arendt, che però significa accettare che il rapporto tra queste due dimensioni — passato e futuro — debba essere percepito in termini avversativi — passato o futuro — anzi che proprio tale contrapposizione costituisca il primo “atto educativo” da perseguire. Ma presupporre passato e futuro come irriducibili, significa anche ritenere che “educazione” sia liberare, assolvere, eradicare la persona da ogni legame, farla assoluta — pura volontà senza fondamento, puro attivismo e ricetto per ogni ideologia. Credo che esattamente a questo pensasse Strauss quando alludeva con inquietudine a “coloro che sono esenti da ogni naturale predisposizione verso il passato […], coloro che credono che il presente, inteso come l’epoca nella quale l’uomo ha raggiunto il grado finora più alto della propria autocoscienza, non abbia niente di importante da imparare dal passato”. [2]

Allo stesso modo avverto netta nella frase della Arendt (mi rendo conto della provocazione ma c’è una materia storica molto più profonda di certe appartenenze culturali) l’eco e l’inerzia di tutta la forza ideologica, distruttiva e iconoclasta con cui nel secolo breve i totalitarismi — parossismi del troppo umano, di cui con notevole ritardo si è colta la similitudine — hanno ferocemente perseguitato le radici e le identità del passato, e poi ancora quella con cui il ribellismo dei ’70 ha riversato in piazza e il conformismo successivo ha cullato alla deriva masse di “giovani” sprezzantemente orfani di cultura, di autorità, di paternità, di eredità. Scusami il tono sopra le righe ma la questione è per me cruciale. No, educare contro il passato non è possibile, è una manifestazione — affatto diseducativa — di hybris smisurata — forse ancora più pericolosa in chi, come la Arendt, sinceramente è animato dal più fervido umanismo redentore — capace solo a chi ritenga che la propria assoluta volontà e i suoi astratti imperativi siano fondamento e sostanza sufficiente per un mondo completamente rinnovato, che l’uomo in sé, proprio e solamente quando denudato di ogni vincolo e riconoscenza e debito morale, possa essere demiurgo di una terra senza il male. È l’idolatria dell’umano, e non stupisce appartenga a un secolo in cui il potere smisurato dell’umano si è sciolto da ogni freno.

Apparentemente opposto alla Arendt, Freud scrive che l’educazione è una lunga opera di repressione. [3] Il suo punto di partenza è l’animalità come anti-civiltà, bestialità, l’istintività come egoismo e dominio dell’avidità, delle pulsioni scomposte. Una rilettura secolarizzata del peccato originale. Dell’uomo come segno meno, legno storto. Ma tra Freud e la Arendt la contrapposizione è apparente. La prima radice di entrambi questi pensieri è ancora una volta biblica. Più esattamente, quella teologia — quella teodicea che si farà spinoziana — in cui il progetto fallito non è l’uomo, ma è il mondo, ovvero è la storia dell’uomo voluta da Dio. Un progetto nel quale la salvezza — soprattutto cristiana — irrompe come cura, come tentativo di un secondo inizio, un altro inizio che vorrebbe porre rimedio al fallimento e alla sconfitta della prima idea di creazione, all’inesorabile corruzione della prima creazione, che “era cosa buona” (Gn 1, 10) agli occhi di Dio ma che non si è dimostrata tale al vaglio del tempo. Prima della colpa dell’uomo c’è la colpa di Dio come cattivo fattore, creatore incapace di creare secondo un progetto di bene, obbligato a tornare più e più volte sulla sua opera e con esiti sempre incerti e parziali, costretto a ridimensionare la sua stessa intenzione di salvezza, e la portata stessa della sua opera di salvezza. Qui si apre la moderna possibilità di ribellione dell’uomo, che chiede ragione della sua creazione e della sua condizione, che si libera del vincolo di imperfezione e infelicità impresso nella sua carne dal creatore, o almeno lo rifiuta come sua colpa — liberazione come compimento del daimon che è in lui. La condizione dell’uomo allora non è la ferita del peccato originale, l’animalità come dimensione storica e morale dell’uomo cacciato dal Paradiso, ma l’apertura al possibile, al possibile come bene in sé. L’uomo all’insegna del possibile, cioè l’uomo libero, emancipato dal debito di salvezza. L’uomo che si emancipa dal passato. L’uomo che non fugge davanti alla miseria della sua condizione, ma impugna il racconto divino che vuole l’uomo stesso responsabile della sua caduta, ascrivendo invece a quel progetto divino la causa del suo male e poi il male del mondo. E decide che sarà suo il progetto, un nuovo progetto per sé e per il suo mondo.

