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Esistenzialismo
A cura di Giacomo Conserva



«E Baader libero»
di Giacomo Conserva

30 marzo 2014







«E Baader libero»: un libro dalla Germania (“abbatto il muro del suono del delirio in tuo onore”)

[ovvero Die Reise (Il viaggio) di Bernward Vesper nella Germania di Stammheim: brani del «testamento di una generazione» con un carteggio di ‘scavo archeologico’ di Giacomo Conserva e Ennio Abate, e con una conclusione]

Giacomo Conserva, Ennio Abate; alla fine Fabio Ciriachi [1]
a) Documenti
b) Carteggio
c) Una conclusione

(Qui ci andrebbe un’introduzione sulla rimozione del lottarmatismo degli anni Settanta, dei riferimenti alla situazione in Germania, un paragone con la situazione italiana — magari con una citazione della poesia di Fortini dedicata ai morti di Stammheim ecc.)



DOCUMENTI

a)
Ton Steine Scherben: Macht kaputt was euch kaputt macht

Le radio suonano, i dischi suonano,
i film vanno, le TV vanno,
comprano viaggi, comprano auto,
comprano case, comprano mobili.
Perché?

Distruggete quello che vi distrugge!
Distruggete quello che vi distrugge!
I treni girano, i dollari girano,
costruiscono fabbriche, costruiscono macchine,
costruiscono motori, costruiscono cannoni.
Per chi?

Distruggete quello che vi distrugge!
Distruggete quello che vi distrugge!

Bombardieri volano, dollari girano,
poliziotti picchiano, difendono titoli,
difendono il diritto, difendono lo stato.
Da noi!

Distruggete quello che vi distrugge!
Distruggete quello che vi distrugge!

(1970)

(Una famosa canzone dalla Berlino autonoma-anarchica dell’inizio degli anni ’70 — si può facilmente scaricarla da eMule. Un gruppo di movimento, un cantante — Rio Reiser — oggetto di culto. Uno slogan che giunse anche in Italia: ‘distruggi chi ti distrugge’, Toni Negri).

b)
“Scriverò un libro”, ho detto a Burton. “Il libro si chiamerà ‘L’odio’. Odio Dubrovnik. Odio la Germania. Odio queste verdure ambulanti. Odio le auto. Odio le strade. Odio Berlino. Odio i bambini. Odio mio padre. Odio tutti quelli che hanno fatto di me un maiale. [Odio i miei insegnanti] e così via per 150-200 pagine…”

“Un bel libro”, disse Burton.

(da Bernward Vesper, Die Reise. Romanessay, Ausgabe Letzer Hand, bes. Jörg Schröder und Klaus Behnken, Rowohlt 2003 (1983), p. 20 passim; traduzione mia, qui e successivamente) (poi verrà usata la formula)

DR, p. 20 passim.

c)
Orfeo è rimasto troppo a lungo agli Inferi. (Ho attraversato l’Inferno. [Ho disimparato la paura, mentre arrostivo nelle ondate di fuoco dell’Inferno. Odisseo è rimasto troppo a lungo nell’isola di Circe. Tannhäuser troppo a lungo sul Venusberg. L’esercito del Faraone è stato troppo a lungo sotto lo specchio nuovamente richiusosi del Mar Rosso. Robert Musil è rimasto troppo a lungo sotto la tenda guardando la strada che scuriva.] Ma mi era impossibile esprimere tutto questo, mentre sedevo nell’OMBRA delle tapparelle abbassate vicino davanzale della stanza di Gerd Conradt o sulla seggiola nell’ombra e così via?

