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Tre post sul “Libro Rosso” di C. G. Jung: Bruno Meroni, Giacomo Conserva
A cura di G. Conserva

5 maggio 2014



Presentazione

Fra maggio e giugno di 3 anni fa vi fu sul mio blog un interessante e, penso, significativo scambio di post fra Bruno Meroni (eminente analista junghiano, del CIPA, che avevo da poco conosciuto personalmente a un seminario ove eravamo corelatori) e me. Era da poco uscito in stampa, dopo 90 anni di clandestinità quasi assoluta, il favoleggiato Libro Rosso o Liber Primus di Jung: un incrocio fra diario onirico e sequenza e commento di visioni, con un linguaggio fra il fiabesco e il profetico — lo sforzo di una chiarificazione e interpretazione di quanto in parte spontaneamente veniva alla luce e alla parola e in parte veniva attivamente (e rischiosamente) evocato negli anni fra il 1913 e il 1920 (grosso modo; Jung era nato nel 1875; aveva nel 1912 pubblicato il fondamentale Trasformazioni e simboli della libido). Per anni, dopo la rottura con Freud, sull’orlo fra una metánoia e una psicosi, Jung tentò di mantenere sia il contatto con la realtà condivisa (il lavoro, la famiglia, il servizio militare ecc.) che l’apertura ai contenuti che si manifestavano — dotati di una intensità a tratti sconvolgente. Fu, disse poi, la sua nekuya, il suo viaggio agli Inferi. Ne uscì carico di umana e non-umana saggezza, con un insieme di armi concettuali che elaborò nel resto della sua vita, con la capacità di aiutare molte altre persone a percorrere quello che egli chiamò il cammino della individuazione. Le minute di quel processo rimasero nascoste, per sua scelta: aveva scelto di non fondare una nuova religione o di essere un dittatoriale guru, ma un terapeuta: uno che affianca, agevola, gioisce e soffre insieme all’altro ma non gli dà i contenuti, le direttive, la direzione. Unico frammento minimamente diffuso furono i Sette sermoni ai morti, “scritti da Basilide di Alessandria, la città in cui l’Oriente tocca l’Occidente”, di cui negli anni ’20 stampò una cinquantina di copie, privatamente distribuite a persone che sentiva molto vicine, e per la prima volta resi pubblici poco prima della morte in appendice al volume Ricordi, sogni, riflessioni, curato da Aniela Jaffè. Il Libro Rosso comunque esisteva davvero; un pesante libro di 205 pagine di grosso formato, scritto a mano e pieno di miniature dipinte con la massima cura, di cui nel 2007 gli eredi diedero infine il consenso alla pubblicazione. Uscì nel 2009 in una dotta edizione curata da Sonu Shamdasani, con un prezzo ripagato dalla precisione e bellezza della riproduzione del testo e delle immagini originali (doppiati da trascrizione/traduzione e commento). È disponibile in varie edizioni nazionali; quella inglese si può leggere e scaricare nell’Internet Archive. Non è un lettura banale. Lo scambio con il Dr. Meroni riflette il primo choc della comparsa di questo testo, e insieme lo sforzo di collocarlo in una prospettiva più generale. Come vedrete, fra Meroni e me non c’era coincidenza di partenza, nella valutazione, ma mi pare vi sia stato comunque uno scambio reale (dialettico, come si diceva un tempo); e penso che il tutto mantenga il suo interesse. D’accordo con lui lo ripropongo, a distanza di anni e in un diverso contesto, perché prosegua il suo cammino.

http://gconse.blogspot.it/2011/05/proposito-del-libro-rosso-di-cgjung.html
http://gconse.blogspot.it/2011/06/re-proposito-del-libro-rosso-di-jung-di.html
http://gconse.blogspot.it/2011/06/il-libro-rosso-di-jung-3-bruno-meroni.html
http://gconse.blogspot.it/2011/04/cgjung-sette-sermoni-ai-morti-seven.html

Inoltre:

https://archive.org/details/LiberNovus-TheRedBookjung
http://gnosis.org/redbook/








A proposito del Libro Rosso di C. G. Jung
di Bruno Meroni

10 Maggio 2011


La recente pubblicazione del Libro Rosso di Jung ha suscitato, in colleghi che non hanno dimestichezza col pensiero di Jung, perplessità e sconcerto. Non manca chi lo ha sbrigativamente classificato come la manifesta attestazione di una personalità psicotica. Spero che un minimo contributo, fatto di poche citazioni junghiane, possa in qualche modo suscitare un desiderio di approfondimento.

