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La lingua ospitale e l’etica dell’attraversamento
di Jessica Cardaioli


9 aprile 2015


…perché un uomo che parla due lingue non ha due anime;
ha solo un’anima più grande.


Vorremmo sancire l’eticità della traduzione riconoscendola come un’etica dell’ospitalità. Il ruolo dell’altro garantisce l’onestà del traduttore, la loro distanza linguistica permette la possibilità stessa della traduzione. Nel concetto di ospitalità questo rapporto può essere ancor meglio esemplificato, e soprattutto in quella linguistica, a cui spetta, se accolta nella sua pienezza, di aprire alla comprensione di tutte le altre. L’alterità con cui la traduzione ha a che fare è estranea, ma ha in sé qualcosa di potenzialmente familiare; nel momento del riconoscimento questi due sentori, di estraneità e appartenenza, si compenetrano entrambi. L’altro, nella mediazione della traduzione non è mai un totalmente estraneo, nemico o rivale, altrimenti non susciterebbe il nostro desiderio di tradurlo. Se si esce dall’ottica dell’incontro che avviene nel riconoscimento reciproco, si va verso lo scontro, in cui domina la diffidenza e la perversione del rapporto. In questo caso l’altro-estraneo è un muro contro cui la propria parola rimbalza sempre uguale, non un orecchio a cui la si possa affidare senza che questo contatto la depauperi o, peggio ancora, l’annienti. Lo straniero che parla un’altra lingua, è il simbolo per eccellenza dell’incomprensione, degli ostacoli nella comunicazione, che si paralizza se non trova i presupposti per un discorso condiviso (così per i Greci, i Barbari erano gli esclusi dalla loro comunità, gli incivili che balbettavano suoni senza senso). Ma la condivisione si schiude appena al di là della soglia del linguaggio. L’alterità è tale che quasi impedisce al soggetto, che si presuppone padrone di sé, di potersi chiudere nella propria quiete. Anche l’entrare in un posto nuovo ci fa provare sempre un’indefinibile inquietudine, a cui segue subito quel lento lavoro di addomesticamento che permette di acquisire un’inedita familiarità: questa succede allo stupore provocato dall’irruzione del diverso. Il pensiero è una potenza ricreatrice atta a rendere abitabile per noi il mondo: lo illumina, lo nomina. Lo stupore è una sorta di smarrimento che però dura il tempo giusto per indirizzarci al passo del familiare, scoprendo altri guadi, altre orme che conducano all’addomesticamento dell’estraneo e alla estraneazione del proprio.

La coscienza della familiarità originaria è data dalla terra natia, che non sarebbe niente senza la lingua. «Se si fa ritorno da un paese straniero, dove si parla una lingua diversa, l’incontro improvviso con la propria lingua materna suscita un vero e proprio sconcerto, ed è infatti il complesso di tutto ciò che ci è familiare, gli usi, i costumi e il mondo abituale, quello che echeggia dai suoni della propria lingua. […] Ma in effetti la patria è soprattutto la patria linguistica». [1] Allora tutte le altre lingue risulteranno sempre estranee? Certo che no. Un uomo può imparare anche altre lingue e impararle così bene che alla fine sarà a casa anche in queste. Il punto è che spetta a ognuno trovare quell’equilibrio tra appartenenza ed estraneità che gli è proprio: ogni individuo, in particolare nel mondo di oggi, è libero di scegliere a quante patrie appartenere, quante lingue parlare. Di base resta il fatto che l’esserci comporta per l’uomo il compito continuo e originario di superare l’estraneità, urtando contro i muri dell’effettività ed è il dialogo che comincia a dare i contorni dell’intesa intorno al mondo, tra le persone, a restituire il senso di un’appartenenza, poiché parlare ha il proprio senso solo là dove l’uno si avvicina all’altro per assicurarsi dell’esperire comune. Quello che bisogna capire è cosa significhi per l’uomo contemporaneo questo comune. Secondo noi, è lo spazio in cui ogni soggettività polilogica può aprirsi all’altra, dando e offrendo ospitalità.