Tuttavia non è stato abbastanza catastrofico l’esito della volontà troppo umana di una terra senza passato — una terra senza il male? Forse allora si tratta di ripensare tutto il rapporto tra passato e futuro. L’ho capito scrivendo l’articolo che mi hai chiesto su Heidegger: siamo sospesi tra le due dimensioni, il passato e il futuro. L’uomo non può rivolgersi a entrambe. Deve scegliere. Forse il fatto educativo è proprio l’avvicinamento e la preparazione a questa scelta, in cui la persona da e riceve un’impronta fondamentale a se stessa, una direzione duratura. La predisposizione di cui parlava Strauss. Proprio in questa scelta infatti non siamo mai liberi, proprio la congiunzione tra passato e futuro è già pensata e preparata nel momento storico in cui ciascuno compie la sua scelta. In questo momento — dello sguardo che esce dall’infanzia, della prima parola ricevuta, del pensiero che cerca un appiglio — passato e futuro già si riguardano asimmetricamente — e il passato è incomprensibile, orribile, la conoscenza storica inutile. Così è per noi. E dunque ecco le parole della Arendt, che non stonano alle nostre orecchie anzi sembrano le parole per una nuova giustizia, piene di fervore per l’uomo e il suo futuro.

Eppure un tempo gli uomini entravano nell’età adulta rivolti al passato, essere adulti significava annodare la nostra vita a quella di altri che ci avevano preceduto, innanzitutto rispettando le loro parole, le loro leggi, imparando da loro il giusto e lo sbagliato ma anche l’appropriato e l’inappropriato, il consentito e il proibito, l’alto e il basso. In questo spazio cartesiano, poi, ciascuno cercava e metteva alla prova una propria misura. Quest’idea dell’educazione come codice sociale, infatti, diventa nella società borghese qualcosa di molto diverso e di molto interessante. Forte di tensioni che il romanticismo, l’individualismo e infine le spinte trascendentaliste hanno immesso nelle profondità della nostra cultura, quell’idea si è trasformata lentamente. Già Goethe rivendicava il “tatto”, le buone maniere, come possibilità di salvezza tra uomini estraniati. Ricevere una buona educazione, innanzitutto imparare le buone maniere, saper stare al proprio posto ed essere appropriati diventa ad un certo punto una forma di sopravvivenza dentro la giungla della società civile, diventa l’antidoto stesso al conformismo e all’inerzia della conservazione. L’etichetta come “piccola etica borghese”, con la sua ipocrisia e la sua affettazione, è proprio il valore dell’apparenza come spazio pubblico, separato e posto a salvaguardia della libertà interiore di ciascuno. È sufficiente ripensare alle complesse danze di corteggiamento e di accoppiamento dei personaggi austeniani per convincerci che qui non assistiamo a un vuoto apparato scenico, ma forse a un vertice dell’educazione, intesa come costruzione dell’umano emancipato dalla civiltà stessa, intesa come prosecuzione e allargamento del mero stato di natura. La possibilità dell’umano è autolimitazione, cioè educazione come sublimazione dell’animalità istintiva in comportamenti convenzionali, rituali che rimandano a un senso naturale, lo evocano ma tenendolo a distanza, alludendo. È un equilibrio fragilissimo e infatti a breve si spezzerà nell’aporia freudiana per la quale l’istinto è pura animalità, ma la sublimazione dell’istinto è pura alienazione: e l’uomo cos’è? Solo contraddizione. Qui invece l’etichetta, l’educazione è trascrizione e non cancellazione del fondo naturale dell’uomo. Giustamente Adorno [4] vede che l’apice di questo equilibrio si realizza nel passaggio tra società aristocratica e società borghese, dove l’etichetta non è più l’esteriorizzazione meccanica di una condizione oggettiva di diversità (nobiltà), ma traduce la faticosa ascesa sociale e civile della borghesia che si affranca dalla condizione materiale e concretizza un progetto di persona libera eppure sociale, laica eppure morale. Ma poi Adorno non capisce il resto: non capisce il “tatto” di Beethoven, che forse lui vorrebbe iconoclasta e invece è assolutamente classico, cioè non capisce la sua capacità di convivenza con le regole del linguaggio musicale, dentro le “maniere” del linguaggio tradizionale, il suo tentativo di stare dentro, di parlare con le forme storiche del linguaggio. Qui Adorno vede solo costrizione a regole puramente formali e arbitrarie, tradendo però la sua visione funzionale del senso e infine puramente materialistica dell’uomo (e potremmo arrivare da qui fino all’incomprensione della domanda heideggeriana come domanda che si pone sempre al di sopra della risposta), laddove invece nell’etichetta c’è l’idea che l’umano è riconoscimento della natura non istintiva dell’uomo, quindi non mero rispetto formale ma autolimitazione, educazione di sé per rispondere a regole più alte, ma più consone al senso di un progetto per l’uomo. In questo l’educazione, il rispetto della convenzione sono anche il momento non individuale del comportamento particolare, quindi il legame dell’individuo, se pur libero ovvero liberato sia dai pregiudizi che dall’istinto, alla dimensione sociale, condivisa, convenzionata (e la famiglia non è forse la massima coincidenza tra e insieme la massima trasfigurazione del dato naturale in dato sociale? E non sta proprio qui la fatica di tenere vivo il senso della sua convenzionalità proprio come progetto umano, quindi non cosa assunta ma sempre rimessa all’intensità dell’intenzione personale e dell’intenzione inter-personale, morale, ovvero condivisa con l’altro — fino a lambire il tema heideggeriano della fine della lotta tra i sessi come pacificazione uomo-natura?). Nonostante questo, come sempre Adorno riesce a intuire il paradosso perché vede nell’immediatezza del privato la dimensione assoluta e asociale delle “attuali circostanze”. Senza però da qui riconoscere che è proprio la mediazione delle convenzioni e delle buone maniere il linguaggio della socialità — e più su che è la mediazione delle regole linguistiche la condizione per un’espressione intellegibile e non alienata del senso estetico e della differenza uomo-natura.