Come è noto, Jung aveva disposto che il libro non fosse pubblicato: avvertiva che avrebbe potuto creare sconcerto e diffidenza. La dedizione dedicata alla stesura di ogni singola pagina, paragonabile a quella di un monaco amanuense medievale, appare ispirata da un senso di religiosità che si può comprendere solo attraverso la lettura dei suoi scritti. Per potere dare alle immagini la maggiore aderenza possibile rispetto a come le aveva vissute, Jung aveva preso lezioni di acquerello: era tuttavia una dedizione mirata a se stesso. Jung era consapevole che l’evocazione del numinoso attraverso l’immaginazione attiva, assieme alla ridondanza e all’enfasi della scrittura gotica e delle visioni che si alternano nel Libro Rosso, avrebbero destato imbarazzo e distanza a occhi estranei alle sue esperienze. Gli era chiaro che evocare le forme di una religiosità così lontana nel tempo sarebbe potuto risultare, a dir poco, disturbante. Per questo aveva considerato empio dare alle stampe cose che erano accadute nella sua più intima vita immaginale.

“Annotai le mie fantasie come meglio potevo, e feci un serio sforzo per analizzare le condizioni psichiche in cui erano sorte; ma mi riuscì di farlo solo con un linguaggio approssimativo. Per prima cosa esponevo le fantasie come le avevo osservate, di solito con un ‘linguaggio elevato’, perché questo corrisponde allo stile degli archetipi. Gli archetipi parlano un linguaggio patetico e persino ampolloso. E’ uno stile che mi riesce fastidioso e mi dà ai nervi, come quando qualcuno sfrega le unghie su un intonaco o il coltello su un piatto[…]” (C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, p. 220, BUR, Milano 1978).

“L’apparizione psichica dello spirito denota senz’altro la sua natura di archetipo; il fenomeno che si chiama spirito si fonda sull’esistenza di un’immagine primordiale autonoma che, preconscia, è universalmente presente nella costituzione della psiche umana. Come sempre, mi sono imbattuto in questo problema studiando i miei pazienti, e precisamente indagando i loro sogni, Mi ha innanzitutto colpito che una certa forma di complesso paterno abbia un carattere, per così dire ‘spirituale’: nel senso che dall’immagine del padre provengono affermazioni, atti, impulsi, opinioni ecc. ai quali non si può certo negare l’attributo di ‘spirituale’. Un complesso paterno positivo conduce spesso gli uomini a una certa fede nella autorità e a una spiccata tendenza alla sottomissione a tutti i valori e precetti spirituali; le donne, ad aspirazioni e interessi spirituali particolarmente vivaci. Nei sogni è da una figura di padre che provengono decisive persuasioni, proibizioni, consigli, quindi è per lo più la figura di un vecchio che simboleggia il fattore spirito. Talvolta questa parte è sostenuta da ‘un vero e proprio’ spirito, quello di un morto. Più raramente, a significare lo spirito sono figure grottesche simili a gnomi o animali sapienti e parlanti”. (C. G.Jung, “Fenomenologia dello spirito nella fiaba”, p. 208, Opere, vol. IX*, Boringhieri, Torino 1980).

“Il buon senso quotidiano, il senso comune, la scienza quale concentrato di senso comune ci accompagnano per un buon tratto, ma mai oltre la pietra miliare della più banale realtà e della media normalità. Essi non danno risposta alcuna al problema della sofferenza psichica e del suo più profondo significato. La psiconevrosi è in ultima analisi una sofferenza della psiche che non ha trovato il proprio significato. Ma dalla sofferenza della psiche deriva ogni creazione spirituale e ogni progresso dell’uomo spirituale; la sofferenza è dovuta al ristagno spirituale, alla sterilità psichica. [Il significato spirituale] è questo che il malato domanda […] Il malato cerca qualcosa che si impadronisca di lui e dia una forma ricca di significato allo scompiglio della sua psiche nevrotica”. (C. G. Jung, “Relazione tenuta alla conferenza pastorale alsaziana a Strasburgo”, in: Rapporti della psicoterapia con la cura d’anime, Opere vol. XI, pag 314, Boringhieri, Torino 1979).

