E però una specie di domanda pare premere, una domanda che da me e a me e altrimenti già da tempo vado ponendo una domanda che posso qui riconoscere come sintomo di una strategia definibile come costruzione del paradigma.
Ecco: i fondi, se sono fondi, hanno da essere intangibili e non soltanto, anzi, per nulla a disposizione: per Agamben il fondo è fondo a disposizione, per Marco Baldino il fondo è fondo intangibile. Eppure, Agamben sostiene propriamente che il fondo come intangibilità è acquisibile (dico io così), solo via certa decostruzione e genealogia (lasciamo da parte, per ora, che pare si tratti di una archeologia), ossia per disattivazione e compimento del fondo come disponibilità.
Ora, a me la cosa, così come la mette Agamben, poco convince, sebbene gli si debba riconoscere un certo impegno di metodo, ossia nel lavorare la cosa secondo una dialetticità meno dicotomica, che proprio tensivo-polare.
Eppure, semplificando, resta sempre una specie di
desideratum, loltrepassamento (qui Heidegger e Benjamin si meritano a vicenda) di quella situazione della
quodlibetalità, per cui proprio quella singolarità cui spetterebbe il compito o il mero
habitus della rivoluzione, sarebbe lo stesso soggetto atteso e plasmato dal dominio dello Spettacolo.
Con ciò e questo discorso meriterebbe una ben altra cura terminologica e agilità pensativa voglio dire: non è che si rischia di ripetere Agamben che (si) costruisca il tramandamento del fondo come disponibilità donde poterne cavare la possibilità dellintangibile, quando si metta in
arché (non mero cominciamento) la differenza del filosofico e del non filosofico, donde poterne cavare la contemporaneità come “confusione non caotica” (il nichilismo secondo Nietzsche, e così già messo ad analisi da un Roberto Dionigi, non a caso sempre impegnato in un confronto, sul finire dei Settanta e linizio degli Ottanta, in ispecie con Bataille!), ossia come dissolvenza della differenza del filosofico e del non filosofico,
id est equilibrio babelico?
Ripeto: sono interessato a certe somiglianze che direi paradigmatiche.
E tuttavia proprio rilevando la opportunità di sottoporre a interrogazione la presunta neutralità di non altro, che della maniera paradigmatica (Agamben, ad esempio, spesso si difende, riparando nella paradigmaticità, da chi gli rimprovera una inintelligenza meno storiografica, che storica), chiedo infine questo: non è che, date tali premesse e tali rinvii (una costellazione comunque heideggerianamente indicizzabile se è proprio Heidegger a segnalare, nello scritto dedicato alloltrepassamento in
Saggi e Discorsi, un certo imbarazzo del pensiero, che si concentri a connotarla la già avvistata differenza tra ente posto come oggetto e ente ridotto come fondo), non è che loggi sia proprio la situazione di una impossibilità di dismettere le differenze e, insieme, della possibilità della loro dissoluzione dove possibilità e impossibilità, essendo modi maniere e condizioni, si reggono alla loro ir-riconoscibilità?
Laporia che investe il filosofico, sarebbe lunica risorsa perché il filosofico possa esporsi ai suoi dintorni? Non ci sarebbero che situazioni costruite? Blocchi di aporie in aporie? Supermodernità bloccate? E come circola laporeticità, se non può che bloccarsi? È una specie del restare-divenuti, e del divenire i restanti?
Ora, io ho usato: dissoluzione; nella presentazione del testo di Baldino è scritto: dissolvenza cè lagio, oggi chè oggi, di tematizzare questo scarto-di-crisi?
Odilon Redon, Veiled Woman,1895