Con
Prise de sang [1] Emmanuel Berl presenta l’esame di coscienza di un pacifista. Egli si accusa umilmente di essere stato sostenitore del compromesso di Monaco, ma accorda a se stesso un tal numero di circostanze attenuanti che la sua arringa vira poco a poco in requisitoria: come non irritarsi nel vedere in effetti il pacifista più meritevole di biasimo del bellicoso? Il desiderio di pace ritenuto più colpevole della volontà di guerra? E, nella stampa, più inchiostro e spazio consacrati a condannare il patto di Monaco rispetto all’aggressione di Danzica? Berl confessa volentieri che egli ebbe torto sotto il profilo pratico, sebbene resti almeno persuaso che il suo errore partisse da un buon proposito:
io non rimpiango per nulla la guerra mancata del 1938, né quella del 1937, né quella del 1936; io rimpiango la guerra scoppiata nel 1939.
Senza dubbio gli si potrebbe far notare che la guerra scoppiata nasce dalla guerra mancata; e che coloro che a Monaco accettarono grandi sacrifici per evitare le ostilità, riuscirono soltanto a renderle più sanguinose e più aspre. Arretrare per saltare meglio non è una politica eccellente. Nel caso particolare, in più, il verdetto della storia può sembrare abbastanza reciso. L’autore non lo disconosce, sebbene egli esiti ancora a prendere posizione in modo assoluto.
Uno scrupolo lo trattiene: ha il timore di cedere alle suggestioni della guerra, di cui egli constata un po’ ovunque la potenza diffusa. Un ministro guerrafondaio raccoglie immancabilmente maggior gloria di un ministro conciliante. Non si è grati ad alcuno per aver conservato la pace il più a lungo possibile, si intrecciano corone e si innalzano statue a chi prolunga la guerra contro ogni ragione. Nel 1938, sottolinea l’autore, uomini di stato tentavano di salvare la pace contro ogni speranza: se n’è fatto scempio. Nel 1871 il governo di Bordeaux si sforzò di protrarre la guerra ugualmente contro ogni speranza: il suo atteggiamento è visto come eroico ed esemplare e Berl se ne meraviglia:
vorrei che un giorno mi si spiegasse perché è ignobile non disperare per la pace allorché la sua conservazione sembra improbabile, mentre è nobile non disperare per la vittoria nel momento in cui essa appare esclusa. Tuttavia non v’è qui nulla di enigmatico: ciò che mi sembra nobile è il fatto di battersi fino all’ultimo e di preferire la morte alla disfatta; ciò che sembra ignobile è sottrarsi allo scontro, almeno darne l’impressione (ma si giudica dalle apparenze), e cedere piuttosto che combattere (poiché non si conserva la pace senza contropartita). Basta un secondo di riflessione perché ci si sorprenda della sorpresa dell’autore. E invece di fornirgli la vana spiegazione che egli domanda è preferibile spiegargli perché si è celata una simile evidenza...Ciò accade, io credo, perché egli pensa costantemente nel corso delle sue analisi ai vantaggi materiali, morali e spirituali che i popoli ottengono da una o dall’altra attitudine. Altrimenti detto, egli non smette di pensare in termini di profitto. Ora, non c’è dubbio che la pace apporti più vantaggi della guerra; e che quella sia più ragionevole di questa, in modo che nel caso specifico è più vantaggioso (ma non più nobile) ritardare il più a lungo possibile il giorno della catastrofe piuttosto che perpetuare questa in vano. Tale confusione dell’ordine dell’interesse con l’ordine dell’onore non appartiene solo al Emmanuel Berl. Essa è inerente alla politica stessa, che è l’arte di difendere nello stesso tempo l’onore e l’interesse di una nazione, i quali non vanno sempre di concerto. Capisco bene che l’autore è un realista. Senza dubbio non ci sarebbe bisogno di metterlo troppo alle stette per fargli confessare che non c’è nulla di chiaro, di preciso o soprattutto di valido nell’onore di una nazione: concetto desueto, chimerico e pericoloso. Non è sicuro, e io ne sarei molto imbarazzato per quanto mi riguarda se per assurdo io mi trovassi ad essere responsabile dei destini di una nazione, se si tratta di decidere ciò che io debba tentare di salvaguardare in primo luogo: il suo onore o i suoi interessi. Poiché mi sembra che, sacrificando il suo onore, io proteggerei malamente i suoi interessi, lasciando credere che esso è debole e che si possa impunemente calpestarlo; mentre trascurando in modo sconsiderato i suoi interessi per assicurare la sua gloria, io avrei il timore di condurlo a un disastro in effetti glorioso ma irreparabile.
In ogni modo tutti finiscono col considerare la guerra una triste necessità. Si calcolano i beni che essa costa e i mali a cui conduce. Se ne resta atterriti. Se alla fine vi si rassegna, ciò accade con la morte nell’anima ed è necessaria una passione piuttosto grande che spinga e sostenga in una situazione estrema che mette nella condizione di perdere tutto. Ciò non impedisce di dire che Berl ha ragione: non si sono ancora visti popoli e storici manifestare per la riconoscenza e l’ammirazione dovute a coloro che si sono sforzati d’evitare il flagello ai loro contemporanei.
I popoli hanno un bel gioire della pace e maledire la guerra. Non per questo sono meno le guerre che brillano lontano nella prospettiva della storia, che vi appaiono illuminate, distaccandosi con fulgore e brillanti di mille colori sul fondo spento e oscuro della pace. L’umanità conserva più pietosamente il nome dei conquistatori che le procurarono dolore che quello degli artigiani premurosi a cui essa deve i suoi momenti di quiete. E ciò non è ancora nulla. Quanto più la guerra cresce in orrore e potenza, tanto più essa riceve omaggi sempre più ferventi. Non appena la coscrizione le dà il suo volume attuale, vediamo Hegel e de Maistre preoccuparsi di fornirle una giustificazione metafisica. Essi ancora si accontentano di poche formule astratte. Più tardi però Dostoevskij e Proudhon, specificando con grande compiacenza i suoi meriti, scoprono in essa la madre delle arti, delle virtù e delle leggi. Nei nostri giorni, in cui essa è la più vasta e la più omicida, non bastano più la riflessione e l’analisi a lodare la sua fecondità. Una nuova devozione compone in suo onore degli inni mostruosi: trascinato dall’estasi, Ernst Jünger non riesce a trovare nei suoi salmi, per adorare la dea sanguinaria, accenti abbastanza entusiastici e abbastanza stravolti. Sappiamo che i suoi cantici furono ripresi da numerosi fedeli. Ecco un fenomeno che oltrepassa, mi pare, le categorie in cui si impiglia Berl, si chiamino esse l’interesse o la ragione. Io vi distinguo da parte mia una manifestazione del sacro.
27 agosto 1946
[1] Robert Laffront, éditeur.
Emmanuel Berl in uno scatto del 1968 (per il testo §Suggestioni della guerra¨