“Sono molti i pazienti colti che rifiutano categoricamente di andare dal religioso. Dei filosofi poi non vogliono nemmeno sentir parlare, perché la storia della filosofia li lascia freddi e l’intellettualismo è per loro più arido del deserto. E dove sono i grandi saggi, che non si limitano a parlare del significato della vita e del mondo, ma lo possiedono davvero? Non è assolutamente possibile escogitare sistemi e verità capaci di dare al malato quello di cui ha bisogno per vivere, cioè fede, speranza, amore e conoscenza. Queste quattro massime acquisizioni, meta del desiderio umano, sono altrettante grazie che non si possono né insegnare, né apprendere, né dare né prendere, né trattenere, né meritare perché sono legate a una condizione irrazionale, sottratta all’arbitrio umano, cioè all’esperienza. Ma le esperienze non si possono mai ‘fare’: accadono; […]”. Op. cit., pp. 314-15

“Negli ultimi trent’anni una clientela proveniente da tutti i paesi civili della terra è venuta a consultarmi: mi sono passate per le mani molte centinaia di pazienti. […] Fra tutti questi pazienti al di sopra della mezza età, cioè al di sopra dei trentacinque anni, non ce n’è stato uno il cui problema sostanziale non fosse quello del suo atteggiamento religioso. In definitiva tutti si ammalano perché hanno perduto ciò che le religioni vive di tutti i tempi hanno dato ai loro fedeli; e nessuno guarisce veramente se non riesce a raggiungere un atteggiamento religioso. Naturalmente questo non ha nulla a che vedere con la confessione di una fede o l’appartenenza a una chiesa “. Op. cit., p. 317.





Nota del curatore - Il Dr. Meroni è un analista junghiano, socio del Centro Italiano di Psicologia Analitica, con una lunga pratica terapeutica, e autore di parecchie opere importanti.




Risposta a Bruno Meroni
di Giacomo Conserva

16 giugno 2011


1. Il Libro Rosso di Jung. Fa uno strano effetto guardare le immagini e leggere i testi: manierati, rigidi, molto molto lontani. Unheimlich — nel senso in cui lo definì Freud in un famoso articolo: eerie — un po’ magico e un po’ kitsch, un po’ innocente e un po’ dannato. E a volte con dei lampi di totale bellezza e profondità. Si sa benissimo che è un diario privatissimo, non destinato alla pubblicazione. Ma Jung è morto da quasi 50 anni — il mondo cambia, la volontà degli antenati non sempre viene — per buone o cattive ragioni — tenuta in conto da chi viene dopo. Una cosa che onestamente non capisco nelle parole del Dr. Meroni è che si possa temere l’accusa di ‘psicotico’ (o “personalità psicotica”) che sarebbe da taluni specialisti (dal cuore di pietra, direi, e dallo spirito imbiancato) mossa a Jung sulla base di quei testi e immagini. In primo luogo, è una vecchia storia: oltre all’accusa di misticismo reazionario, l’accusa di grave dissociazione psichica gli è stata da molto tempo mossa. E in effetti non c’è dubbio, credo, che Jung, negli anni attorno alla prima guerra mondiale, sia stato quasi-psicotico: basta leggere in che termini egli stesso descriva quel periodo nel suo libro di memorie. Ma allora? In primo luogo mantenne sempre il controllo della situazione (anche se a caro prezzo); in secondo luogo, una fase di “malattia creativa”, come la definisce Ellenberger, è tutto tranne che l’opposto della salute mentale (il quale concetto di “salute mentale” è in sé veramente molto meschino e ristretto dal punto di vista filosofico, antropologico, e umano tout court); è noto e acquisito che una fase di scompenso, di ‘nevrosi’, di “regressione al servizio dell’Io” può giocare un ruolo fondamentale e fondante nel raggiungere un più alto livello di integrazione, creatività, produttività; è noto pure che un altro padre fondatore, Freud, visse un periodo di serissime difficoltà, di cui un buon resoconto si trova nella Traumdeutung (che per buona parte si basa sulla sua auto-interpretazione e auto-analisi e auto-terapia: tutto tranne che un “disinteressato lavoro scientifico”). D’altra parte, nel caso di Jung (come in quello di Freud), il detto “dai loro frutti li riconoscerai” non può non essere applicato — ed è indubbio che quelli di Jung siano stati estremamente significativi. Come si potrebbe sostenere per esempio che Psicologia e alchimia non sia un libro di alta lucidità, compiutezza e coraggio? E Psicologia del transfert, o Mysterium coniunctionis? (cui è annesso, si ricordi, il meraviglioso commento di Marie Louise von Franz alla Aurora Consurgens) — Perché, bisogna pure aggiungere, Jung svolse il suo lavoro non in una cella manicomiale o semi-rinchiuso in una torre a Tubinga ma nel mondo, con colleghi, allievi, amici, interlocutori, persone con cui portava avanti una terapia etc. Per cui i criteri che portano a diagnosticare uno scompenso psicotico sembrano veramente essere un po’ fuori luogo, e non cogliere il punto.

