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Voce “Geofilosofia”
Wikipedia, l’enciclopedia libera. Proposta di rettifica 2*

di Marco Baldino


1 dicembre 2019


1. Sulla Geofilosofia — bisogna essere onesti — non c’è granché da dire. Il termine, il cui senso è esposto in Wikipedia, non designa un vero campo di studi; si tratta piuttosto di una semplice declinazione del postmoderno: diffida di tutto ciò che è stato acquisito fino a ieri. Dal piano della storia universale, che sembra non più in grado di fornire un criterio per orientarsi nella vita e nell’esistenza, si passa all’escavazione di certe storie locali, con quel loro sentore di muschio e di incantesimo, da dove si passa alla presa in carico di certi recessi diruti, che fanno da cassa di risonanza, da contorno tenebroso, a quelle storie. L’ancestrale, se così possiamo dire, prende il posto della chiarificazione razionale. In questo senso basterebbe rivolgersi alla letteratura romantica del XIX secolo.

2. Tuttavia qualche possibilità d’utilizzo c’è. Qualcuno ha definito la geofilosofia: un “pensiero relativo alla terra nell’epoca della globalizzazione”. Tale formula può essere accettata, ma solo se si intende il tema geofilosofico come l’accoglimento di una nuova fisiognomica dei luoghi a fronte della crescente connettività. Ora, tale “connettività” è resa possibile dalla rivoluzione tecnologica, dunque non ha senso opporre la geofilosofia alla tecnologia — con il che bisogna intendere non solo la rete, la telematica, l’intelligenza artificiale, ma anche la tecnologia dei materiali, i progressi della medicina e della farmacologia, la chimica, la metallurgia, l’ingegneria delle grandi costruzioni, e molto altro ancora. “Connettività”, infatti, è termine più adatto e ardito a guidare la comprensione della condizione contemporanea, che non l’abusato, e per certi versi aporetico, “globalizzazione”.

3. La globalizzazione civetta infatti con l’escatologia, si tratta una deriva teologica del filosofia del Regno, ovvero del discorso apocalittico dell’attesa in vista di un’imminente Apocalisse — nel doppio senso del termine, come piena rivelazione del Regno celeste e come catastrofe ultimativa, come fine del tempo e della storia propriamente detta. La connettività indica invece le reti telematiche e le infrastrutture materiali (i trafori, le gallerie, i ponti, le linee di navigazione, i porti, gli aeroporti, linee di volo, le pipeline, le linee elettriche), insomma, tutto ciò che connette luoghi a luoghi e che consente all’uomo, ai flussi di energia (incanalati dall’uomo), alle merci (prodotte dall’uomo), al denaro (che sorregge la creatività dell’uomo), di muoversi non in uno spazio indifferenziato, come sostengono erroneamente gli anti-globalisti, ma attraversando e connettendo quelle differenze che sono i nuovi luoghi: le nuove città-stato, i commonwealths (termine che si adatta assai meglio del tedesco Grossraum — la riunione dei vecchi stati-nazione, magari secondo la vetusta dottrina Monroe — a descrivere i nuovi agglomerati regionali come l’UE, la North American Union, la grande Cina); i multi-city cluster (per esempio la East Coast statunitense); le global cities come Hong Kong o Dubai, le smart cities, le suplly-chain, e via dicendo.

4. Certamente la geografia deve essere ripensata a fronte di una filosofia che ritiene di dover portare i luoghi al pensiero, purché questi, come suggerito, non debbano venir pensati in base alla categoria del radicamento all’essere, risolvendoli cioè in un’illusoria visione greco-arcaicizzante, filosofico-presocratica. Non la statica dimensione del radicamento all’Essere va portata al pensiero, ma le dinamiche geo-economiche, i collegamenti di intelligenza, insomma, si tratterebbe di sviluppare una geografia funzionale in chiave filosofica e non una poetica mitologica in chiave categoriale. Anche perché questa impostazione è già stata sperimentata. L’onto-storia di Heidegger è esattamente una cosa del genere, una geo-filosofia. E sappiamo fin troppo bene quali furono le tangenze e gli esiti che questa impostazione [1] portò con sé: il nazionalsocialismo da un lato e la negazionismo filosofico [2] delle responsabilità tedesche e italiane nell’annientamento degli ebrei dall’altro. Ed anche, ci si consenta, il romanticismo nordico, il germanismo nazionalistico e luterano e le dottrine gius-vitalistiche sviluppatesi tra la fine XIX secolo e i primi 30 anni del XX.

5. Se il termine italiano “geofilosofia” deriva contingentemente dal francese géophilosophie, bisogna però dire che, molto probabilmente, esso è un calco del tedesco Geopolitik, coniato dal geografo tedesco Karl Haushofer. Il conio non può essere pertanto attribuito ai filosofi francesi Gilles Deleuze e Félix Guattari [3], come suggerito da alcuni, e nemmeno è loro merito l’averlo utilizzato per primi, poiché compare già nel libro di Jean-François Lyotard, e forse non a caso, Heidegger e “gli ebrei”, del 1988, in un’accezione francamente negativa:
«Il caso Heidegger è un caso “francese”. Si può aborrire questa definizione, e io la detesto per quanto emana e contiene di geo-filosofico, e che tra l’altro ci viene, ci ritorna, attraverso Heidegger, dall’oscuramento attuale (e senza dubbio irrimediabile) dell’universalismo dei Lumi» [4].
Non solo, ma Lyotard utilizza il termine come un vocabolo usitato, privo di specifiche valenze innovative, semplicemente, possiamo ripetere: ritornante ai francesi attraverso quell’oscuramento dell’universalismo che Heidegger ha messo in moto.