DR, p. 192

d)
Posso concepire Ulrike, quando vedo le sue ginocchia piegate (e considero lei, rimpicciolita, accovacciata sulle ginocchia), mentre sfoglia carte dai faldoni al tavolo dell’Istituto, e i due guardiani, la pistola nella cintura, seduti lì vicino che non capiscono nulla della conversazione, solo se collego tutto questo con il balzo dalla finestra del primo piano, pochi secondi dopo, mentre i poliziotti sono già stesi sul pavimento e quell’idiota si è buttato in mezzo come poliziotto ausiliario, e adesso è per terra davanti alla porta, sanguinante. E via sull’auto, e l’azione ‘riuscita’ e Baader ‘libero’. Un silenziatore ed una Beretta italiana, rimasti sul “luogo del delitto”, portano i poliziotti sulle tracce di Voigt…
Lontano dal balzo, dal suo splendore, dalla sua audacia, alle 11 di mattina in un quartiere di ville di Berlino, Voigt…

DR, p. 158 passim

e)
Aspetta ancora, finché mi avrai tutto, quando arriverà l’estate,
quando torneremo dal tempio al mare, il mare santo, che nostra madre
mentre ancora ci attende il dio che ci ha creato, che noi
abbiamo riconosciuto come la giustizia e l’amore.
Rallegrati, presto riavrai il mio corpo intatto indietro dall’inferno,
ed è solo poco tempo che ci conosciamo
felici in noi come in lui: dappertutto c’è luce, e anche là
dove non c’è, la vediamo!

DR, p. 573 (dal frammento di poesia AUS EINER ANDEREN SPRACHE, pp. 572-3)

f)
Mentre scrivo questo mi cade giù dal tavolo Love n. 5, con il comunicato di Leary, carcerato n. 26358 dello stato di California — che era prima già volato, proprio davanti a due carri armati, sopra il muro di una delle prigioni degli imperialisti. “Fratelli e sorelle! Non parliamo più di pace! Fratelli e sorelle! Questa è una guerra per la sopravvivenza. Dichiaro che adesso è in corso la Terza Guerra Mondiale. Viene condotta da robot dai capelli corti che, con l’introduzione di un ordine meccanico, vogliono distruggere la rete complessa della libera vita selvaggia. Attenti! Non ci sono neutrali nella guerra genetica… Uccidere un poliziotto robot assassino, per difendere la vita, è un atto sacro…”

DR, pp. 497-8 passim (in Italia il testo di Leary apparve inizialmente su “Re Nudo”; diceva pure: «C’è il tempo del ridente Krishna e il tempo del torvo Shiva. Il conflitto che abbiamo cercato di evitare incombe su di noi»).

g) SOL INVICTUS
Burton mi rovina il trip.
... adesso potevi piangere solo a piccoli tratti. Non c’è Nessuno cui tu possa dire che ti hanno lasciato solo, ma è una cosa buona saperlo, per te stesso. È un Punto Fisso. Non ti sposti di lì.
E i passi andavano nel vuoto, andavo senza andare, una ruota che girava e girava, un viaggio nell’abisso, in cui il tempo è immobile, lo spazio…non ne salti fuori…Si attende l’aereoplano, la gente nella sala d’aspetto guarda le tabelle, i segnali rossi e verdi: partenza-atterraggio — ma tu [non atterri, tu] vieni meno, decadi, già fra duemila anni sarai completamente dimenticato [come se tu non fossi mai esistito, già domani, quando morirai]…
Il freddo mi dava i brividi — andavo senza meta (e poi con una unica meta [disfare la separazione]…
In fondo al giardino, dietro al monumento equestre, la facciata vuota dell’edificio e improvvisamente un piegare il capo — IL SOLE! Un’arancia con strisce verdi, ma cresce, si stacca dai verdi banchi di nuvole andando verso l’alto — con lentezza, invicibilmente. IL SOLE!
Un nuovo torrente di lacrime, di felicità, di stupore. Il piccolo sole! [Nel mio più profondo abbandono]. E improvvisamente ho capito, ho spalancato le braccia. Il segreto, il mio segreto: [il nostro segreto: Felix].
FELIX È IL PICCOLO SOLE.
Mi sono girato dietro, ho chiamato Burton, che procedeva dietro siepi alte fino alla vita, più lontano due giardinieri con rastrelli e grembiule blu.
“Corri qui”, gli ho gridato.
C’è voluto molto prima che sentisse: “Guarda, il sole!”
Burton si avvicinò in silenzio, diede un’occhiata e si voltò dall’altra parte. Io ero calmissimo, felice, guardavo come il sole saliva in alto, come il rosso diventava sempre più chiaro, come la luce si diffondeva sul disco, costruiva uno spazio rossastro, diventava più chiara, BIANCA, BIANCA. “Fa male agli occhi”, disse Burton. Oh sì, e forse non si tornerà più indietro, quando il BIANCO riempie tutta la corteccia del cervello e ci si rifiuta di ritrarsi da questo stadio, dalla zona di enorme luminosità — per tornare alle vecchie condizioni….