In ogni caso, l’equilibrio si è rotto. Oggi non importa diventare adulti ma emanciparsi dal passato, anzi restare gettati, rivolti al futuro, al vuoto. Da tempo l’uomo ha distolto il proprio sguardo dal passato, e si è rivolto — nel logos — al futuro, all’aperto. L’indagine delle forme e delle leggi della libertà, sono il suo pensiero — dialettica speculativa. Heidegger è il pensatore che ha rivolto il pensiero al passato, per la prima volta con la consapevolezza di non guardare ad un presente che è già stato, a qualcosa di sincronico rispetto al piano della dialettica dell’essere, ma a ciò che è già deciso, la cui forma non è la libertà ma il vincolo, non è dialettica ma disvelata. Heidegger per primo ha pensato la dimensione dell’essere non in termini sincronici ma in termini temporali, ha pensato il tempo dell’essere, il suo passato e il suo futuro, ovvero il suo peso su di noi. Mille volte nella storia abbiamo detto — basta, cancelliamo tutto, ricominciamo, oggi nasce l’uomo nuovo. Rivoluzioni cristiane, copernicane, francescane, luterane, giacobine e bolsceviche. Ma la forza del passato è più grande. La forza del passato dura di più — la forza del passato dov’è? È nel durare. Il passato è più duraturo di tutte le energie e le idee che riusciamo a mobilitare nel presente — così è stato fino alla modernità.

