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Austerlitz, ovvero il ritorno del passato
di Guido Cavalli

10 febbraio 2016


A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo
le leggi che regolano il ritorno del passato [1]


1.
Lo Zeitgeist ora avvertirebbe: questa è solo letteratura. Cosa significa il “ritorno del passato”? È solo un ossimoro, una figura retorica, un’immagine suggestiva, nella misura dell’approssimazione delle parole, di quell’oscillazione che, diceva Platone, è la menzogna della poesia. Il passato è passato. Possiamo impropriamente definire tale ciò che ancora ci riguarda e dovremmo nominare sotto le categorie del presente, ma consideriamola una forma di tributo, di rispetto, l’onore di pianti per chi ci ha lasciato. Se siamo rigorosi, però, c’è una inevitabile e opportuna selezione tra quello che ancora interessa, perché non è compiutamente passato ma ancora presente, ovvero influente sullo stato di cose attuale, e quello che è stato superato e oggi è solo oggetto di conservazione a futura memoria (ovvero: accantonamento delle cose inutili) oppure di studio per la comprensione dei processi storici, ovvero per cercare di prevenire gli infausti ricorsi della storia.

Ecco — proseguirebbe —, se l’intenzione è imparare dal passato, farne un’utile scuola degli errori e una monitoria galleria degli orrori, allora sì, bene, è educativa e anzi necessaria. Non dimenticare il passato perché il passato non si ripeta! Il passato non è, ma deve rimanere passato. Questo è l’impegno, etico ma realistico, che dobbiamo assumere collettivamente nei suoi confronti. Hiroshima e Nagasaki, Auschwitz e Bergen-Belsen, la Lubianka e Babij Yar. Che il male non si ripeta! Ciò che è stato non torni! Questa è la vera lezione del passato, l’impegno a cui riteniamo utile dedicare le nostre risorse morali, fino a quando non saremo certi che, lui annullato e noi interamente assolti, potremo considerarlo non solo passato, ma finito per sempre. Che il passato, quale testimonianza dei nostri errori, passi per sempre e finalmente scompaia, ecco il nostro auspicio e l’unica ragione d’essere che siamo disposti a riconoscergli ancora, adempiendo fino in fondo la nostra intima convinzione che da se stesso e non da altri, e tantomeno da antenati e patriarchi, l’uomo ormai possa imparare ciò che gli è necessario.

Conoscere il passato per annullarlo, per farlo passare — finire — per sempre. Se il male accaduto è incancellabile, almeno facciamo in modo che sia definitivamente estinto. Parlarne in altri termini, nella migliore delle ipotesi, è prosa filosofica. Più verosimilmente, propaganda. Quante volte accanto alle belle parole sul valore delle cose che non ci sono più, alla nostalgia dell’età dell’oro, si nascondono forme di conservatorismo, di restaurazione, di freno al cambiamento, al miglioramento dello stato delle cose, a favore invece della preservazione dello status quo, dei suoi privilegi e delle sue diseguaglianze, delle forme di controllo e di potere che si annidano in tutto ciò che è fisso, regolato, immutabile? La finitezza e la storicità di ogni fenomeno, di ogni esperienza, di ogni teoria di cui siamo finalmente consapevoli, ci ha insegnato che se è relativa la nostra autorità, quanto credito e valore possiamo attribuire a qualsiasi altra autorità esterna alla nostra, e per di più superata dallo stato attuale delle cose?