(“Non mi disturba affatto” dissi io. Non prestavo attenzione a quello che ancora stava borbottando. Creai una linea di confine. Quando il bordo inferiore del sole si libererà del tutto dalle nuvole, mi volterò. Un meraviglioso, luminoso, splendente viaggio. Felix, il dio del sole sorge dalle ombre, percorre un cammino diritto nel maestoso cielo blu…) FELIX È IL PICCOLO SOLE. (Burton vuole rovinarmi il viaggio)

È sicuro: il sole non può volar via. Arriva. Continuerà a salire, scalderà i miei occhi, la fronte, mitemente, senza febbre. (Felix dorme. È tanto che non lo vedo! Ma oggi sì, o domani.) FELIX. (Viene da te e dice: Papà, me l’hanno preso via, fammelo restituire per favore. Ed io risi e piansi. “Il leone mi ha morso il dito” disse Felix. L’ho preso in braccio e ho detto: “Vieni qui da me, non me ne vado via, ci sono sempre…” e sono tuo Padre e resto con te fino alla fine del mondo, il tuo mondo. Smette di esistere quando anche tu smetti, e lui rise. Voglio vederlo! Devo vederlo! Non lo lascerò mai! Ci avevo pensato, di rinunciare a lui, per esempio, per intraprendere un viaggio, per sempre…)

Sono andato da Burton, che aspettava un paio di passi indietro. (Felix è il piccolo sole. A lui non potevo dirlo. E tutto il giorno ho cercato qualcuno cui poterlo esprimere. La pura Verità!). (Nulla è più come era nel 1969. In Inghilterra non governa più un governo laburista, ma i conservatori. In Francia non è più De Gaulle l’interlocutore, e nella Repubblica Federale Tedesca la CDU è stata sostituita dall’SPD come partito di governo.)

DR, pp. 110-112

h)
Il nuovo Stato

Sono passati solo sei anni — e come una meraviglia
è sorto dalle rovine un nuovo Stato,
uno Stato di pace, uno Stato in armi,
da uno solo voluto e da uno solo costruito,
una cittadella di forza, nel centro del mondo
collocato su un buon terreno,
dalla fiducia e dal coraggio di un popolo,
da pura volontà e puro sangue,
su una fede che fa miracoli!
Chi ha occhi aperti
e non è traditore o stupido
vede quello che è avvenuto e come tutto si è risolto
in bene grazie a colui che ci ha mandato Dio:
tutte le ruote in movimento, i pistoni in azione,
gioiosi al lavoro vecchi e giovani.
Il pane ben guadagnato
rende luminosi gli occhi, rossa la schiena,
e nessuno più soffre la miseria in Germania!
E la discordia civile, l’antica peste,
è finita per sempre!

il Führer posa lo sguardo…

Will Vesper — Per il cinquantesimo compleanno del Führer
(Will Vesper era il padre di Bernward)


i) 7 maggio 1969: assalto a “Konkret”