Comprendo benissimo la difficoltà di tenere insieme gli estremi del pensiero heideggeriano, che da una parte scruta nell’essenza della nostra identità e dall’altra stigmatizza ridicolmente “i musei, Pablo Picasso, la psicologia, la radio…” come ha scritto Fuchs nell’articolo che hai pubblicato, tuttavia, lo dico in punta di piedi, “la tecnica come cospirazione mondiale” mi sembra una lettura alquanto superficiale del pensiero di Heidegger. E “la critica della moderna economia politica del capitalismo”, un livello d’analisi del tutto inappropriato. La questione della tecnica non è una sovrastruttura. È il cuore della soggettività storica del nostro tempo, e la sua più feconda lettura è, ad oggi, ancora heideggeriana. Colta come elemento di continuità determinante della civiltà moderna, che accomuna fenomeni storici per altro diversi come i totalitarismi del ventesimo secolo e la globalità di quello attuale, la tecnica non può essere certo un argomento che consente di mettere sullo stesso piano gli uni e gli altri o addirittura relativizzare il giudizio morale verso i primi — come invece vorrebbe Heidegger — tuttavia è innegabile e deve essere compreso, non rimosso. La critica del pensiero heideggeriano che contesta il legame tra tecnica (come esito della storia metafisica dell’essere), metafisica (come epoca della storia dell’essere) e storia (come disvelamento e destino dell’essere) è naturalmente legittima e anzi necessaria, tuttavia prescinde dal nazismo, dall’antisemitismo, dallo sciovinismo heideggeriano oggi portati alla ribalta dalla pubblicazione dei Quaderni Neri, che assumono i connotati di artifici retorici, di una vera e propria fallacia logica, se vengono semplicemente esibiti e non viene argomentato in che modo essi attengono a quel pensiero.

D’altra parte, una critica della modernità non è di per sé sufficiente per comprendere “la lotta contro il passato” che stiamo vivendo, se ad essa non affianchiamo la comprensione quasi fenomenologica del modo in cui la modernità è divenuta nuova soggettività a fianco della soggettività della storia, come è riuscita a sedimentare e durare essa stessa a fianco del durare del passato, e finalmente ingaggiare col passato una lotta in campo aperto. Ma la sedimentazione è avvenuta attraverso l’oggettivarsi dell’idea nei prodotti e nei processi della tecnica. La modernità è riuscita a diventare nuova soggettività della storia oggettivandosi nella tecnica — quando è riuscita nella tecnica a durare. La civiltà tecnologica ha oggettivato un’idea di uomo senza passato nei suoi artefatti, nella sua macchinalità, nella sua organizzazione produttiva. [5] In questo senso la tecnica è nuova soggettività della storia. Oggettivarsi ha permesso a quell’idea di durare e contrapporsi al durare del passato. La diversità dell’oggi — che ci induce a parlare di fine della storia… — è il momento in cui per la prima volta il piano della sincronicità dell’essere trova modo di pesare di più del durare del passato, ingaggiare una lotta diretta contro il passato. Una lotta in cui sembra vincere. Però noi non abbiamo ancora capito il passato. Riemerge inapparente o forse perdura la forza di una voce non umanista, non scientifica o scientista, che crede e affonda nella forza del passato, mentre la cultura umanista oggi più che mai si dimostra ancella e strumento nelle mani della nuova soggettività.

