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2015


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Civiltà della vertigine
A cura di Marco Tabacchini




Introduzione
di Marco Tabacchini

12 agosto 2015





Nel corso di una conversazione con Komnen Begirovič, Roger Caillois ha proposto di ricondurre la molteplicità dei temi dai lui affrontati a un’unica e insistente questione, spesso rimasta inapparente e come nascosta dietro i contorni propri del soggetto trattato, talvolta invece presentata già nel titolo dell’opera: «Se cerco di scoprire un loro comune denominatore, non trovo altro che un’attrazione mai interrotta per le forze dell’istinto e della vertigine, unito al gusto di definirne la natura, di smontarne quanto possibile l’incantesimo, di apprezzarne esattamente i poteri». [1] Nonostante sia possibile rinvenire, entro una simile dichiarazione, il debito — mai del tutto assolto — dello scrittore nei confronti dell’influenza surrealista, quel che qui conta è piuttosto la peculiare modalità di distinzione o di distacco operata verso il movimento d’avanguardia, là dove ad essere messa in gioco non è tanto l’attrazione o la seduzione della vertigine, bensì una certa volontà di definizione, la necessità del disincanto e l’attenta valutazione dei poteri che la vertigine non cessa di rivendicare sull’animo dell’uomo. In effetti, lungi dal costituire soltanto una traccia della sua contemporaneità, la questione posta dal rapporto tra uomo e vertigine attraversa come uno spettro tutto il pensiero di Caillois, segnando con la sua apparizione le opere più disparate. Non è un caso che, introducendo la terza edizione del suo L’homme et le sacré, l’autore confesserà l’esplicita correlazione che lega questo primo testo ai successivi studi sul gioco, sul mimetismo e sulla guerra. Dopo aver ceduto, sul finire degli anni Trenta, alla fascinazione causata dal «contagio vertiginoso» [2] e divorante del sacro, sarà la guerra, con il suo corredo di mistici, profeti e paladini, a imporsi come nuovo paradigma della vertigine, sorta di feroce quanto inaspettata riattualizzazione della ilinx che, secondo l’usanza statuita da certi giochi arcaici, avrebbe permesso di «accedere a una specie di spasmo, di trance o smarrimento che annulla la realtà con vertiginosa precipitazione». [3] Tra le molteplici forme umane della vertigine, si potrebbero senz’altro annoverare, inoltre, la peculiare vertigine indotta dalla memoria e dal ricordo, così scaltra nell’abbreviare la distanza tra veglia e sogno; senza dimenticare la particolare fascinazione che assale l’uomo nella contemplazione delle pietre, la cui quiete ottusa e immobile più volte è parsa come una prefigurazione della mortale acedia con cui gli uomini, «simili a minerali, si pietrificano come morti per il sonno e la pigrizia dei corpi». [4] Sarebbe tuttavia un errore, ammonisce Caillois, relegare la sensazione di vertigine a pochi, privilegiati ambiti della vita umana. D’altra parte, se l’abbandono alla vertigine, pur accomunando in una medesima attrazione tanto l’uomo che l’animale, non si presenta come un tratto specificamente umano, è pure vero che solo il primo si distingue per l’insistenza con cui instancabilmente vota anima e corpo a una divinità che non ha altra consistenza se non quella fornitale da innumerevoli sacrifici: «l’uomo, più sventurato, possiede inoltre un’immaginazione che è in grado di far sorgere oggetti di vertigine là dove la realtà non fornisce nulla che possa confonderlo». [5]

Che cos’è, dunque, questa vertigine, questa sensazione a tal punto pervasiva nella vita dell’uomo da deciderne le modalità di rapportarsi al mondo? Sufficientemente vago da significare diverse situazioni, spesso ridotto a figurare impropriamente a fianco di «epiteti come folgorante, convulso, frenetico, sconvolgente, che sono molto di moda nei poemi, nei romanzi e anche nei saggi», [6] il concetto di vertigine presto assume in Caillois la densità propria di un termine tecnico, oscillante tra la sensazione di uno scollamento rispetto all’ambiente, al mondo, e la paura di esserne divorati. In entrambi i casi, lo stesso «smarrimento sia organico che psichico», [7] lo stesso voluttuoso stordimento, accompagnato dal desiderio irresistibile, indecidibilmente attivo e passivo, di cedervi senza riserve, come se la decisione di acconsentire alla vertigine costituisse l’unico espediente per rispondere al timore di sparire nell’indifferenziato. È forse a causa di un sotterfugio simile che la vertigine si è imposta distinguendosi dall’alea, con cui d’altra parte condivide una medesima necessità di abbandono: se quest’ultima implica un’attesa, la sospensione della volontà fino all’irreparabile manifestarsi della sorte, con la vertigine il tempo pare contratto in un unico slancio, mentre la decisione di abbandonarsi al destino coincide con la volontaria aderenza al suo stesso corso: così come, «non appena dormiamo, la nostra pazienza e la nostra esitazione sono sostituite dalla fatalità del sogno», [8] il fatto di cedere alla vertigine significherà similmente annullare ogni distinzione tra decisione e acconsentimento. «Da qui la tentazione», continua Caillois, «di affidarsi alle forze dell’ebbrezza, dell’estasi e del delirio, del possesso e della vertigine, in una parola, a qualsiasi forma di automatismo, che viene allora ad assumere l’aspetto di libertà suprema, mentre non è altro che schiavitù assoluta». [9] Esemplare in tal senso è la descrizione della vertigine che Caillois pone, nel 1943, a introduzione del testo omonimo, lungo il corso del quale essa sarà definita facendo ricorso a una rigorosa fenomenologia dell’esperienza vertiginosa: «Va chiamata “vertigine” ogni attrazione il cui primo effetto sorprenda e disorienti l’istinto di conservazione. L’essere è trascinato alla rovina e come persuaso dalla visione stessa del proprio annientamento a non resistere alla potente fascinazione che lo seduce terrorizzandolo. Questa forza lo priva del potere di dire no, nel quale il pensiero riconosce al contempo il fondamento dell’intelligenza e quello della libertà di decisione. Sussiste soltanto l’acquiescenza asservita del sonnambulo, nella quale la volontà non ha alcuna parte e non vi è possibilità di scelta; quella forza seduce abbastanza la mente perché il consenso all’irrimediabile, che costituisce l’estrema abdicazione dell’uomo, appaia allora ai suoi occhi come dovere, grandezza ed ebbrezza». [10]

