«Il maestro narra il Confucio di Lun-yu [1] si asteneva dal parlare di prodigi, di prove di forza, di atti di ribellione e di esseri naturali». La stranezza di questa enumerazione dapprima sconcerta; tuttavia come non supporvi una coerenza segreta?
Immagino debba essere grande la tentazione di affrontare di preferenza il miracolo e la sommossa. In effetti, che cosa è in grado meravigliare maggiormente del meraviglioso stesso? V’è qualcosa di migliore per suscitare l’entusiasmo dell’appello alla rivolta? Ogni giovane forza è convinta che con essa si risveglino la novità e l’aurora del mondo. Ad essa sembra che contro la sua santa impazienza nulla abbia il diritto di prevalere: né le leggi della società, né quelle della natura, né costrizione, né regolarità. Eccola che si slancia e tutto ciò che la conculca o la limita aumenta la sua collera. Essa rapidamente si persuade d’essere vittima di un universo ingiusto e odioso: è una certezza che di solito non ha problemi ad affermarsi.
Dove si dirige un simile spirito, che io ho soltanto supposto ardente e ambizioso, segno di ogni essere un po’ vivo? Il mondo, che esso stima monotono o ignobile o, nello stesso tempo, opaco e abietto, lo esaspera. Esso si sposta agli estremi e ogni effervescenza, la quale gli sembra aggredire l’ordine che lo vessa, [2] appare ai suoi occhi immediatamente ammirevole. L’assurdo lo vendica della coerenza necessaria alla concatenazione delle idee; esso colloca lo straordinario al di sopra della perfezione e lo proclama più degno di interesse e riverenza; esso proclama il crimine e lo scandalo più fecondi del rispetto e della regola; nella rivolta infine esso coglie non si sa quale infallibile garanzia di purezza e di grandezza.
Nei nostri giorni, la lussuria e il mistero, il sogno e la crudeltà furono in tal modo l’oggetto di una predilezione temeraria da parte di alcuni spiriti infervorati; la misura è colma:
Tutti i mostri d’Egitto hanno il loro tempio a Roma.
La divulgazione di queste devozioni inferiori non deve sorprendere troppo. Esiste tra i più pacati quella nostalgia dell’abbacinante e dell’atroce che presso i bambini costituisce l’attrazione per la foresta vergine: i coccodrilli, la febbre gialla e i cannibali immancabilmente sembrano loro la fonte di impressionanti delizie e in modo infallibile le cose più belle che vi siano al mondo.
Le grandi personalità, alcuni per spirito di provocazione, altri per non essere da meno rispetto a quest’ultimi e per non apparire sprovveduti, adottarono la stessa attitudine che è divenuta bon ton, e si misero a declamare le lodi del coccodrillo, della peste e dell’antropofagia (o del marchese de Sade e dell’humour nero). Per fortuna, man mano che la dottrina divenne più popolare perse la sua virulenza. Essa in breve fu vittoriosa e anodina. Non resta che un certo vocabolario, d’altronde irritante, il quale denuncia tuttavia la scarsa serietà in cui sprofonda l’impresa. Nulla si logora come le parole ed è a volte comico constatare a qual livello coloro che sognano unicamente meraviglia, miracolo e insurrezione, pervengano a screditare i termini che essi pretendevano fossero i più carichi di prestigio.
Una volta furono esposti quadri di dementi. Tali tele apparvero troppo sagge agli occhi della pittura dei nostri maestri. Si vede dove siamo arrivati. Ma ciò non prova nulla, dal momento che la saggezza non è per forza una qualità della pittura. Poco importa: in tale occasione un medico valutò che il pubblico non risultava abbastanza commosso. Gli si rimproverò vivamente di sottrarsi tramite colpevoli artifici allo scompiglio che è necessario provare, secondo lui, dinanzi alla follia. Non senza indignazione, egli mostrò che ognuno era «incapace di porsi correttamente problemi vertiginosi». Tale uomo di scienza è decisamente sconsiderato: quale idea di vertigine si fa egli per supporre che essa riuscirebbe ad impedire a tutti di porsi correttamente dei problemi? Significa esigere dal primo venuto una prodezza quasi inconcepibile, seppur possibile. Sarebbe conveniente pregare questo pretenzioso censore di riflettere almeno una volta in preda alla vertigine.
Ma io mi inganno. Ho torto nel prenderlo alla lettera e nell’attribuire all’aggettivo /vertiginoso/ il suo pieno significato. Esso non è qui che uno di quegli epiteti come
folgorante,
convulso,
frenetico,
sconvolgente, che sono molto di moda nei poemi, nei romanzi e anche nei saggi. Non bisogna prendersela: ogni scuola mette infatti in circolazione un certo numero di qualificativi che un uso sconsiderato priva rapidamente di tutta la chiarezza del loro valore. Essi sono semplicemente più indiscreti del solito. Desidererei d’altronde che li si restituisse al loro senso proprio, che esiste, poiché esistono la vertigine, la folgore, la convulsione, la frenesia. Ma si finisce col dubitarne, a tal punto questi epiteti svalutati sono divenuti mere cianfrusaglie di stile.
Ecco in ogni caso la giusta punizione per quelli che li hanno sempre in punta di penna e che giurano con compiacenza su queste divinità tonanti, che essi trasformano rapidamente in idoli di cartapesta.
Per questo io applaudo la filosofia che, nei suoi
entretiens, evitava tali soggetti.
16 aprile 1946
[1] Propriamente dialoghi: testo classico cinese appartenente al corpus più ampio dei Ssu-shu [N.d.T.].
[2] Il verbo dell’originale è /brimer/: abbiamo optato per /vessare/, ma tra i significati è presente anche quello di /schernire/.