Un salto — ancora incompreso — è avvenuto con la macchinazione del linguaggio — l’era digitale. La tecnologia digitale è un nuovo capitolo della “storia della tecnica” — che prima o poi bisognerà scrivere per capire la nostra storia, in cui provare a capire quale uomo e quale mondo volta per volta pensa la tecnica nel suo manifestarsi — in cui la tecnica ha dato l’assalto al linguaggio, in cui il movimento espansivo della tecnica è arrivato — ineluttabilmente — a lambire e invadere lo spazio della parola. Oltrepassando questo limite — la parola digitale — cambia radicalmente anche la forma della tecnica. La macchinazione pensata e temuta come moltiplicazione vertiginosa di una complessità che diviene mostruosità [6] scompare — emerge sorprendentemente una tecnica semplificante — oggi si dice smart — che da mediazione diventa immediatezza. E solo con l’immediatezza la tecnica si fa reticolare, onnipervasiva, sincronica, globale — e senza peso. Accessibilità e velocità. Modellizzazione e conformità nella ripetizione — così si espande e accresce un nuova trasparenza fatta di standardizzazione, di somiglianza, di computabilità, di ripetizione dell’occorrenza, dell’uguale. La realtà è nelle occorrenze del motore di ricerca, la realtà è il calcolo delle ripetizioni di una parola-informazione entro la totalità del mondo on-line. La rete è il primo e fondamentale ambiente macchina globale. Il primo apparato meccanizzante che abbia incluso i suoi utilizzatori. Se nella catena di montaggio l’operaio era ancora funzionale alla macchina, nell’ambiente macchina — società globale — l’utente è nella macchina, per questo ormai da tempo non è più per lavorare che noi siamo in rete, ma per vivere, informarci, divertirci, comunicare, viaggiare, determinare chi siamo, qual è la nostra identità sociale… noi non usiamo la rete come si usa una macchina, noi siamo in rete come si vive in un ambiente. In questo senso Finkielkraut [7] scrive del passaggio dall’essere nel mondo all’essere davanti allo schermo, soffermandosi sulla differenza tra l’andare verso, attraversare, esplorare, portarci nel luogo degli avvenimenti, insito nel primo, e invece il venire presso di noi, l’immobilità in cui questi ci vengono portati, nel secondo. Tra uno e l’altro cadono innanzitutto queste due dimensioni: l’avventura e l’educazione. Perché ora che la realtà ci viene trasmessa e consegnata tra le mani, sulle dita, in diretta, cessa l’apprendimento come viaggio di scoperta, cade inevitabilmente la funzione dell’istituzione scuola e dell’insegnante come porta, come medium, affabulatore, narratore, come intermediario del mondo attraverso la letteratura e il sapere. Ora che accediamo al mondo attraverso lo schermo, l’insegnante è anzi l’ostacolo che si frappone, che disturba il nostro rapporto col “mondo” costringendoci addirittura a levare lo sguardo, obbligandoci a spegnere il “mondo” (il cellulare), a uscire dal “mondo”. Dove il “mondo” qui è chiaramente sinonimo dell’essere on-line e la scuola appartiene, anzi è quasi il simbolo dell’essere off-line. La dicotomia di partenza ora si traduce compiutamente in essere nel mondo oppure essere on-line.

Nella scelta di digitalizzare il linguaggio il processo di meccanizzazione della modernità ha fatto un salto — ora la soggettività della storia è dentro la storia della macchina. Attraverso la parola digitale la tecnica è diventata ambiente — ovvero rappresentazione del mondo (della tecnica). Quel mondo come impianto che la tecnica era riuscita ad ascrivere a sé, ora lo rappresenta e lo pone come mondo accessibile attraverso la tecnica. La propagazione del processo calcolante ora è inestinguibile e indistinguibile dalla globalità — totalità — del mondo. La sincronia è l’elemento chiave della totalità come spostamento del processo verso il piano temporale del linguaggio — quando il processo ha dovuto diventare sincronico allora ha aggredito e digitalizzato il linguaggio, computandolo e trasformandolo in informazione. Nello stesso momento si è decisa la direzione evolutiva della macchina da una parte come snodo di collegamento e reticolo, dall’altra come deposito di una duplicazione immateriale del reale.

Ora, con l’inaugurarsi di un nuovo ambiente globale, un nuovo linguaggio, che se è “casa dell’essere” lo è però come “ambiente di calcolo”, la modernità scende a un livello ancora più profondo rispetto alle dialettica delle sue stesse categorie identitarie — Occidente e Oriente, Occidente e non-Occidente — in uno spazio di totalità inedito, che oltrepassa lo spazio dell’Occidente e conduce la modernità stessa oltre le sue colonne d’Ercole, a sfociare in un mare dell’indifferenza, dove domina cioè una soggettività storica indifferente al nomos della storia, che non segue più il corso della logica storica ma la frantuma e la manipola, la indicizza, e insiste su un nuovo glossario concettuale tutto votato alla sincronicità o a-storicità. Non possiamo trascurare il fatto che la globalità non è più una dimensione astratta, ma virtuale. E che questo passaggio non è stato compiuto a livello teoretico o filosofico, ma tecnologico. Dove e a quale livello accadono le cose? Sul meridiano zero dell’essere, che è la parola numerica, il linguaggio macchina che ritraduce in sé la struttura dell’essere nel mondo. Così ruota il baricentro della storicità dell’esserci, fino a coincidere con l’istante, dove non solamente il passato prosciuga di senso, ma il futuro stesso si astrae, sfugge al raggiungimento, verso una dimensione apocalittica. Qui prende avvio quello “schizzo di una fenomenologia dell’età globale” che suggerivi, ma che necessita di una riflessione a sé stante.