Tengo ora proprio a precisare questo termine che ci pone di fronte una curiosa ambivalenza. Chi è effettivamente l’ospite? L’ospite è oltre se stesso sia nel suo essere a casa, presso se stesso, sia nel suo essere in viaggio. Egli non trascende le opposizioni, bensì le attraversa. L’ospite è per eccellenza lo straniero e il familiare. Nelle relazioni tra persone diverse (cioè sempre) con le diversità linguistiche, etniche, culturali, d’età, religiose, in ognuno di questi casi, le due parti si ospitano reciprocamente. Nel concetto di ospite ritroviamo così quella bidirezionalità del riconoscimento: al passivo (colui che è ospitato) e all’attivo (colui che ospita) sono entrambi ospiti. La parola “ospite” indica sia chi dà ospitalità (un ospite premuroso) sia, più comunemente, chi la riceve (un ospite gradito). Essa deriva dal latino hospes dove ha già il doppio significato di colui che ospita e quindi albergatore e di colui che è ospitato e quindi forestiero. L’etimologia di questo termine risulta spesso incerta nei più comuni dizionari della lingua italiana e, se vengono date delle spiegazioni, esse risultano parziali e non rispondono pienamente alla nostra domanda. Hospes in origine è dunque il padrone di casa che dà ospitalità al forestiero. Ma i rapporti che si istauravano tra chi accoglieva e chi era accolto erano così stretti (legati anche al fatto che chi era ospitato si impegnava a sua volta a ricambiare l’ospitalità) che, sin dai tempi più antichi, hospes ha indicato anche la persona accolta in casa d’altri. La reciprocità del patto di ospitalità è dunque all’origine del doppio significato della parola ospite. I ruoli dicotomici, se non vengono proprio sospesi in rapporto all’ospite, vengono almeno posti in secondo piano. L’ospite attraversa gli ingressi e le uscite. L’ospite accolto e quello che lo accoglie sembrano diventare entrambi compartecipi in ugual misura delle rispettive esistenze.

Accogliere l’altro che viene, farsi abitare dall’altro custodendolo e rispondendone, persino nella sua eccentricità e stravaganza, è, a ben vedere, non solo l’imperativo di un’etica da riformulare nel confronto con il problema dell’alterità, ma anche l’ethos stesso della traduzione, il luogo ospitale che si offre alla venuta di un’alterità che irrompe nell’evento incondizionato dell’altro. Quale risposta dare allora alla venuta dell’altro che parla un’altra lingua? La questione dell’altro è davvero semplicemente un problema, o è anche e soprattutto una domanda che l’altro rappresenta esso stesso e che mi pone, rimettendomi in questione? Nel momento in cui la tradizione si radica sempre più, senza essere esposta al rischio di un ripensamento, e diviene abitudine acritica e automatica, allora perde il suo carattere etico per eccellenza, che è quello di poter essere ospitale: tanto più è consapevole di sé, tanto più potrà essere accogliente con l’altro venuto da lontano. Lo straniero fa domande, ribalta situazioni ormai date per scontate, stupisce chi lo accoglie, scuote la sua tranquilla routine. Soprattutto interpellandolo in un’altra lingua, pone in questione la lingua “materna”, riaprendo la sua identità a nuove possibilità di ascolto e di comprensione. «La pretesa di autosufficienza, il rifiuto della mediazione dello straniero hanno segretamente nutrito numerosi etnocentrismi linguistici e, ancor più gravemente, numerose pretese i egemonia culturale come si è potuto osservare nel caso del Latino, dalla Tarda Antichità al Medioevo e persino al di là del Rinascimento, e anche nel caso del francese dell’età classica e dell’anglo-americano nei nostri giorni. Ho utilizzato, come in psicanalisi, il termine di “resistenza” per esprimere questo rifiuto subdolo della prova dello straniero da parte della lingua di accoglienza». [2] Non meno resistente può risultare la lingua dello straniero, che il traduttore si ritrova a più riprese a sollecitare, a diversi livelli della sua impresa, contro la supposizione della sua non traducibilità, «come se nell’emozione iniziale, nell’angoscia talvolta di cominciare, il testo straniero si ergesse come una massa inerte resistente alla traduzione». [3] Ma è questa resistenza da entrambe le parti a non diventare l’una identica all’altra che rende possibile il mantenere quella distanza che abbiamo visto essere l’elemento chiave di un lavoro di traduzione eticamente corretto.