... Konkret: sugli spari di Berlino. Vomita tutto, amico mio! E lui ancora a vomitare: “L’anarchismo porta al fascismo”. E Klaus Rainer sbrodola per tre colonne, fa finta di non essere stato sposato per tredici (?) anni con Ulrike. Non ne sa niente. Non ha niente a che fare con lui — è uno sviluppo tra le cui cause Röhl non è trovabile.
Ci mettiamo in moto di notte. I rocker con i loro elmetti d’acciaio, giacche di cuoio, le croci di ferro al collo. Un paio d’auto, un furgoncino VW. Di mattina, al Gänsemarkt il fotografo furtivo che di nascosto scatta foto verso il nostro tavolo.”Tira fuori la pellicola” — Tomayer, sex bomb fuori testa, eccola qui! E lo accompagnamo giù dalle scale, mentre l’oste crepa di paura. Così, dammi la macchina, fuori il rullino, e poi fila! Ci guardava con gli occhi sbarrati, sembrava aspettarsi che lo ammazzassimo di botte. “Chiamo la polizia!” Togliti di mezzo! Corri dai poliziotti, maiale! E poi iniziò l’assalto a ‘Konkret’.
Qualche troia il giorno dopo ha blaterato qualcosa sui rossi in famiglia. Röhl tremava nell’appartamento di Rühmkorf, armato di una pistola a gas lacrimogeno. Sì, ci è sfuggito per un pelo, lui, il Capo, il piccolo imprenditore, il due volte sfruttatore, che ruba soldi dalle tasche dei rossi e giudica idiozia le loro idee, che ha cacciato via i rivoluzionari, ha rifiutato la collettivizzazione e infine, pieno di rabbia come un matto, ha levato il culo — lui che due dozzine di persone hanno trascinato via dall’ingresso della sede della rivista sbarrato dai poliziotti. Poi fuori dalla città, alla villa. La Volvo con i freni guasti, e poi una discussione con Astrid: Cazzo, Vesper, stai calmo!

Incisioni francesi finivano per terra, oggetti liberty andavano in frantumi. La pisciata si allargò ai lati della rivista sul “letto matrimoniale”, Dio lo sa, e il compagno veloce che proprio allora doveva urinare sporcò le belle lenzuola, cambiate di fresco. Vicino c’era Ulrike. “Per te deve essere un momento da ricordare” disse Benjamin.

Era la sua casa, lei l’aveva messa su, abitata, lasciata assieme alle bambine. La percorreva come una rovina, una baracca che sta per essere sacrificata ai picconi, e guardando la quale tutto sembra ripetersi, le sequenze del film, la ricerca di una casa, le ipoteche, le trattative, il lento, mortale accumularsi di oggetti, che rapidamente riempiono tutte le stanze, coprono i muri, si annidano nella coscienza, diventano pietra, un guscio di morte, che blocca qualunque rottura, barricate che ostruiscono il futuro.

È questa tutta l’offerta abitativa di un’unica casa? Sono gli scaffali delle porcellane, i letti, TV e stereo, tappeti orientali, stuoie, lampade, quadri, stanza da bagno, cucina, libri di arredamento? Bello, ma non è ancora tutto!//Adesso volano attraverso la finestra chiusa nel giardino, adesso bruciano parole Blu sulla facciata (e noi, “mentre già il BLU riempie le valli da sud a nord a 10000 metri d’altezza. Silenzio fra i braccioli del sedile del jet”).

DR 199-201


[NOTA: Ulrike Meinhof lasciò nel 1968 il marito, Klaus Rainer Röhl, editore di “Konkret” (la rivista della sinistra radicale tedesca, con una tiratura a un certo punto giunta a 100.000 copie); abbandonò la lussuosa villa di Blankenese, vicino ad Amburgo, e si trasferì a Berlino. Vi erano problemi interpersonali, e grosse differenze politiche nella valutazione del movimento extraparlamentare. A un certo punto fondò una redazione alternativa (’rivoluzionaria’) della rivista, di cui da un decennio era la principale editorialista. Da Berlino il 7 maggio del ’69 partì una spedizione diretta ad Amburgo: prima alla sede di “Konkret”, in centro, presidiata dalla polizia, poi alla villa. C’era pure la Meinhof. La Volvo ricordata sopra era l’auto di Vesper. Cfr. Aust (Der Baader-Meinhof — Complex, pp. 52-55 e 83-85), J. Seifert (pp. 363-4 in Kraushaar ed. Die RAF und der linke Terrorismus), Koenen (211 ). — Le 2 bambine finirono nel ’70 in una comune in Sicilia (da dove pare la Meinhof, passata intanto alla clandestinità, intendesse farle giungere ai campi palestinesi in Giordania); in modo rocambolesco Stefan Aust, suo amico e collega, le riportò dal padre ad Amburgo, sfuggendo poi di poco alla vendetta della RAF. — Da aggiungere che marito e moglie erano stati per anni iscritti al partito comunista clandestino, e che la rivista era stata originariamente finanziata dalla DDR (come si scoprì dopo il crollo di questa). Su tutto questo si dovrebbe pure leggere il libro di Bettina Röhl dedicato ai suoi genitori ed al loro mondo]