In conclusione, tornando alla questione di partenza, rileggo la frase della Arendt e ribadisco il mio rifiuto: no, essere educati non significa essere liberati, approntati per “qualcosa d’imprevedibile”, significa essere formati, normati, disciplinati. Tale disciplina si apprende nel rispetto delle convenzioni e delle tradizioni, perché il punto su cui preme l’azione educativa è nell’uomo, ma ciò che preme e obbliga è estraneo all’uomo, è la forma del durare, la forza che nella tradizione ha piegato il bene in una forma concreta e storica. Solo così inizia la comprensione della forza della durata, della fedeltà, dell’uomo come storia che dura, e porta in sé, nel tempo — nelle generazioni, nei popoli, nei libri — una promessa. Allora il problema dell’educazione non è il mondo da cambiare, è l’uomo, ma non la sua capacità di rinnovarsi o di emanciparsi dai legami, di raddrizzarsi, bensì di piegarsi (!), disporsi a raccogliere qualcosa e cercare di non disperderlo, porgerlo ancora, qualcosa che egli riceve come eredità da chi è venuto prima e lascia in eredità a chi verrà dopo — l’uomo come fosse un’arca del ricordo, del passato. Solo rispetto a questo viaggiare, a questo “ricordo di casa” (Hölderlin) è possibile un giorno partire, slegarsi e fare la propria esperienza — avventura — del mondo. In questo senso credo che l’educazione non sia affatto o sia solo tardivamente questione pubblica e sociale, ma abbia a che fare innanzitutto con i luoghi del singolare, della persona — anima e coscienza — e il suo tentativo di diventare “migliore”. Tra quel senso di giustizia collettiva e questo di giustizia individuale secondo me c’è un abisso. Nel tuo articolo poni in relazione educazione-politica-tirannide. Per la giustizia nel mondo sfilano i cortei, si promuovono interventi e si istituiscono apparati di rappresentanza e di governo della cosiddetta res publica. Tuttavia ci accorgiamo che la dimensione educativa manca. Dov’è quello spazio — che è interiore ma è lo spazio meno privato al mondo, lo spazio del “Abramo dove sei?”, della domanda di Dio, è lo spazio in cui cade lo sguardo dell’altro e che io vedo rispecchiato sul volto dell’altro — che si chiama coscienza? Incredibili le parole di Benedetto XVI il giorno delle sue dimissioni: “Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio”. In questo spazio — da edificare volta per volta — si gioca tutta la capacità educativa del progetto umano, non come capacità di un agire educativo, ma di un ricevere e di un predisporre a ricevere — questo è l’impegno più politico a cui si possa attendere. E preservare quello spazio nella sua assoluta e fragile e rischiosa libertà — questo è il primo e l’unico impegno pubblico da assumere. È l’inizio ogni volta inedito e fecondo della storia dell’uomo che istituisce un legame fraterno col passato — in altri termini, spezzare il vincolo della sincronica totalità dell’essere — ascoltare e rispondere al Dire che precede il Detto, il Dire precedente, dei patriarchi, dei padri, il passato che dura non come vincolo ma come eredità. Lasciarsi dire, lasciarsi educare.


* W.G. Sebald. Austerlitz, p. 120, Adelphi, Milano, 2002.

[1] M. Baldino, Filosofia e tirannide, Kasparhauser, 21 novembre 2012.
[2] L. Strauss, Filosofia e Legge. Contributi per la comprensione di Maimonide e dei suoi predecessori, Giuntina, Firenze 2003, p. 131. Corsivi miei.
[3] S. Freud, L’interesse per la psicanalisi, pp. 84-85, Newton Compton, Roma 1995.
[4] Th. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, frammento n.16, Einaudi, Torino 1994.
[5] Cfr. I. Illich, I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Quodlibet, Macerata 2013, p. 199, ma anche Simone Weil, Quaderni vol. I, Adelphi, Milano 1982, pp. 138-139 e infine L’uomo è antiquato di Günther Anders, in particolare il vol 2, Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
[6] G. Anders, Noi, figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 2007, p. 55 e sgg..
[7] A. Finkielkraut, Un cuore intelligente, Adelphi, Milano 2011, pp. 102-103.



Maurizio Mercurio, La fabbrica del tempo (courtesy mauriziomercurio.weebly.com )




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