C’è un punto in un libro di Hannah Arendt in cui si dice che «L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti» (Hannah Arendt,
Tra passato e futuro, tr. di Tania Gargiulo, Garzanti, Milano 1991, p. 255).
Credo sia un grosso problema. La questione dell’educazione è una delle questioni filosofiche fondamentali, che riguarda i rapporti con lo stato, il potere e la politica. L’educazione è il terreno di contesa fra l’uomo politico e il filosofo e quindi anche, di fatto, il terreno dove questi possono o potrebbero incontrarsi o, per essere più precisi,
potevano, perché il punto è che la filosofia non è più in grado di ricoprire quel ruolo che Hannah Arendt (ma anche, per esempio, Leo Strauss) pensava avesse o, almeno, che poetesse essere in qualche modo recuperato. Il mio dubbio, o piuttosto la mia convinzione, è che questo ruolo sia invece irrecuperabile. La razionalità che informa di sé l’
intero è la razionalità economica, mentre la filosofia scivola semplicemente verso lo splendore letterario.
È pertanto giusto chiedersi che cosa, nella filosofia, sia oggi più che un semplice «virtuosismo del pensiero», che cosa resti che non sia un puro e semplice esercizio accademico, e ancora: «che cosa può dire la filosofia tale che ne risulti modificato lo stato attuale della nostra vita, qui, su questa terra» perché la filosofia vuole incidere, vuole entrare nella fucina dove si forgia il futuro, non contemplare solitariamente dall’esterno il mondo e in modo indifferente ad ogni effetto. Il problema non è infatti il dissesto universitario, che pure esiste, non è il cosiddetto potere accademico, la cattedra, la qualità del lavoro scientifico; il potere non è affatto nemico del pensiero, un pensiero senza potere è anzi impossibilitato ad argomentare intorno alla verità, perché la verità di un qualsiasi enunciato dipende dalla sua concretizzazione storica e questa non può darsi se non attraverso uno scontro di forze, attraverso la formazione di un potere.
O il filosofo è presente là dove si determina il destino della Polis, oppure è il caso che lasci libero campo al poeta. Dico questo per mostrare che ciò che si trova all’inizio della filosofia, nella lotta per il controllo della Paideia, è ancora ciò che si trova alla fine. Solo che il luogo dell’agire e del pensare non è più la Polis, e nemmeno il moderno stato-nazione nato dalla Rivoluzione francese, bensì quei supermoderni blocchi continentali in cui si articola, oggi, la con-vivenza umana, dove il livello della decisione non solo non è sensibile al consiglio del filosofo, ma nemmeno alla delibera dei parlamenti nazionali (il tempo in cui un parlamento nazionale poteva parlare in nome dell’intera umanità, è definitivamente tramontato). La prima cosa da fare è perciò cercare di capire che cosa stia in effetti accanendo, che cosa ad-viene, cosa succede che muta così profondamente il nostro rapporto con il futuro (perché questo è il problema), o con il tempo (che è lo stesso). È corretta quindi l’osservazione secondo cui: «se la filosofia non è capace di ricollocare l’uomo nella parola (pensiero) e nell’azione, se il filosofo non sente la responsabilità verso le generazioni future, tutta quanta la filosofia è davvero una scommessa persa in partenza», con la chiosa finale, aggiunta da me, che una tale ri-collocazione è estremamente problematica e a rischio di esser formulata come puro desiderata, come istanza utopistica e, per di più, non fondata. La tendenza del mondo ad organizzarsi in aggregazioni amministrative e territoriali sempre più vaste e centralizzate non è solo un’ipotesi, ma un movimento di cui tutti vedono lo svolgimento e la necessità. Al limite nemmeno troppo lontano i grandi blocchi continentali tenderanno alla convergenza tirannica e le differenze sociali a diminuirsi, affinché non vi siano classi portate a disconoscere la grande, e precaria, autorità centrale. La totalizzazione dell’economia e della comunicazione reclamano infatti a gran voce l’istituzione di un governo globale e tirannico dell’economia e della comunicazione, dapprima continentale (ma l’Europa è già in ritardo su questo punto) e poi, supercontinentale.
Non credo che il potere sia una sorta di bestia nera del pensiero. Il filosofo vuole il potere, Platone per esempio, ma anche Spinoza, per non citare che due punti fermi, disposti di qua e di là dai tempi. Se è vero che «il rapporto che l’uomo ha instaurato con il potere negli ultimi trecento anni è radicalmente mutato rispetto a quanto Platone o Spinoza pensavano e sperimentavano», è altresì vero che la tirannide perfetta a cui pensavano gli antichi, e che giudicavano utopica, cioè irrealizzabile, è realizzata invece pienamente, anzi ad usura, proprio nella contemporaneità. È qui che la tirannide si fa carico del destino felicitario degli individui. Le nazioni moderne hanno realizzato il consiglio filosofico di Simonide (Senofonte,
Gerone): premi di ogni genere, onorificenze, emulazione stacanovista in molti campi del lavoro, polizia di stato anziché giannizzeri privati, leva obbligatoria (solo apparentemente superata dall’arruolamento volontario e specializzato dei tempi recenti), cioè l’esercito formato da cittadini anziché da milizie al soldo, e da ultimo l’investimento di ingenti somme per grandi opere pubbliche... è il bum economico degli anni Sessanta, il sogno di Berlusconi degli anni Novanta (la follia architettonica di Hitler, ma superata), la
grandeur statunitense espressa dal simbolo del World Trade Center, ma anche, per l’appunto, il sogno utopico di Simonide-Senofonte oggi realizzato, al cui elenco potremmo benissimo aggiungere, oggi, un sacco di altre cose: le grandi campagne sanitarie, il principio fordista del consumo interno e dell’arricchimento generale, la sanzione giuridica della piena occupazione, del benessere e via dicendo.
Il problema della responsabilità verso il futuro (e anche quello dell’educazione), la necessità di ricollocare in un certo modo l’uomo nel pensiero e nell’azione, ammesso che ciò sia possibile nei termini strettamente filosofici, deve partire perciò dalla constatazione che la Polis non c’è più, che il sistema civilitario non si serve più della filosofia per organizzare la razionalità e la verità del discorso, che le democrazie sono in via di superamento da parte di sistemi amministrativi sovranazionali, sempre più grandi, i quali, per quanto se ne può capire, a partire da certi segni di tendenza e da certi modelli (come la tirannide cinese, che diventano sempre più non solo oggetto di studio, ma anche cominciano ad essere accarezzati come forme di organizzazione a cui ispirarsi concretamente), saranno governati, in un futuro non troppo distante, da
élites di secondo livello, non direttamente vincolate al consenso delle masse di elettori (aristocrazie tecniche, per essere espliciti) e quindi tendenzialmente tiranniche, pena la disgregazione economica di interi continenti e la devastazione felicitaria delle loro popolazioni (fine del governo della salute, fine del benessere, fine dell’abbondanza, fine della sicurezza economica e personale, fine del premio al merito, fine della protezione pubblica, ecc. ecc.). È proprio la responsabilità per il futuro che, dinanzi al fatto della “globalizzazione”, inclina il movimento storico verso la tirannide, e questo per il semplice motivo che non è possibile organizzare una democrazia rappresentativa globale. Sarà tirannide globale, fatta di blocchi continentali retti da aristocrazie di terzo, quarto, quinto livello, e tecnologica, anche se continueremo a chiamarla “democrazia”.
Andy Warhol, N. 4 from Mao Tse-Tung, 1972