2. È vero che Jung non volle la pubblicazione del Libro rosso, però è pure vero che in appendice all’autobiografia stampò (per il grande pubblico, non più come a suo tempo per una cerchia di intimi) i Sette sermoni ai morti, che sono un poco far out — ovvero, che è un altro modo di dirlo, sono un grande testo spirituale (e la spiritualità fa indubbiamente parte delle realizzazioni culturali dell’umanità). L’unica differenza — non piccola — fra questi e Il libro rosso è che mentre nel Libro rosso si esprime una ricerca là abbiamo una quasi-scoperta (o rivelazione, se vogliamo). Ma la “salute mentale” come sopra definita centra ben poco con entrambe. Voglio dire che se accettiamo i Sermoni (e personalmente non vedo come per esempio chi fa psicoterapia analitica possa rifiutarli) bisogna anche accettare l’altro che (assieme alle visioni, ai sogni e alle quasi-voci) ne è il presupposto.


Piccola nota bibliografica di riferimento

C. G. Jung, The Red Book. Liber Novus, Sonu Shamdasani (a cura di), trad. it. di Mark Kyburz, John Peck and S. Shamdasani, Norton & Co., 2009.
C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni (a cura di Aniela Jaffè), trad. it. di Guido Rosso, Rizzoli 1998 (1961).
H. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica, trad. it. di F. Mazzone, Bollati Boringhieri 1980 (1970).
K. Wilber, Lo spettro della coscienza, trad. it. di M. Grottanelli, Crisalide 1993 (1977).
G. Krishna e J. Hillman, Kundalini, trad. it. di Paolo Colombo, Astrolabio 1971 ( 1967).
J. Derrida, “Cogito et histoire de la folie”, in L’écriture et la différence, Seuil 1967.
G. Deleuze-F. Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, ed. du Minuit, 1991.
S. Grof, R. D. Laing, R. Assagioli, Christina Grof, R. Dass, K. Thompson, J. Kornfield and others, Spiritual Emergency: When Personal Transformation Becomes A Crisis, S. Grof e C. Grof eds, Tarcher, 1989.
D. Anzieu, L’auto-analyse de Freud et la découverte de la psychanalyse, P.U.F. 1998 (1959).
M. Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, Klostermann, 1936/1996.


Due brevi brani che ho già pubblicato

A.
11. Surely this red one was the devil, but my devil. That is, he was my joy, the joy of the serious person, who keeps watch alone on the high tower — his red-colored, red-scented, warm bright red joy. 12. Not the secret joy in his thoughts and in his looking, but that strange joy of the world that comes unsuspected like a warm southerly wind with swelling fragrant blossoms and the ease of living. You know it from your poets, this seriousness, when they expectantly look toward what happens in the depths, sought out first of all by the devil because of their springlike joy. 13. It picks up men like a wave and drives them forth. Whoever tastes this joy forgets himself. 14 And there is nothing sweeter than forgetting oneself. And not a few have forgotten what they are. But even more have taken root so firmly that not even the rosy wave is able to uproot them. They are petrified and too heavy, while the others are too light. [p. 260]

Sicuramente questo Rosso era il diavolo, ma il mio diavolo. Cioè, era la mia gioia, la gioia di una persona determinata, che fa la guardia da solo sulla torre alta — la sua gioia rossa, profumata di rosso, calda luminosa rossa gioia. Non la segreta gioia nei propri pensieri e nel proprio aspetto, ma quella strana gioia terrena che giunge inattesa come un tiepido vento del sud con nuovi fragranti germogli e l’agio della vita. La si conosce dai poeti, questa determinazione, quando cercano con attesa quel che capita nelle profondità, ricercati prima di tutto dal diavolo per via della loro esultante (primaverile) gioia. Raccoglie gli uomini come un’onda e li porta con sé, in avanti. Chiunque assaggia questa gioia dimentica sé stesso. E non c’è nulla più dolce del dimenticare sé stessi. E non pochi hanno dimenticato cosa sono. Ma anche di più hanno messo radice con tanta forza che nemmeno l’onda rosa è capace di sradicarli. Sono diventati di pietra e troppo pesanti, mentre gli altri sono troppo leggeri. (traduzione mia).