Anche l’ospitalità si basa su questa stessa distanza. L’invito, l’accoglienza, l’asilo, il dare alloggio passano attraverso la lingua e il rivolgersi all’altro, più estraneo tanto meglio. Il luogo dell’ospitalità è lo stesso della traduzione; esso non appartiene né all’ospite, né all’ospitato, ma al gesto con cui l’uno accoglie l’altro. “Dove?” è la domanda tipica di un uomo in cammino, che svela come essenziale il rapporto con il luogo e il non-luogo, con la dimora e l’erranza senza tetto, insomma l’utopia dello spazio aperto che inaugura la traduzione a partire dal luogo dell’altro, dall’esilio necessario del sé come un altro. Così anche il tempo sorge dall’essere in due o, meglio, l’avvenire è postulato in quanto ci viene dall’altro, ciò che desta stupore, che è stra-ordinario. La pluralità del linguaggio non aumenta la distanza ma la rende misurabile nell’atto stesso di tradurre, che è un atto altamente responsabile; così la prova dello straniero e lo spaesamento che il linguaggio può produrre in noi per bocca sua, costituiscono la sfida dalla quale scaturisce l’ospitalità linguistica. «Il linguaggio ci getta fuori di noi, fuori, verso le cose; ci affida al reale, ci lancia nella battaglia delle parole, dove bisogna pagare di persona, se non volgiamo accontentarci delle parole. […] Sì, il linguaggio ci estrania e forse diventa necessario consentire a perdersi, a lanciarsi nell’oceano delle parole, ove non si intravede una sponda, per prendere coscienza della nostra reale situazione umana e del significato reale del linguaggio. Prendere coscienza di sé non è ritrovare un porto tranquillo dove coltivare in pace il proprio io, è esporsi e affidarsi alla contestazione perpetua degli altri uomini. Ma accettando senza illusioni e nella piena lucidità di giocare la nostra vita di uomini nel e attraverso il linguaggio, noi accettiamo che la cultura sia comunitaria e che essa sia perciò stesso esposta alla possibilità di essere sempre messa in questione. Ma proprio perché il linguaggio rimanda alla nostra coscienza e alla nostra responsabilità, esso sarà quello che noi lo faremo diventare, e noi saremo ciò che diremo. Custodiamo dunque dentro di noi con la cura che si riserva alle cose più preziose l’insegnamento di Platone: “Le nostre parole sono le vie della speranza». [4]

Ad onta del carattere conflittuale che rende drammatico il compito del traduttore, questi potrà trovare la sua realizzazione quindi nell’ospitalità linguistica. Il suo lavoro è quello di una corrispondenza senza adeguazione, una condizione fragile che non ammette verifiche assolute, ma solo in un lavoro di ritraduzione. Così come nell’atto di raccontare si può raccontare altrimenti, nel tradurre si può tradurre altrimenti, senza sperare di colmare lo scarto fra equivalenza e adeguazione totale.

