La caduta (1956) è il testamento romanzato di Albert Camus (1913-1960), il compendio di una vita vissuta tra gli uomini e gli incubi quotidiani, i quali, anche se annegati nei tentativi di significazione e in un’ossessiva richiesta di felicità, restano sempre lì, incrostati nell’anima.
Quattro anni dopo la pubblicazione dell’opera Camus muore in un incidente stradale. Finisce così anche la sua carriera letteraria, [1] ma
La caduta è la fine perfetta. Cosa avrebbe potuto scrivere ancora? Il romanzo, da un punto di vista filosofico e personale, chiude un cerchio: dall’esistenza “depurata” dal male dell’Occidente monoteista, e il conseguente nichilismo che ne stana le falle, all’accettazione completa dei Greci; dalla felicità inconscia delle spiagge assolate algerine, passando per l’alba della coscienza destata dalla ‘cattiveria’ del mondo, non superata dall’assurdo e dalla rivolta, verso la felicità conscia, forse amara, di questo assurdo e della consustanziale duplicità umana. Camus, nella sua vicenda personale e filosofica, percorre a ritroso la storia del pensiero e dell’uomo, viaggiando dalle coste algerine ai caffè di Saint-Germain-de-Prés, approdando infine questa volta solo idealmente ad altre coste mediterranee, quelle agrigentine le quali tuttavia, coi loro venti e i loro flutti, ancora non riescono a coprire del tutto l’eco del tuffo di Empedocle nell’Etna.
Ma a parlarci, ne
La caduta, non è direttamente Camus, bensì il protagonista Jean-Babtiste Clamence alter ego, almeno in parte, dell’autore , l’unico vero personaggio dell’opera, il quale, resosi conto della maschera con cui ha sempre convissuto inconsciamente, svela l’essenziale ipocrisia che individua tra le cose che esistono l’esistenza umana. Perché l’uomo finge sempre: finge con gli altri e finanche con se stesso, credendosi innocente, puro, ma c’è sempre un motivo, in ogni vita, pronto a dimostrare il contrario. La viltà, che coglie Clamence all’improvviso, è il suo; ma anche l’egoismo e la vanità travestite da gentilezza e generosità: Clamence (e quindi Camus) si rende conto che la sua vita è una recita, che quello che fa lo fa per il pubblico, per l’applauso finale. L’uomo è colpevole, dunque. Sempre. «Il maggior delitto dell’uomo è l’esser nato» [2] scrive Calderón, ed in realtà è così per tutti, dai Greci «il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente» [3] fa dire Nietzsche al suo Sileno, sottolineando così l’essere “di troppo” dell’esistenza umana, vera e propria colpa, anche se non voluta né sollecitata dall’uomo ai cristiani con il loro peccato originale (quel “criminale spuntino”, come lo chiama Voltaire) sino ai nichilisti (attivi) come Camus. È infatti questo il compimento del suo pensiero. Egli, attraverso quella confessione che è il monologo di Clamence de
La caduta, ci racconta della sua sentenza definitiva riguardo alla condizione umana: gli uomini, tutti gli uomini, lui compreso, sono ipocriti e malvagi, e lo sono per costituzione. Quindi colpevoli. Questo non significa che non possano essere anche buoni e sinceri, ma vera sincerità e vera bontà sono rarissime, e troppo spesso contaminate da moti inconsci che ci riportano verso la finzione. Solo una volta che Camus-Clamence si toglie la maschera, condannando, assieme a tutti gli uomini, anche se stesso, scorgiamo nuovamente un po’ di sincerità, ma comunque sempre in bilico e sul filo dell’autocompiacimento. Solo dall’alto della propria colpevolezza, autogiudicandosi preliminarmente, si possono giudicare colpevoli gli altri, e farlo senza doppi fini, demistificando la falsa cortesia che colora i rapporti quotidiani. Non è un caso che Camus, per il suo Clamence, si sia inventato il lavoro di giudice-penitente.
L’accettazione di questa colpevolezza, e dunque anche l’accettazione della connaturata duplicità umana poiché la colpa senza l’innocenza perde di significato (siamo tutti colpevoli, ma nelle varie circostanze della vita c’è sempre chi è più colpevole dell’altro e chi, di conseguenza, è l’innocente di turno, anche se l’attimo seguente anche lui avrà la sua macchia) è la nuova via per la felicità. Nuova rispetto a quella di Sisifo che «giudica che tutto sia bene» [4] perché ogni cosa è unica e meravigliosa, che accetta l’assurdo, rivoltandosi contro il silenzio del mondo, come garanzia del pieno possesso sui suoi giorni. Quella dell’ultimo Camus è una felicità più matura, perché più realistica, ma per questo anche più amara. Sisifo è in qualche modo innocente, perché condannato ingiustamente dagli dèi (li aveva sfidati, ma per nobili fini); Clamence, invece, sa di essere colpevole per la stessa ragione di essere uomo. Ciò, tuttavia, non gli impedisce di trovare la sua felicità: «librandomi col pensiero sopra tutto il continente che mi è sottomesso senza saperlo, bevendo l’assenzio del giorno che nasce, finalmente ebbro di parole cattive, io sono felice» [5].
La felicità, o perlomeno il momentaneo allontanamento dall’angoscia, nasce proprio dal saper gestire e sfruttare questa nostra duplicità: «l’essenziale dice Clamence è potersi permettere tutto, salvo di tanto in tanto a professare clamorosamente la propria indegnità. Io mi permetto di nuovo tutto, e senza risate, questa volta. Non ho cambiato vita, continuo ad amare me stesso e a servirmi degli altri. Solo che la confessione delle mie colpe mi permette di ricominciare con maggior leggerezza e di godere due volte, prima della mia natura e poi d’un delizioso pentimento» [6]. Ma sarà poi autentico questo pentimento? O è solo un altro trucco per sentirsi innocenti in un mondo colpevole?
[1] In verità nel 1994 venne pubblicato il romanzo autobiografico
Il primo uomo, rimasto incompiuto.
[2] Pedro Calderón de la Barca,
La vida es sueño (1635), trad. it. di C. Berra e E. Caldera, La vita è sogno, UTET, Torino 1981, p. 5.
[3] Friedrich Nietzsche,
La nascita della tragedia, trad. di S. Giametta, in Opere, III, Adelphi, Milano 1972, pp. 31-32.
[4] A. Camus,
Il mito di Sisifo, trad. di A. Borelli, Bompiani, Milano 2010, p. 121.
[5] A. Camus,
La caduta, trad. di S. Morando, Garzanti, Milano 1966, p. 87.
[6] Ivi, pp. 85-86.
Albert Camus