Le pagine finali che Georges Bataille dedica al tema della guerra nel testo
Il limite dell’utile ci permettono di estrapolare una definizione provvisoria della vertigine. A conclusione di un’articolata riflessione nel corso della quale cerca «di mostrare che esiste un’equivalenza tra la
guerra, il
sacrificio rituale e la
vita mistica» [2], Bataille riferisce l’esercizio di meditazione di un asceta tibetano che giunge, infine, alla vertigine dell’estasi. Questa sarebbe legata essenzialmente all’esperienza di una perdita che investe «la vita limitata della persona», nella misura in cui quest’ultima «si perde in una realtà molto più vasta, come l’onda che erompe si perde ricadendo nel flusso che la circonda» [3]. Simile vertigine sembra corrispondere a un doppio movimento. Per un verso, in essa, qualcosa si perde, cade, si smarrisce. Essere presi dalla vertigine farebbe cioè tutt’uno con l’esperienza del mancamento, inteso innanzitutto in quanto mancamento a sé, scoperta del mancare a sé stessi e del sentirsi dunque decentrati, fuori di sé, squilibrati. Se nella vertigine di cui parla qui Bataille è in gioco un simile mancamento questo implica, allora, il venir meno della
persona in quanto dispositivo di accumulazione del senso e del possibile cui la tradizione occidentale ha demandato il compito stesso di istituire la vita, ovvero di neutralizzarne contraddizioni e molteplicità dotandola del tratto unitario dell’io. Nel mancamento implicato dalla vertigine ciò che chiamiamo
persona vivrebbe, in altri termini, l’impossibilità di dire io, ovvero di attribuire a sé gesti, esperienze e parole che siano, semplicemente, sue.
Al contempo questa vertigine sembra fare segno a un altro movimento. Il mancamento sperimentato in essa è, infatti, magnetizzato, come irresistibilmente attratto verso un luogo indistinto e tuttavia ben preciso. Ciò che di questa vita è persona e si perde nella vertigine dell’ascesi si trova, infatti, recuperato «in una realtà molto più vasta, come l’onda che erompe si perde ricadendo nel flusso che la circonda». La metafora marina aiuta a pensare quale prestazione sia in gioco in questo contro-movimento della vertigine: al perdersi della persona farebbe seguito, secondo un gesto dialettico, lo stesso recupero di questa in una forma di unità superiore, una sorta di spazio indistinto nel quale la persona si trova, infine, recuperata nella forma di una fusione con «una realtà molto più vasta». Sembra essere qui in gioco, in altre parole, l’estremo tentativo, tipico della cultura occidentale, di attribuire senso alla perdita dell’io attraverso l’assicurazione che, in fondo, vi sia «una realtà molto più vasta», come un mare indistinto e dato per presupposto nel quale la ferita aperta dalla vertigine possa essere, infine, superata e risarcita. Di più, il perdersi della «vita limitata della persona» si trova non solo compensato e ripagato rispetto alla mancanza di senso che sembra irrimediabilmente legata al venir meno dell’io, ma questo riscatto aprirebbe addirittura a un più-di-senso, del quale la «realtà molto più vasta», così come il flusso nel quale ricade l’onda, incarna, provvidenzialmente, la promessa. Al piccolo io cui da voce la persona e al suo mancamento farebbe seguito insomma il recupero all’interno di qualcosa di più grande che difficilmente ci si potrebbe rappresentare se non come un grande io monumentale, esito del perdersi e del fondersi di quei piccoli io che noi siamo in un’unità fantasmatica.