Se parlare significa sempre tradurre, anche quando parliamo con noi stessi possiamo scoprire le tracce degli altri in noi stessi, nello sforzo e desiderio di esistere, che è desiderio di comprensione dell’altro. Il nodo essenziale della nostra esistenza e della nostra ricerca d’identità passa per un lavoro enorme e mai definitivo di traduzione e di traduzioni, di ogni sorta di traduzione, che coincide con la storia delle nostre vite, con la rete infinita delle nostre azioni e passioni, con il lavoro del lutto e della memoria che tale opera esige, con le sue sfide sempre rinnovate e con la felicità che essa ha il potere di accordarci nelle pause del nostro cammino. Un’etica della traduzione non può che essere strutturalmente provvisoria perché si elabora da un processo mai compiuto di universalizzazione del concreto, attraverso la comparazione dialogica di valori religiosi, culturali, giuridici e politici. Proponiamo dunque il dialogo, la narrazione e la riformulazione reciproca fra le culture come via mediana fra dogmatismo e relativismo, nel rispetto più alto che si può avere per l’altro che mi parla e che mi racconta. Rifiutando il primato culturale dell’Occidente, possiamo riformulare così le nostre categorie nella prospettiva “polilogica” di chi cerca soluzioni con ragionevolezza, mediando fra la molteplicità delle risposte, con l’attitudine cioè di chi ha preso coscienza che l’altro c’è, e che «questa non è un’invenzione della volontà di potenza la quale trova anzi qui il proprio limite. Il linguaggio vuol dire l’altro. Il linguaggio vuole risposte». [5] La potenzialità nella pluralità delle lingue permette di sviluppare questa attitudine traduttiva, esperienza ermeneutica fondamentale che apre la strada a tutte le altre traduzioni. Ecco perché la traduzione, che educa ad assumere un nuovo comportamento perché fa propria la responsabilità dell’altro, ha molti più vantaggi dei supersistemi delle grandi narrazioni moderne. Entro una logica di traduzione risiede il senso del potersi trasportare altrove, del trasferirsi, del traslocare. Perciò vivere la propria cultura nella consapevolezza di poter rendere sempre possibile tale trasmigrazione spingerebbe le comunità umane a costruire ponti (da quelli semantici, a quelli geografici e temporali il passo è breve) sulle fratture che le differenze, male interpretate, fanno sorgere, oltre i loro muri.

La traduzione, nel portare pienamente a coscienza l’importanza dell’altro per il Sé, non può essere che il migliore allenamento disponibile per ben disporsi agli attriti dovuti alla presenza dell’altro, di un altro che parla un’altra lingua, che guarda il mondo con altri occhi, che crede ad altri miti. La traduzione, non a caso, è anche la prassi che interviene ad ogni tappa dell’esperienza migratoria, ponendo il soggetto migrante fin dall’inizio nel ruolo di mediatore culturale di se stesso. In riferimento all’esperienza del dispatrio, è evidente questa relazione polare che si stabilisce nel processo di migrazione tra il paese di appartenenza e il paese di arrivo. Catapultato in un sistema nuovo, il migrante inizia ad assorbirne la sostanza, senza che avvenga una sostituzione netta tra un mondo e un altro, ma le sue forze sono tutte protese alla formazione di un secondo polo culturale. Il risultato finale diviene una forma di polarità che investe quasi ogni aspetto dell’esistenza, come se per poter esistere pienamente occorre lasciar