Una tale insistenza sulla dimensione della vertigine, quasi una sorta di intima coerenza tra le parti che compongono una ricerca decennale, ha portato Caillois a elaborare una teoria della civilizzazione secondo la quale la civiltà propriamente detta, con il mutamento del comportamento e della sensibilità degli uomini che di questa costituisce la conferma più apparente, avrebbe trovato il suo inizio là dove l’uomo decise di abbandonare l’impiego istituzionale della vertigine — e dei suoi correlati: possessione, panico, trance, maschera, ecc. — per privilegiare al contrario un diverso metro di valorizzazione dell’esistenza. Da un lato, dunque, una compiacenza nei confronti della fascinazione provata verso l’abisso, dall’altro il tentativo di opporsi alle sue lusinghe per conquistare quella libertà, tanto sofferta quanto precaria, di cui la civiltà si è intessuta fino a fregiarsene come il più prezioso ornamento: è solo con la decisa preferenza verso la seconda configurazione, tanto nel gioco quanto negli aspetti più seri della vita, che l’uomo «ha guadagnato l’accesso a quella che comunemente viene chiamata civiltà». [11] Il riferimento al gioco non è qui casuale, poiché il comportamento ludico si dimostra essere paradigma stesso del comportamento umano [12] in quanto tale. Quale ambito separato dalle regole quotidiane, accuratamente isolato dal resto dell’esistenza entro uno spazio riservato e protetto, il gioco si presta a divenire il dominio privilegiato di indagine del nesso tra struttura della società e struttura degli affetti. Esso espone in trasparenza la modalità specifica con cui l’uomo affronta il fatto stesso di essere al mondo, la peculiare tipologia di cultura (e dunque di civiltà) a cui l’uomo sarebbe consegnato, al punto che «il destino delle culture si legge anche nei giochi. Dare la preferenza all’agon, all’alea, alla mimicry o all’ilinx contribuisce a decidere l’avvenire di una civiltà». [13] In tal senso, per Caillois, le società arcaiche manifesterebbero una spiccata preferenza per la maschera e la vertigine, soggiogate come sono al pregio della possessione e della sacralità; al contrario, nelle società più complesse, strutturate su una più estesa interdipendenza e una maggiore divisione del lavoro, mimesi e vertigine si troverebbero accantonate a favore dei giochi di competizione o di azzardo, per i quali resta sommamente desiderabile l’elezione vittoriosa del singolo (poco importa se per qualità incontestabili o per un dono della fortuna). La progressiva civilizzazione dell’uomo, sempre più diffidente verso ogni turbamento dell’identità e amante del rischio ponderato, avrebbe comportato dunque lo svilimento degli affetti connessi alla vertigine, ormai relegata a un desiderio di evasione pericolosamente prossimo all’ebbrezza e alla trasgressione.