Questo doppio movimento della vertigine implica a sua volta un presupposto impensato: la perdita sarebbe un’esperienza a sommatoria zero, essa sarebbe, cioè, senza resto. Se la questione della vertigine fosse unicamente quella di un’esperienza in cui «la vita limitata della persona si perde in una realtà molto più vasta», questo implicherebbe che nulla rimanga al fondo di questo perdersi e del suo successivo riaversi: tutto ciò che era vita limitata della persona si troverebbe, infatti,
risolto e recuperato in una realtà molto più vasta, come se non vi fosse altra vita se non quella vissuta all’interno dei limiti della persona e dell’io o, simmetricamente, come se non vi fosse altra vita se non quella vissuta nei limiti ben più ampi di un’unità superiore. Pensare la vertigine secondo questo doppio movimento, ridurla a esso e non vedervi altro che esso, significherà allora pensare la vita come presa all’interno di una doppia esclusione: o «persona» o «realtà molto più vasta»,
tertium non datur, escludendo così, per principio e sin da sempre, la possibilità di pensare a qualcosa come a una dimensione impersonale dell’esistenza e, con essa, un’altra esperienza della vertigine.
Tale logica della vertigine sembra poter essere, tuttavia, problematizzata e dischiusa guardando a essa attraverso una differente chiave di lettura. L’esperienza dell’erotismo, cui tanta attenzione ha dedicato Bataille, promette, forse, di rivelare al suo fondo una vertigine radicale, irrisolvibile e tuttavia costitutiva delle nostre stesse esistenze, una vertigine che sembra, al contempo, assegnarci a un compito preciso: ascoltare, nel perdersi dell’io, l’emergere di un’insistenza, singolare e impersonale, nella quale facciamo esperienza dell’enigma stesso che ci attraversa.
Che l’erotismo abbia a che fare con una perdita sembra essere, in Bataille, un dato acquisito: «L’erotismo è scrive Bataille lo squilibrio nel quale l’essere pone se stesso in questione, consapevolmente. In un certo senso l’essere
si perde oggettivamente, ma in questo caso il soggetto si identifica con l’oggetto che
si perde. Se occorre posso dire: nell’erotismo
io mi perdo» [4]. L’essere coinvolto nel perdersi dell’erotismo è quello che Bataille chiama l’essere separato, ovvero quell’essere discontinuo e ben identificabile che io sono. Su quest’essere separato e sul principio stesso della separazione e dell’individuazione che esso incarna si fonda la possibilità di pensare alla realtà come un sistema distinto di esseri e di cose, ben definiti e quindi identificabili, ordinabili secondo una gerarchia e, per quanto riguarda quella specifica tipologia di esseri separati che sono gli uomini, imputabili delle loro parole, dei loro gesti, delle loro azioni e forse anche dei loro pensieri. L’essere che si perde nell’erotismo sarebbe allora identificabile, con buona approssimazione, con la «vita limitata della persona».
E, tuttavia, qualcosa distingue la vertigine di questo perdersi da quella della persona che «si perde in una realtà molto più vasta». Piuttosto che una perdita risolta dialetticamente, nell’erotismo l’io sarebbe esposto a un venir meno che non si lascia recuperare in un’unità superiore, come se, al fondo di questo mancamento, emergesse qualcosa, come un’insopprimibile insistenza, o, forse, come un resto della perdita che resiste, intrattabile, alla sua risoluzione nell’abbraccio fusionale, nel noi, del rapporto erotico.
In questo senso, forse, dovremmo leggere Bataille quando scrive: «la stretta amorosa è ambigua […]: essa tende a mantenersi in quest’ambiguità, tende a rendere interminabile un istante sospeso dove nulla è risolto, dove, nonostante la logica formale,
a è la stessa cosa che
non a, sebbene
a sia sempre diverso da
non a» [5]. In gioco, nell’erotismo, sembra essere allora la sovrapposizione contraddittoria di due scene: per un verso
a e
non a coincidono punto per punto, sembrano avvicinarsi sino a costituire un’unità superiore rispetto a quelle che credevano di essere, si perdono l’una nell’altra, di due fanno uno. Se possono coincidere è perché
a e
non a, l’amante e l’amato, vivono la vertigine di una perdita che li avvicina sempre più, sino a renderli irriconoscibili, sino ad avvicinarli alla fusione. I loro piccoli io si perdono, e questo è il presupposto stesso dell’abbraccio amoroso. Per altro verso, tuttavia, Bataille ci informa che, nell’ambiguità di questa stretta,
a rimane sempre, nondimeno, diverso da
non a, come se qualcosa al fondo dell’uno e dell’altro resistesse, di una resistenza muta, alla fusione dei due, ovvero come se qualcosa rimanesse al fondo del loro venir meno. Resto inassegnabile e irriducibile, un simile e non ben definibile
qualcosa fa segno, nell’erotismo, a una contraddizione insanabile: nell’evento erotico io smetto di essere io
nell’erotismo io mi perdo senza tuttavia poter accedere
tout court, senza scarto, alla dimensione del noi, come a dire che nell’erotismo l’io si perde di una perdita che resiste a ogni recupero dialettico e questo in virtù di un resto irrisolvibile che affiora come la misura stessa del perdersi dell’io.