fluire corrente tra i due poli. [6] L’esperienza linguistica di un’altra lingua a partire dal dispatrio si configura come relazione continua e polare tra le lingue, processo di continuo passaggio da una lingua all’altra, operazione di continua auto-traduzione (self translation), traduzione continua di due mondi concettuali e affettivi diversi, quello della lingua di origine e quello della lingua appresa che possono non scoprirsi poi così distanti. Trasportando tra le lingue anche la propria storia, il proprio corpo, confondendo i codici, incapace ormai di tenerli disgiunti, il migrante cerca nella contaminazione linguistica le parole ed i luoghi per far risuonare la propria atopia e distanza da ogni senso irrigidito. E lo stacco dalla lingua materna porta ad una comprensione diversa di questa: «Il fatto — secondo Meneghello — di essermi staccato dalla mia lingua materna mi aveva fornito lo slancio necessario per impadronirmi di una lingua straniera. Dell’apprendimento delle lingue, quel che conta di più non è ciò che si impara, il fatto decisivo è che si abbandono la propria. Solo così, in seguito, la si comprende a fondo… è solo lasciando una cosa che la nominiamo». [7] Più una lingua si apre a ciò che non è, più ha accesso ad una comprensione profonda di se stessa. Una lingua vive oltre che di un pluralismo interno, anche di una relazione con le altre lingue. È però nell’incontro di lingue diverse che soprattutto si sviluppa la coscienza linguistica: è possibile vedere una lingua sempre soltanto alla luce di un’altra lingua. Come dire che le lingue emergono dalla loro reciproca traduzione, una ad una, e anche assieme, necessariamente interconnesse. Ogni lingua si espone nella traduzione ad un lavorio tra ripiegamento ed esposizione che crea incessante movimento. La logica della traduzione non è la logica dell’equivalenza, né quella della semplice sostituzione ma dell’alterità, della complementarità. È per questo che nella traduzione non si dà appropriazione, ma compensazione. In effetti il traduttore, come afferma Ricoeur riprendendo Berman, forza la lingua da due lati. Forza la propria lingua a rivestirsi di estraneità e la lingua straniera a lasciarsi de-portare nella propria lingua materna. È una prova che si può superare solo se si accetta che in questo tragitto qualcosa si perda, qualcosa debba diventare oggetto di rinuncia, rinuncia alla pretesa di autosufficienza della propria lingua materna ma anche rinuncia alla fantasia di onnipotenza di una traduzione totalmente adeguata, di una reduplicazione dell’originale. Per dirla con Berman lo scopo stesso della traduzione è quello di «aprire a livello dello scritto un certo rapporto all’altro, fecondare il proprio attraverso la mediazione dello Straniero e ciò necessariamente urta la struttura etnocentrica di ogni cultura, che fa che ogni società vorrebbe essere un tutto puro e non mescolato. Nella traduzione, vi è qualcosa della violenza del meticciato». [8] La traduzione dunque non distrugge l’oscurità ma la rimette in moto nel processo traduttivo entro cui il soggetto si trova a costeggiare le potenzialità della lingua, a riflettere sulla flessione della parola su se stessa, a tenere lo sguardo fisso all’interno dell’inquietudine che essa è e dentro alla quale noi abitiamo, vertendo i suoi pre-giudizi, rendendoli una risorsa e non una chiusura, mettendoli in circolo, senza evitare di metterli in gioco per paura del cambiamento.