Dunque il passato è il primo nemico dell’uomo moderno (e di certo il convitato più sgradito per quello post-moderno). L’uomo legato al passato sarà sempre troppo debole e incapace di portare a termine quel progetto di emancipazione, di consapevole autodeterminazione, di ricerca della felicità e della libertà quale sua condizione necessaria. L’ultima, e straziante, assoluta, delle nostre utopie...
… cominciò tra di noi, disse Austerlitz, una lunga conversazione sul progressivo atrofizzarsi della nostra capacità mnemonica, che va di pari passo con il proliferare dell’informazione, e sul naufragio già in corso, l’effondrement, come si espresse Lemoine, della Bibliothéque Nationale. Il nuovo edificio della biblioteca, che, per il suo intero impianto nonché per il regolamento interno ai limiti dell’assurdo tende ad escludere il lettore quale potenziale nemico, è quasi — così sosteneva Lemoine, disse Austerlitz — la manifestazione ufficiale del bisogno, che si annuncia sempre più impellente, di farla finita con tutto quanto abbia ancora un nesso vitale con il passato. [2]
Ecco, persino la nostra opera di archiviazione, di catalogazione e ora di digitalizzazione ovvero ricalcolo perfetto del passato in termini acronici, atemporali, è in realtà parte di quest’opera di negazione sistematica e deliberata del passato. Un oggetto, una pagina, una parola, un’opera sulla quale non passerà più il tempo — e dunque finalmente non ci dirà più nulla del tempo stesso. [3]

Dunque, viviamo un tempo che si è completamente attualizzato, che si è fatto completamente presente. Esito di un lungo processo storico, filosofico, sociale, politico e psicologico, viviamo un tempo che non sa più cosa farsene del passato. Per noi il passato è qualcosa che semplicemente non ha più alcun senso. Perché abbiamo spezzato il nostro legame col passato. Ne abbiamo intuito il legame profondo con tutto il dominio dell’autorità, e lo abbiamo dissacrato. Abbiamo costruito allora un muro irrevocabile che impedisce al passato di toccarci. Noi abbiamo chiuso col passato, con passato intendendo tutto ciò che mette in questione la totalità e la sincronia del presente.

Nel dominio sincronico dell’essere a cui apparteniamo — finché essere e tempo non congiungeremo in una sola parola — il passato è un prologo per il quale valgono le stesse cause e le stesse leggi che regolano il presente e il futuro, qualcosa dunque che forse è necessario dal punto di vista dialettico, ma ormai consumato e superato da quello logico e metafisico.

Così lo spazio della totalità prosciuga di durata. Diventa spazio di calcolo, ovvero di pura neutralità. E l’idea di caso si innesta silenziosamente ma profondamente nella nostra percezione del mondo, e svuota il passato perché trasforma il presente in una totalità prospettica, pragmatica, epistemologica, dualismo di senso e insensato nel quale il passato è qualcosa da comprendere solo come anticipazione del presente o da rifiutare come fallimento del possibile, mai da accettare come eredità e come radice.

Con queste lenti, capaci di vedere tutto sotto la specie del più assoluto realismo, ci attrezziamo quando indaghiamo il significato del passato per “comprenderlo”, ovvero tradurlo alle esigenze del presente, e al limite certificarne l’assurdità, perché ciò che si è rivelato insensato non abbia più nemmeno l’apparenza del significato. Così noi assumiamo ovvero annulliamo il senso del passato — e la nostra “memoria” diventa opera attiva di oblio.
Perfino adesso che sto cercando di ricordare, che ho ripreso in mano la pianta granchiforme di Breendonk e nella didascalia leggo le parole Ex ufficio, Tipografia, Baracche, Sala Jaques Ochs, Cella d’isolamento, Obitorio, Reliquario e Museo, l’oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di quante cose cadono costantemente nell’oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno. [4]
2.
Tuttavia: estinto il passato, emancipati dalle favole degli antichi e da ogni supremazia anteriore, il nostro incedere non sembra più leggero né più rapido. In effetti, ad un certo punto di questa strada dritta ci siamo clamorosamente perduti. Né quello che abbiamo alle spalle, né quello che abbiamo davanti, ci sembrano famigliari. Sembrano, anzi, vagamente minacciosi. Ed ora, mentre il passato si è cristallizzato dietro di noi, e di ora in ora si allontana, si richiude in se stesso, anche il futuro sembra sfuggire, arretrare al di là dell’orizzonte. Proprio adesso, in questo tempo che abbiamo liberato da ogni obbligo, appianato da ogni ostacolo e eradicato da ogni inciampo, siamo come sospesi, qualcosa ci trattiene.

