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Civiltà della vertigine | Kasparhauser 11
A cura di Marco Tabacchini




Conseguenze del nichilismo
di Roger Caillois
(Traduzione di Marco Tabacchini)

Agosto 2015


Titolo originale: “Conséquences du nihilisme”, in R. Caillois, Circonstancielles, Gallimard, Paris 1946, pp. 78-82.

Hermann Rauschning, in un’opera che conta o dovrebbe contare autorevolmente, ma alla quale egli ne fece sventuratamente seguire altre di qualità decisamente inferiore, ha definito il nazional-socialismo come la rivoluzione di un nichilismo distruttore di ogni principio morale, di conseguenza incapace di fondare alcunché di valido o di duraturo, costretto dalla sua stessa natura a una pura volontà di potenza, dinamica per necessità e vuota del benché minimo contenuto. Questo nichilismo non è sconosciuto alla storia. Forse costantemente vi esiste allo stato latente, scoppiando in occasione di crisi violente o affiorando per effetto di una sorta di usura generale, di un crescente sdegno nei confronti dei valori rispettati. La fine dell’Impero romano e la seconda metà del XVIII secolo forniscono senza dubbio esempi di un simile fenomeno, ma ve ne sono molti altri. E così in La nostra Giovinezza, scritto nel 1910, Péguy segnala una disaffezione di un medesimo ordine. Annuncia infatti l’avvento del mondo di «quelli che fanno i furbi», «il mondo di quelli che non credono a niente, nemmeno all’ateismo, di quelli che non si consacrano e che non si sacrificano a niente». Dopo il massacro di Corcira, durante la guerra del Peloponneso, anche Tucidide constata, descrivendo il vacillare del mondo greco, la scomparsa di ogni rispetto, il crescente disprezzo nei confronti di ogni norma. Descrive minuziosamente come le parole abbiano mutato d’accezione, come si sia finiti per arrossire a causa del proprio essere onesti, e per vantarsi di essere perfidi o sleali. Mostra con la sua abituale perspicacia per quali ragioni questa situazione favorisca al contempo i violenti e, ancor più, i mediocri: «Coloro che avevano maggiori vantaggi», scrive, «erano gli uomini dall’intelligenza limitata. Essi andavano fino in fondo, poiché la consapevolezza della propria inabilità e del talento dei loro avversari faceva loro temere di essere vittime dei bei discorsi dei loro nemici o della loro apertura di spirito; gli altri, al contrario, disdegnando perfino di prevedere i disegni dei loro avversari e reputando l’azione superflua là dove pareva bastare la scaltrezza, si trovavano disarmati e finivano per soccombere».

Questa descrizione è commentata da Jacob Burckardt nelle sue Riflessioni sulla storia universale. Da queste situazioni, scrive, deriva un «terrorismo che rende un’impresa vera, feconda, creatrice, e che compromette il risultato di tutta la crisi; questo terrorismo invoca, per giustificarsi, la ben conosciuta scusa della minaccia esteriore, mentre in realtà nasce da un supremo furore causato dai nemici interiori in parte inafferrabili, nonché dal bisogno di possedere un facile mezzo per governare e da un sentimento crescente d’inferiorità». Sia i fatti che i loro commentari ci sembrano così familiari che li si direbbe di oggi. Senza dubbio, il nazionalsocialismo permane originale soprattutto per il fatto di provocare deliberatamente e di considerare come un ideale quel che fino ad allora non era, in ciascuna delle sue apparizioni, null’altro che uno stato di fatto, il quale non era sorto se non per forza di cose, col favore di una catastrofe o di una decadenza, e di fronte a cui tutti si accordavano nel reputarlo deplorabile. Esso ne fece una dottrina coerente, e innalzò a supremi principi dell’azione efficace, presto a leggi ideali di ogni azione lodevole, le massime distruttrici il cui uso era sempre accompagnato da un qualche pudore e alle quali i dotti, a eccezione di qualche caso isolato, non avevano ancora aggiunto il peso della propria autorità. In ogni caso, mai i politici ne avevano fatto la materia dell’insegnamento ufficiale e le massime fondamentali del governo. Questo è l’apporto proprio dell’hitlerismo: la razionalizzazione, perfino la valorizzazione e al contempo l’utilizzo consapevole, volontario, quasi tecnico, di una situazione per se stessa rovinosa, e il cui avvento per una civiltà sembra di cattivo augurio. Spesso, infatti, ne segna la fine e significa perlomeno che la buona salute dell’insieme si trova gravemente compromessa. Sarebbe senz’altro assurdo rigettare sulla sola Germania una responsabilità che l’Europa intera, se non l’insieme del mondo atlantico, condivide con questa. Essa fece della crisi il pretesto e lo strumento della sua azione su tutti i piani; i suoi filosofi ne furono i dottrinari, i suoi uomini di Stato gli operai e gli organizzatori, i suoi soldati i venditori ambulanti.

Ma il male era dappertutto: così il III Reich trovò in ogni luogo dei discepoli, dei complici. Ecco perché non ha alcun senso l’immaginare che una vittoria puramente militare potrà sistemare tutto, far rientrare tutto nell’ordine: la sorte delle armi è assolutamente impotente nel ricreare valori morali là dove questi sono distrutti. Le cose continueranno esattamente come prima, forse in maniera peggiore; l’annientamento di un esercito non servirà a niente, e nemmeno la caduta di un partito, poiché la guerra chiama la guerra, la violenza la violenza, l’astuzia l’astuzia. Una battaglia vinta mostra solo la necessità di essere forti, numerosi, ben equipaggiati, intelligenti, senza scrupoli. Essa funziona più come un condono, incitando il vinto a prepararsi meglio la prossima volta e ad agire in maniera ancor più inespiabile. Così sarà finché un manipolo di uomini, sparsi qua e là e all’apparenza impotenti, porranno in essi, tra essi e attorno ad essi i primi fondamenti di un vero ordine, cioè di nuovi segni di rispetto, la cui successiva estensione non è più, forse, che un affare di contagio.



Ludwig Meidner, Paesaggio apocalittico, ca 1912-13

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