Caillois non è certo il solo a proporre una teoria del progressivo incivilimento dell’uomo: negli stessi anni, altri avevano proposto di trovare la cifra costitutiva del processo di civilizzazione nell’elevazione e istituzione di ideali contrastanti le esigenze pulsionali dei singoli individui, sia mediante un controllo pervasivo o una repressione delle passioni, sia per mezzo di un autocontrollo, tanto efficace quanto più inconsapevole, delle proprie emozioni. Ma quel che contraddistingue la proposta di Caillois è che in essa si è confrontati a un processo instabile e precario, sempre sul punto di rovesciarsi nel suo contrario, un processo sostenuto da dispositivi così fragili da rischiare in ogni momento di sgretolarsi sotto la pressione delle inestinguibili forze della vertigine. Certo, in tempi normali, queste «vi appaiono solo imbastardite, sconsacrate, se non addirittura addomesticate, come stanno a dimostrare diversi fenomeni proliferanti, ma nonostante tutto subalterni e inoffensivi. Tuttavia, la loro capacità dirompente resta sufficientemente forte da poter precipitare in qualunque momento una folla in una qualche mostruosa frenesia». [14] Prova ne è stata quella vertigine collettiva e come addomesticata che per trent’anni ha tenuto in scacco il Novecento europeo, contraddicendo le norme fondamentali che si pretendeva governassero una simile civiltà: e così si è visto un intero continente mobilitarsi in preda alla vertigine dell’ideale, prima ancora che alla vertigine della guerra, come se questa non potesse che seguire, giocoforza, qualsivoglia messa in scena patriottica del marciare insieme. Si tratta, d’altra parte, della questione che attraversa la principale opera di Caillois sull’immaginario contemporaneo, scritta nel 1951 e significativamente intitolata La vertigine della guerra. [15] Là dove la società occidentale sembrava aver definitivamente bandito le forze della vertigine e conquistato in tal modo il diritto di identificarsi con la civiltà per antonomasia, ecco che l’apparizione dell’irreparabile su scala totale ha nuovamente costretto l’uomo a confrontarsi con l’inquietante — e funesta — modalità del suo vivere in comune.

Nei testi che compongono il presente numero, quasi una sorta di invito a pensare con Caillois la civiltà della vertigine (nel duplice senso dell’espressione), la dimensione della vertigine sarà considerata come l’inconfessabile cifra nascosta della civiltà, come un’apparizione nel senso cailloisiano del termine, dunque come «qualcosa che sorge là dove la sua presenza è inammissibile», [16] ma che proprio per questo non può che sedurre e trascinare coloro che si pongono come i suoi più fedeli spettatori. Si tratterà, in altre parole, di condividere quel gusto inquieto per la resistenza e per la messa in questione, quell'esitazione di fronte a ogni entusiastica fascinazione, nonché la consapevolezza che è soltanto il proprio acconsentimento alla seduzione della vertigine a dotare quest’ultima del suo irresistibile richiamo. Se «l’abdicazione libera l’uomo dalle inquietudini, [...] infiamma inoltre il suo orgoglio con il pensiero di trovarsi ormai in accordo con il mondo, la vita, la storia, e di essere condotto all’abisso o alla gloria dal gorgo del destino», [17] la proposta che qui viene avanzata non potrà che coincidere con il tentativo di smontarne, per quanto possibile, l’incantesimo che ne detta un consenso assoluto, un incantesimo che trova la sua efficacia propria nel tramutare ogni accadere in un destino.


[1] R. Caillois, “Conversazione con Komnen Begirovič”, Riga, n. 23, a cura di Ugo M. Olivieri, Marcos y Marcos, Milano 2004, p. 87.
[2] Id., “Prefazione alla terza edizione” [1963], in Id., L’uomo e il sacro, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 6.
[3] Id., I giochi e gli uomini [1958], Bompiani, Milano 2004, p. 40.
[4] C. Bovillus, Il sapiente [1511], Einaudi, Torino 1943, p. 30. Cfr. R. Caillois, “Nel solco di Saturno”, in Id., Tre lezioni delle tenebre [1978], ZONA, Lavagna 1999, pp. 49-59.
[5] R. Caillois, “Vertigini” [1943], in Id., La comunione dei forti, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 54.
[6] R. Caillois, “Complaisance au vertige” [1946], in Id., Chroniques de Babel, Denöel/Gonthier, Paris 1981, p. 45. Si veda, in questo numero di Kasparhauser, la traduzione di Giuseppe Crivella.
[7] Id., I giochi e gli uomini, cit., p. 42.
[8] Id., L’incertezza dei sogni, [1956], Feltrinelli, Milano 1989, 76.
[9] Ivi, p. 113.
[10] R. Caillois, “Vertigini”, in Id., La comunione dei forti, cit., p. 53.
[11] Id., I giochi e gli uomini, cit., p. 94.
[12] A tal quanto che attorno al rapporto con il gioco sarebbe possibile articolare una delle differenze fondamentali e fondanti che separano uomo e animale, dal momento che solo il primo si abbandona a giochi d’azzardo (cfr. R. Caillois, “L’univers de l’animal et celui de l’homme”, in Le robot, la bête et l’homme, Éditions de la Baconnière, Neuchatel 1965, p. 28).
[13] R. Caillois, I giochi e gli uomini, cit., p. 54.
[14] Ivi, p. 149.
[15] L’opera, completata da una seconda parte nel successivo decennio, fu pubblicata nel 1962 con il titolo Bellone ou La pente de la guerre. Per l’edizione integrale dell’opera in lingua italiana, si veda R. Caillois, La vertigine della guerra, casa di marrani, Brescia 2014.
[16] R. Caillois, “Conversazione con Komnen Begirovič, Riga, n. 23, cit., p. 95.
[17] Id., “Vertigini”, in Id., La comunione dei forti, cit., p. 61.




Loop the Loop, Coney Island, ca 1903

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