Come un cane alla catena si slancia in avanti, verso il vuoto, inconsapevole che alle spalle, e non davanti a lui, qualcosa lo lega e lo determina, impone il suo limite, la misura della possibilità dell’incedere. Così abbiamo fatto del passato, rifiutandolo, un apriori impossibile da superare. Un retro pensiero, inaggirabile e tuttavia negativo. Perché è impossibile ricordare qualcosa non per chiamarlo a sé ma per tenerlo lontano. Ricordare qualcosa perché non accada di nuovo, tenerlo presente nella memoria perché non sia più presente tra noi, ricordare ciò che non siamo e non vogliamo. Anno dopo anno questa diventa un’opera di astrazione sempre meno intelligibile e chiara, quasi sovrumana, e dappertutto cresce l’ombra deforme di un’inutile retorica, d’uno strano ossimoro: una memoria muta, piena di reliquie spente, la memoria del mai più, del non, del niente. Non diventa, così, la memoria, essa stessa una quintessenza nociva e velenosa? Se la memoria di cui ci occupiamo assomiglia a una reliquia, un essiccato che vorrebbe conservare astrattamente e indefinitamente qualcosa del passato, spesso nella forma deformata dell’orrore, del dolore, del mostruoso e dell’indicibile, allora la forma che qui assume il passato non è essa stessa solamente esteriorità, deformità, e dunque, inevitabilmente, estraneità anche con chi ne è destinatario? Quale nutrimento può essere la memoria del male? Chi vorrebbe continuare a inoculare in sé un veleno? Che il passato insegni a non essere, anziché a essere, non è forse questa la condanna che abbiamo inflitto al passato che ora si riversa su di noi? E viceversa, non c’era nulla che avremmo potuto ricordare perché doveva essere tenuto vivo, a cui ora potremmo attingere per vivere, perché vitale, perché ci dà forza per essere vivi? È ancora possibile una memoria come radice che riesce a scendere nel passato per trarre linfa, per nutrirci?

Tutta la nostra retorica sul passato e tutta la nostra ansia di liberarci dal passato assumono adesso un aspetto ambiguo, uno strano delirio di impotenza. Siamo sempre più strettamente avvinti a una catena immaginaria, a un incantesimo in cui possibile e futuro si confondono, si annullano a vicenda.

Si fa strada in noi il dubbio che finché non riannoderemo il legame col passato, non riprenderemo il discorso del passato, noi non ce ne andremo da qui.

Il pensiero di Heidegger ha intuito un legame molto più complesso, in cui il tempo dell’accadere e il tempo presente non sempre coincidono, anzi talvolta il presente è il già accaduto e l’accadere è il durare ancora.

Il punto non è ricordare qualcosa di perduto, riproporre un senso, il simulacro di qualcosa di trascorso, ma essere traduttori, portatori del passato, non celebrare, innalzare fuori dal tempo, cristallizzare, ma ripetere, riprendere, ridare voce, luogo e tempo a ciò che è stato. Ma cosa significa? Una volta avvenuto il distacco, nessuna memoria ci può ricondurre al passato. Noi cerchiamo di trasmettere la memoria del passato, ma ciò che si trasmette è quello che noi siamo, ciò in cui crediamo, ovvero ancora la forma del nostro presente. Il problema è che il passato (che diciamo di voler trasmettere) non è più in noi, e dunque non passerà mai a chi viene dopo di noi. La chiusa che ferma la corrente del tempo siamo noi e nessuna buona intenzione può rimediare a questo stato di cose. Il limite di queste buone intenzioni educative è, da una parte, con il feticcio della consapevolezza, il fatto che ci limitiamo a prescrivere anziché educare: ovvero a dare “strumenti” nelle mani dei ragazzi anziché arare il loro campo, segnandolo di solchi e poi seminandolo con le nostre mani… e dall’altra che noi stessi non siamo coltivati, ma ci limitiamo a essere dei latori di messaggi e strumenti. Siamo nella migliore delle ipotesi, coloro che veicolano dei messaggi e delle informazioni, ma non siamo i messaggi, e per questo ci limitiamo a mostrare i messaggi ma non a passarli oltre, attraverso.
Tutti i momenti della nostra vita mi sembrano allora raccolti in un solo spazio, proprio come se ciò che accadrà in futuro esistesse già e aspettasse soltanto il nostro arrivo, così come noi, a seguito di un invito accettato in precedenza, arriviamo in una certa casa in una certa ora. E non potremmo immaginare, proseguì Austerlitz, di avere appuntamenti anche nel passato, in ciò che è già avvenuto e in gran parte scomparso, e di dover cercare proprio nel passato luoghi e persone che, quasi al di là del tempo, hanno con noi un rapporto? [5]
È inutile indulgere, se noi non ritorniamo ad un rapporto vivo con il passato, a ritrovarci vivi in lui, forse faremmo meglio a bandire qualsiasi stucchevole balletto della retorica e della morale sul valore del passato. Sarebbe meglio la censura definitiva. Proibire la memoria. Altrimenti, dobbiamo ritrovare la possibilità di essere fedeli al passato, ovvero essere fedeli alle sue parole. E dunque interrogarci: quali sono le parole del nostro passato? A quali siamo rimasti fedeli? Possiamo credere ancora a una possibilità di bellezza — essere tradizione noi stessi, essere noi quelli che proseguono, danno profondità, fanno avvenire? Per avere radice e memoria di radice bisogna riconoscere che qualcosa ci lega, ci precede e ci predice, ci insegna e ci assegna — bisogna rinunciare a quell’ultima utopia.