B.
The spirit of the depths has subjugated all pride and arrogance to the power of judgment. He took away my belief in science, he robbed me of the joy of explaining and ordering things, and he let devotion to the ideals of this time die out in me. He forced me down to the last and simplest things. The spirit of the depths took my understanding and all my knowledge and placed them at the service of the inexplicable and the paradoxical.

Lo spirito del profondo ha sottomesso tutto l’orgoglio e l’arroganza nel potere della ragione. Ha eliminato la mia fede nella scienza, mi ha tolto via la gioia dello spiegare e dare un ordine alle cose, e ha fatto spegnere in me la devozione agli ideali di questo tempo. Mi ha costretto a limitarmi alle cose ultime e più semplici. Lo spirito del profondo ha preso tutto il mio intelletto e tutta la mia conoscenza, e li ha posti al servizio del non spiegabile e del paradossale. (traduzione mia).







Il Libro Rosso di Jung, 3
di Bruno Meroni

23 Giugno 2011


Ringrazio Giacomo Conserva per le precisazioni riguardanti il Libro Rosso. Le considero difese contro condizionamenti che, a mio avviso, possono influenzare eventuali lettori non sufficientemente informati circa l’entroterra da cui è scaturita l’opera. In particolare mi sollevano dalla preoccupazione che le sue pagine vengano considerate alla stregua di istanze psicotiche che non raggiungono compiutezza o dignità d’arte.

Una preoccupazione, la mia, che — mi rendo conto — in un certo senso è una gaffe: non ho tenuto conto che questo è un blog ben frequentato. Lo zelo con cui ho cercato di proteggere il Libro Rosso risente di alcune battute che sono circolate, provenienti da analisti — sicuramente cuori di pietra dallo spirito imbiancato — che da sempre manifestano una forte riduttività nei confronti di Jung. (“Si sapeva che era matto!”)

Lasciando perdere tutto questo, vorrei tuttavia considerare l’accusa storica mossa al pensiero junghiano, accusa sempre riaffiorante, tanto più ora con la pubblicazione del Libro Rosso. Quella, formulata da Freud stesso, di misticismo, che si è successivamente riassunta nell’appunto di creare confusione fra psicologia e religione. Un giudizio, in verità, che trova sempre meno credito. Che la dimensione del trascendente abbia un peso rilevante nella psiche e, per quel che riguarda gli analisti, in tanti conflitti psichici che si trovano ad affrontare, è un fatto sempre più condiviso. Cito, per esempio, il freudiano Domenico Chianese: “L’approccio antico al sogno […] è tutt’ora presente nell’ambito religioso, in una certa cultura generale e, anche se qualcuno potrà meravigliarsi, nella stessa psicoanalisi. I ‘sogni visione’ di carattere mistico, denominati ‘rivelazioni’ nell’ambito religioso, sono una forma di sogni che si è perpetuata, dalle fasi religiose più primitive, attraverso i politeismi antichi, fino al monoteismo ebraico-cristiano. Visioni oniriche di singoli individui, personalità carismatiche, ‘profeti’, che possono diventare il punto d’avvio di intensi svolgimenti culturali e sociali”. (D. Chianese, “Sogno, visione, modernità”, in S. Bolognini, Il sogno cento anni dopo, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 320 sg.). Chianese riporta poi un lontano passo di Mancia. “Possiamo pensare al sogno come una religione della mente […] con la funzione di rappresentare, come una religione, “le cose”, cioè quegli oggetti interni che hanno acquistato significato teologico per l’individuo. Questi oggetti fondano i nostri valori e la nostra visione del mondo. […] Il sogno rinvia continuamente agli oggetti sacri del passato, genitori interiorizzati che pesano sul destino di tutti noi”. (M. Mancia, Il sogno come religione della mente, Laterza, Bari 1987, p.119 sg.).

Spero di non avere annoiato il lettore con queste mie “difese d’ufficio”.






Der Geist der Tiefe nahm meinen Verstand und alle meine Kenntnisse und stellte sie in den Dienst des Unerklärbaren und des Widersinnigen […].

(Lo spirito del profondo ha preso tutto il mio intelletto e tutta la mia conoscenza, e li ha posti al servizio del non spiegabile e del paradossale).



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