6. Osservo en-passant che solo in un una prospettiva teologica si privilegia l’Essere, e non è un caso che l’heideggerismo si presenti come una ripresa in grande stile delle dottrine presocratiche, ossia di quelle dottrine nelle quali prepondera una visione teologica e religiosa [5]. Non solo Hegel e Nietzsche, ma anche la scienza moderna ha ormai chiarito che non è l’Essere ad essere fondamentale da un punto di vista ontologico, ma il divenire [6]. La carta dei territori, dei luoghi, non sarà allora quella mito-poietica delle patrie-matrie, delle terre natie, dei paesaggi, ma quella dei flussi di materia e di energia, delle infrastrutture connettive e delle connessioni di intelligenza, dei trasferimenti di denaro e, da ultimo, delle diaspore umane, che la ridisegnano.

7. La carta dei luoghi non sarà cioè quella fondata sul nomos della Terra [7], che oppone al carattere diasporico (Entortung) dell’esistenza, tipicamente ebraico, ma a ben vedere anche tardo antico (Völkerwanderung), la nozione greca di νόμοϛ, ossia della spartizione secondo le regole dell’appartenenza (nel doppio senso di: appartengo, mi appartiene; radicamento e possesso). Se sulla base di Schmitt è possibile declinare il rapporto tra diritto (Jus publicum) e abitare (ethos, che nella lingua di Heidegger diventa «il soggiornare» [8], ma anche la «lunga permanenza sul suolo»: Bodenständigkeit [9]), come ciò attraverso cui si esprimono la legge e il diritto, basterebbe ricordare che agli Ebrei è fatto oggi divieto di riterritorializzarsi (paradossale divieto a compiere e delegittimazione del fatto compiuto), per scorgere tutta la contraddittorietà di questo principio, così come utilizzato sia da Heidegger sia da Deleuze [10].

8. Dunque se la crisi del nomos è in qualche modo il prodromo di quel processo che ha travolto gli ordinamenti statali e nazionali, è invece del tutto fuorviante fare della geofilosofia qualcosa come un pensiero-denuncia della forza delocalizzatrice, estraniante e nichilistica della globalizzazione. Si tratta più semplicemente, o più acutamente, di cogliere l’emergenza di nuove differenze, nuove formazioni, e nuove creazioni suscitate dalla connettività, la quale va intesa come un destino. Tutto in effetti ha inizio nel III millennio a.C., quando le città-stato della Mesopotamia diedero vita ad un regolare commercio lunghe rotte che si estendevano fino all’Egitto e alla Persia e poi, nella prima metà del I millennio a.C., quando l’impero Achemenide venne a costituire lo snodo di una rete che si estendeva dall’Europa alla Cina. Quinidi più semplicemente o più acutamente la geofilosofia è la registrazione dello sviluppo di questo destino, e non l’aspirazione apocalittica al paradiso che viene. La geofilosofia, semmai questo termine ha un senso spendibile, è la registrazione della perseverante attività umana nell’infelicità storica. La geofilosofia, a ben vedere, è né più né meno che filosofia, ricerca sempre incompiuta di una saggia visione del presente.

* Geofilosofia, da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

[1] Vedi tutto il dibattito sui Quaderni neri. In particolare si vedano: E. Faye, Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie, Éditions Albin Michel, Paris 2005. (Trad. it., L’Asino d’Oro, 2012) e J.-L. Nancy, Banalité de Heidegger, Éditions Galilée, Paris 2015. (Trad. it., Cronopio, 2016).
[2] M. Heideggger, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), GA 97, Hrs. P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a.M. 2015.
[3] G. Deleuze, F. Guattari, Qu’est-ce que la philosphie?, Les Éditions de Minuit, Paris 1991. (Trad.. it. Einaudi, 1996).
[4] J.-F. Lyotard, Heidegger e gli ebrei, trad. di G. Scibilia, Feltrinelli Milano 1989, p. 13.
[5] Cfr. W. Jaeger, La teologia di primi pensatori greci, trad. di E. Pocar, La Nuova Italia, Firenze 1982.
[6] Cfr. I. Prigogine, «La fine delle certezze», in R. Benkirane, La teoria della complessità, trad. it. di A. Gusman, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
[7] Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra, ed. F. Volpi, Adelphi, Milano 1991.
[8] M. Heidegger, «Lettera sull’umanismo», in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 90.
[9] Cfr. ad es. M. Heidegger, Quaderni neri, 1931-1938. Riflessioni II-VI, trad. di A. Iadicicco, Bompiani, Milano 2016, passim. Ma il termine ricorre in molti luoghi dell’opera di Heidegger.
[10] Per quanto riguarda Deleuze, vedi Grandezza di Yasser Arafat, trad. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2002 e M. Baldino, «Dispositivo antisionismo», Kasparhauser, 23 settembre 2017.



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