Dobbiamo innanzitutto ricrederci, e credere al passato. Avere la forza di dire che il passato ci precede, ovvero ci annuncia. Guardare al passato per osservare ciò che prescinde dal presente della fattualità umana, dalla sua volontà, dalla totalità del suo discorso, ciò che lo anticipa e lo accompagna, lo contiene come gli argini contengono lo scorrere di un fiume. Il passato non è ciò che è abbiamo fatto o ciò che è accaduto ieri, ma ciò che rimane in ogni momento come limite al senso del nostro essere qui. Osservare ciò che ci contiene e ciò che rimane oltre il nostro essere qui.
In seguito, disse Veĕra, ho percorso parecchie volte la strada che porta a HoleŠovice, sino al parco Stromovka e alla fiera campionaria, ed ero solita entrare nel Lapidarium, che fu costruito negli anni Sessanta, dove rimanevo per ore a guardare i campioni di roccia nelle teche, i cristalli di pirite, la malachite siberiana verde scuro, la mica, il granito, e il quarzo boemi, i basalti neri come pece, il calcare color isabella, e mi domandavo su quale fondamento si erga il nostro mondo. [6]
C’è qualcosa che nel passato ci precede sempre, precede la nostra comprensione e rimane incomprensibile perché ci precede — per questo lo riconosciamo facilmente nell’assurdo, nell’inaccettabile o nella rovina, ma è lo stesso anche nel monumento o nel ricordo o nella celebrazione. Anche ciò che ricordiamo o festeggiamo è in quanto passato qualcosa che si festeggia, si ricorda, e che ci ricorda a sua volta ciò che siamo oggi.