Se ci fosse un’unica lingua comune, non avremmo più bisogno della traduzione. Ma utilizzando come strumento di comunicazione una sola stessa lingua, le reciproche difficoltà di comprensione sarebbero superate? Non è forse nella sfida della traduzione — sempre esposta al rischio del fraintendimento — che si gioca il destino dell’integrazione culturale? La traduzione, infatti, è prima di tutto sempre uno scambio tra due intenzioni. L’intenzione di collocarsi nell’orizzonte di senso della lingua straniera e quella di accogliere la parola dell’interlocutore nell’orizzonte di senso della nostra lingua. Attraverso la traduzione si verifica l’ospitalità linguistica nel senso che «il piacere di abitare la lingua dell’altro è compensato dal piacere di ricevere presso di sé, nella propria dimora d’accoglienza, la parola dello straniero». [9]

Se la funzione principale del linguaggio è la comunicazione, ciò che viene comunicato non è il significato delle singole parole, ma la tradizione linguistica che in esse si è depositata. Ecco perché la traduzione è pervasa da una tradizione, da un ethos. Naturalmente, la traduzione con la sua ospitalità non elimina come per magia tutte le reciproche incomprensioni, i fraintendimenti, i conflitti tra le molteplici interpretazioni, ognuna che vuole portare in alto il nome della propria ragione, ma opera pazientemente per la loro risoluzione. Guai, del resto, se li eliminasse, perché cancellerebbe la vita stessa che batte nel corpo di ogni singola parola. L’etica dell’ospitalità linguistica può funzionare per evitare i sempre possibili ripiegamenti di ciascuno di noi nelle rispettive e recintate tradizioni linguistiche. Piuttosto che sognare allora una sola lingua comune, astratta e logica, sarebbe augurabile disporsi ad ospitare e a farsi ospitare da più lingue. Un’Europa poliglotta sarebbe in grado di fronteggiare meglio i vecchi e nuovi integralismi identitari che serpeggiano tra i suoi popoli. Nella nostra tradizione culturale il mito di Babele ha rappresentato la perdita di un orizzonte unico di comunicazione e pertanto ha sempre alluso alla confusione dei linguaggi e all’incomprensione che nasce dalla diversità delle culture. Collocarsi “dopo Babele”, secondo il suggerimento di George Steiner, significa superare la nostalgia di una primordiale ma fantastica unità linguistica e abbandonare il desiderio di una omogeneità culturale, per accettare la pluralità come ricchezza e la diversità come invito all’ospitalità. Seguendo il percorso di Paul Ricoeur, la traduzione diventa così la mediazione tra la pluralità delle culture e l’unità dell’umanità, e ha il suo valore emblematico nel rispondere del fenomeno innegabile della pluralità umana, con gli aspetti di confusione e dispersione che la caratterizzano dopo Babele. Essa non si riduce ad una tecnica praticata spontaneamente da viaggiatori e commercianti e professionalmente da interpreti e traduttori, ma costituisce il paradigma di ogni scambio, non solo da lingua a lingua ma da cultura a cultura. Nella pratica della traduzione il linguaggio si presenta come un modello attorno al quale costruire un’etica della ospitalità e della fratellanza, un’etica basata sull’ospitalità linguistica. La naturalità della differenza allora fa sì che la traduzione sia non solo un compito, ma anche una risposta ad un desiderio, il desiderio di allargare l’orizzonte della propria lingua. La traduzione rimane una sfida difficile, una prova intesa come continua sperimentazione. Mediare tra lo straniero e la propria lingua è una prova disagevole che si muove tra desiderio di fedeltà e sospetto di tradimento. È necessario allora rinunciare all’ideale della traduzione perfetta per rendere possibile la felicità del tradurre. Ammettere la differenza insormontabile tra il proprio e lo straniero permette il riconoscimento dell’intrascendibile statuto di dialogicità dell’atto di tradurre. Modello per tutte le altre forme di ospitalità, l’ospitalità linguistica crea le basi per una solidarietà che Ricoeur esemplifica anche nell’ambito del progetto europeo. In Quale nuovo ethos per l’Europa (1992), la traduzione è inserita tra i modelli di integrazione che possono sostenere il progetto dell’Europa unita. Questo progetto non riveste solo un carattere politico, ma anche un carattere etico e spirituale, legato all’ethos degli individui, dei gruppi e dei popoli. In questa prospettiva etico-spirituale vengono proposti tre modelli di integrazione che uniscono alterità e identità. Questi sono presentati in un ordine crescente di densità spirituale, a partire dalla traduzione, continuando con lo scambio delle memorie e finendo con il perdono. Il modello della traduzione è adeguato alla situazione plurilinguistica dell’Europa. La sua importanza è considerata così grande da Ricoeur da prospettare conseguenze notevoli per l’intera vita etica degli Europei: «L’Europa è e sarà inevitabilmente poliglotta. A tal riguardo, il modello della traduzione implica esigenze e promesse di lunga portata, fino a toccare il cuore della vita etica e spirituale degli individui e dei popoli». [10]