Qualcosa nell’erotismo, allora, si rivela. Qualcosa che si viene a collocare nello spazio di una doppia negazione: né io né noi, né «vita limitata della persona» né «realtà molto più ampia», questo qualcosa, come il segreto dell’erotismo, sembra doversi pensare nei termini di un resto, che insiste e non si lascia ridurre né alla prima persona singolare né al plurale, come un resto che si depone al fondo del perdersi dell’io.
Si tratterebbe qui, in altre parole, dell’irruzione di un’insistenza al contempo impersonale e singolare. Impersonale nella misura in cui non si lascia declinare all’interno del registro della persona (nell’erotismo, infatti, «
io mi perdo»). Non è l’io il soggetto dell’esperienza erotica, così come di questo ci informa Bataille quella stessa esperienza, propriamente, non è mia, quanto piuttosto è l’accadere di un evento nel quale l’io viene catturato e squilibrato sino al mancamento. Allo stesso tempo, tuttavia, se la persona cade nella vertigine erotica, e in questa caduta qualcosa come una radice impersonale emerge, questa radice non può essere pensata come anonima, ovvero come indifferente al tratto singolare che mi attraversa e mi fa essere quello che sono. L’insistenza al fondo del perdersi dell’io, infatti, è, paradossalmente, la
mia insistenza, anche quando con il cadere dell’io cade la possibilità stessa di attribuire ad esso qualcosa, fosse anche questa stessa insistenza, questo stesso resto. Simile insistenza rimane paradossalmente mia pur senza esserlo, e questo in virtù del fatto che, se non si lascia collocare dalla parte dell’io, non si lascia collocare nemmeno nell’anonimato di un’unità superiore (
a ci ricorda Bataille è sempre diverso da
non a). Qui sta, forse, la vertigine dell’erotismo o l’erotismo in quanto vertigine: nel fare esperienza tra gli slittamenti dell’eros di perdere ciò che siamo per vivere quello che siamo.
Alla luce dell’erotismo dunque la vertigine sembra rivelare un ulteriore aspetto: eminentemente vertiginosa non sarebbe tanto l’esperienza dialettica del perdersi dell’io in qualcosa di più grande, quanto piuttosto quella di un mancamento cui corrisponde l’insorgenza di qualcosa che, in noi, non siamo noi, come un resto che non parla la lingua dell’io né quella del noi ma che, malgrado tutto, ci attraversa e fa di noi quello che siamo. Assumere questo resto, fare esperienza di ciò che della vita non è persona ma nemmeno «una realtà molto più vasta», ascoltarne il carattere insorgente e anarchico sarà, forse, il primo passo verso una civiltà della vertigine.
[1] G. Bataille, Lerotismo o la messa in questione dellessere, in LAldilà del serio, a cura di F.C. Papparo, Guida, Napoli 2000, p. 419.
[2] G. Bataille, Il limite dellutile, a cura di F.C. Papparo, Adelphi, Milano 2000, p. 117.
[3] Ivi, p. 128.
[4] G. Bataille, LAldilà del serio, cit., p. 405, corsivi miei.
[5] Ivi, p. 420.
Vettor Pisani, Lo scorrevole (1970)