Forse allora, ciò che dura potrebbe essere anche ciò che rimane. Ma non come passato che non passa, che inspessisce e ostruisce il nostro passare oltre. Anzi. Il passato sarebbe ciò che dura poiché è ciò che continua a passare, ad andare oltre. Spesso Heidegger scrive: il passato è ciò che rimane in serbo, ovvero che continua ad accadere in modo inapparente, che decide ciò che ancora deve avvenire. Il passato è ciò che deve avvenire, ciò che non finisce, semmai / continuamente rifluisce sul presente / e lo riprende [7] — mentre l’idea di un futuro sradicato e vuoto implica da una parte un’incomprensione del vincolo del passato, e dall’altra un’astrazione, una cristallizzazione del senso che paralizza, esaurisce e prosciuga — l’Apocalittica di un Aldilà visionario, sospeso sulle macerie dell’Aldiquà. [8] È solo nel passato che si va oltre ed è il nostro essere rimasti senza passato ciò che frena. Il passato è ciò che rimane presente ma nel passare. Solo ciò che è stato un tempo presente è passato, mentre ciò che non lo è mai stato è indifferente al tempo. Ciò che non passa, invece, è proprio quel presente che non ha passato, che non sa passare, in cui siamo noi, noi che ci siamo chiamati fuori, che abbiamo reciso il legame col passare. Il presente inteso come ciò che è slegato dal passato. Se non meditiamo questa figura rischiamo o di credere ancora — come fu nei mostruosi umanesimi del secolo breve — di essere noi a stare in piedi, in mezzo alla storia, ritti sulle nostre gambe, a decidere, a dare valore e senso, a dare la misura alle cose, e allora tutto torna dialettica e storicismo, oppure cadiamo in quell’indifferenza in cui tutto è già deciso nella dimensione anonima dell’essere. Invece c’è una scelta,
… come se gli anni che ci siamo lasciati alle spalle fossero ancora nel futuro [9]
inteso come un luogo aperto ma inscritto nella storia dell’essere, quell’esserci heideggeriano che è, volenti o nolenti, la svolta del pensiero, e proprio in quello spazio, dove noi siamo proiettati ma siamo anche ricevuti, proprio lì, riannodando il legame col passato noi riusciamo a reimmetterci, a riprendere il cammino nel corso (nel senso) del tempo, proprio accettando di ricevere, accettando di essere educati — perché è inutile parlare di educazione senza parlare di riconoscenza, di obbedienza e di sequela, ovvero senza il gesto del ricevere e del seguire l’impronta che educa, che poi da obbedienza diventa alleanza se ci disponiamo a porgere a nostra volta, passare oltre attraverso di noi — ovvero disponendoci ad apprendere il senso della tradizione, che non è il ricettacolo del folklore e del vecchio, ma anzi è l’arca dell’uomo nel tempo, grazie alla quale noi possiamo stare nel tempo e senza la quale siamo invece immobilizzati, arenati al di fuori dal tempo (dell’essere). [10]

Si passa oltre se si è immessi in ciò che trapassa, scorre da prima, in avanti (il passato) ‘ portati, sostenuti da ciò che trattiene il senso di ciò che è stato, e lo verifica come responsabilità, eredità, speranza per affrontare ciò che può ancora avvenire (la tradizione).
Pensare veramente la storia, cioè quel che è rimasto non accaduto, e continuando a richiudersi infine ci è sembrato che non sia accaduto mai. [11]

[1] W.G. Sebald, Austerlitz, trad. it. di Ada Vigliani, Adelphi, Milano 2002, p. 199
[2] Ivi, p. 302.
[3] Una cosa di cui il passato non abbia ripreso in sé almeno una parte, cancellandola, sbiadendola, frantumandola, mostra di non avere affrontato seriamente la prova della verità al cospetto del tempo, di non aver sacrificato nulla in cambio della parte di vero posseduta, di non essere un oggetto di valore se nulla del proprio valore è stato reclamato e ottenuto dal tempo in cambio della sua esistenza. Solo ciò che è rimasto nel tempo può allontanarsi da noi e sembrare avvicinarsi alla voce che proviene, a ciò che rimane da dire, a ciò che ancora attendiamo ci venga mostrato e rivelato.
[4] W.G. Sebald, Op. cit., p. 31.
[5] Ivi, p. 274.
[6] Ivi, p. 194.
[7] G. Cavalli, Piccolo canzoniere selvatico, Manni editori, Lecce 2005, p. 23.
[8] E in fondo tutto questo non è ancora una parafrasi della questione della salvezza ebraica? Cfr. H.U. von Balthasar, Dialogo solitario. Martin Buber e il cristianesimo, trad. it. di P. Tomasi, Jaca Book, Milano 2006, p. 78.
[9] W.G. Sebald, Op. cit., p. 120.
[10] L’essenzialità dell’opera d’arte (la sua capacità di dire il vero) è tutta in questo confronto con il tempo (dell’essere), in quanto coerentemente l’opera sia in grado di rappresentare il senso del proprio tempo – di pensare il tempo (dell’essere) ovvero rappresentare il senso del proprio tempo. Austerlitz, nella messa in opera della sua verità (nella forma, nella voce, nel dire e nel detto del suo linguaggio), ne è una compiuta rappresentazione.
[11] M. Heidegger, Quaderni neri 1931-1938. Riflessioni II-VI, a cura di Alessandra Iadicicco, Bompiani, Milano 2015, § 27, p. 18.





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