Per la costruzione europea, il modello della traduzione indica strade concrete da percorrere all’insegna della comunione nella differenza. A livello prettamente istituzionale, Ricouer propone l’insegnamento di due lingue vive che non siano in una posizione dominante nell’ambito della comunicazione. Si spezza così l’egemonia culturale e linguistica vigente, dando a ogni popolo la possibilità di affermarsi. A livello spirituale, secondo questo autore, il modello della traduzione incide sul rapporto tra le culture, aprendo il trasferimento di contenuti di senso. L’ethos della traduzione si spinge così oltre l’operazione verbale, mediando i costumi, le credenze di base, le convinzioni principali, i cosiddetti “riferimenti di senso”. Lo scambio delle memorie realizza una pluralità di racconti che dinamizzano l’identità collettiva, non più pensata sui canoni di una storia unica. Il medesimo passato può essere raccontato quindi in modo diverso, necessitando di una lettura plurale. La lettura incrociata degli eventi fondatori che due popoli possono mettere in pratica sboccia in un aiuto reciproco: lo scambio delle memorie aiuta i due popoli a realizzare il desiderio di rinnovamento che è spesso succube dell’irrigidimento della tradizione. All’ospitalità linguistica della tradizione si aggiunge così l’ospitalità narrativa, che ravviva la speranza e le promesse inadempiute del passato, che possono ancora essere risuscitate. L’altro modello di comunicazione tra i popoli è individuato quindi da Ricouer nel perdono. Lo scambio delle memorie infatti comporta anche quello dello sofferenze inflitte e subite, che, più di immaginazione ed empatia, esige il perdono. Il perdono appartiene all’ordine della carità, che supera l’ordine politico e anche quello morale, entrando nell’economia del dono, con cui la stessa reciprocità implicata nei primi due modelli viene superata ed elevata ad un rango superiore. «Il perdono dipende da un’economia del dono, la cui logica della sovrabbondanza eccede la logica della reciprocità, della quale abbiamo visto un esempio nell’esercizio del riconoscimento presupposto dal modello della traduzione e da quella della narrazione incrociata. Proprio perché eccede l’ordine della moralità, l’economia del dono appartiene a ciò che si potrebbe chiamare la “poetica” della vita morale, se si prende la parola poetica nel suo doppio senso: della creatività, sul piano della dinamica dell’agire, del canto e dell’inno, sul piano dell’espressione verbale. Il perdono […] non annulla il debito, proprio perché siamo e restiamo gli eredi del passato, ma toglie la pena del debito». [11] Questo è, secondo Ricouer, il coronamento della solidarietà che può realizzarsi tra le comunità.

In conclusione, ci auguriamo che l’Unione Europea possa diventare un modello di eticità anche per un suo effettivo plurilinguismo, del quale, però, occorre ancora prendere coscienza. Fatto sta che ogni lingua matura dialogando con se stessa e con le altre lingue, come ogni uomo giunge ad una consapevolezza maggiore della sua dimensione di umanità nel dialogo con se stesso e con gli altri uomini. L’appropriazione della lingua, il suo divenire domestico, passa necessariamente per il confronto critico con le altre lingue, poiché ogni lingua non esiste di per sé isolata ma fin dall’inizio nell’esposizione alle altre, e ciò non può accadere né tantomeno trovare senso al di fuori dell’attività di traduzione, di una traduzione eticamente agita. Così la diversità babelica non è una condanna né una punizione, ma un rafforzamento positivo della condizione umana stessa, che non richiede di essere superata, ma di essere gestita in modo adeguato.

[1] H.G. Gadamer, Ritorno dall'esilio. Sulla lingua materna, in Linguaggio, tr. it. di D. Di Cesare, Laterza, Bari 2005, p. 113.
[2] P. Ricoeur, "Sfida e felicità della traduzione", in Tradurre l'intraducibile, a cura di M. Oliva, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2008, p. 51.
[3] Ibidem.
[4] P. Thévenaz, "L' homme et sa raison", La Boconnière, Neuchâtel 1956, vol. II, p. 72, in D. Jervolino, Per una filosofia della traduzione, Morcelliana, Brescia 2008, p. 138.
[5] H.G. Gadamer, "Fenomenologia del rituale e del linguaggio", in Linguaggio, cit., p. 170.
[6] Cfr. L. Meneghello, Materia di reading e altri reperti, Rizzoli, Milano 2005, pp. 39-41.
[7] L. Meneghello, Il dispatrio, Rizzoli, Milano 2000, p. 26.
[8] A. Berman, La traduzione e la lettera o l'albergo nella lontananza, tr. it. di G. Giometti, Quodlibet, Macerata 2003, p. 55.
[9] P. Ricoeur, "Sfida e felicità della traduzione", in Tradurre l'intraducibile, cit., p. 57.
[10] P. Ricoeur, "Quale nuovo ethos per l'Europa? Traduzione, scambio delle memorie, perdono", in La traduzione. Una sfida etica, a cura di D. Jervolino, tr. it. di I. Bertoletti, M. Gasbarrone, Morcelliana, Brescia 2001, p. 75.
[11] Ivi, p. 87.



Grafica “European Day of Languages”

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