Libri, ed altro

(Sulla storia di Bernward V. esiste già un film di Markus Imhoof dell’86; un altro è in preparazione adesso, basato sul libro di Koenen):

B. Vesper, Die Reise. Romanessay, Ausgabe Letzer Hand, bes. Jörg Schröder und Klaus Behnken, Rowohlt 2003 (1983), — trad. di Il viaggio, trad. di Bruna Bianchi, Feltrinelli 1980 (che a me pare largamente insoddisfacente, e che non ho utilizzato qui; è comunque basata sulla originaria edizione del 1977, molto più limitata di quella letzer hand del 1983).
C. Pozzoli (a cura di), Germania: verso una società autoritaria, trad. F. Hermanin, Laterza, 1968 (trad. parziale di G. Schäfer, C. Nedelmann hg., Der CDU-Staat, Suhrkamp 1967).
J. Agnoli, La trasformazione della democrazia trad. di E. Campi, Feltrinelli 1969 (1968).
Edoarda Masi, Lo stato di tutto il popolo e la democrazia repressiva, Feltrinelli, 1976.
G. Koenen, Vesper, Ensslin, Baader. Urszenen des deutschen Terrorismus, Fischer 2005 (2003).
G. Koenen, Das rote Jahrzehnt. Unsere kleine deutsche Kulturrevolution 1967-1977, Fischer 2002 (2001).
W. Kraushaar (a cura di), Die RAF und der linke Terrorismus, Hamburger Edition, 2006.
P. Brückner, Ulrike Meinhof und die Deutschen Verhältnisse, Wagenbach 2006 (prima edizione 1976, 2a edizione ampliata 1995).
S. Aust, Der Baader-Meinhof-Complex, Goldmann, 1998 (prima edizione 1985).
Bommi (Michael) Baumann, Wie alles anfing, Rotbuch Verlag, 2007 (1975).
A. Prinz, Disoccupate le strade dai sogni. La vita di Ulrike Meinhof, trad. M. Marotta, Arcana 2007 (2003).
Bettina Röhl, So macht Kommunismus Spaß! Ulrike Meinhof, Klaus Rainer Röhl und die Akte Konkret, Europäische Verlagsanstalt, 2006.
Inge Viett, Nie war ich furchtloser, Rowohlt, 1999.
H. Glaser, Deutsche Kultur 1945 — 2000, Ullstein 1999 (1997).
M. Heidegger, Hölderlins Hymne “Der Ister” (Sommersemester 1942), Klostermann, 1982.
http://www.infopartisan.net/archive/1967/index.html
http://www.zeitgeschichte-online.de/site/40208724/default.aspx
http://www.bewegung.in/mate.html
http://www.riolyrics.de

(alla fine del 1977 in una assemblea teorizzai che bisognava uscire dal provincialismo, che la germanizzazione era la tendenza dominante — con stato autoritario, caccia agli oppositori, sfrenato dominio delle multinazionali, assorbimento dei sindacati, trasformazione della socialdemocrazia, utilizzo della manodopera straniera, lotta per la conquista di nuovi mercati e campi di investimento; che ‘bisogna imparare il tedesco”).



CARTEGGIO

6 agosto 2007

Da Giacomo

Continuo, fra le altre cose, a lavorare attorno a quel libro di Vesper, Il viaggio, e alla Germania degli anni attorno al ’68 e post. Sicuramente ci scriverò qualcosa sopra. A parte le cose di fondo, ci sono tanti particolari almeno per me totalmente inattesi: la scuola di Francoforte è quasi diventata negli anni dal ’90 in poi la filosofia di stato; un ex avvocato di Ulrike Meinhof e degli altri della RAF, a suo tempo vicino all’SDS — a suo tempo accusato di complicità con i detenuti di Stammheim — Otto Schily, ben noto allora, è stato per anni ministro dell'Interno nel governo Schroeder; Horst Mahler, invece, l'avvocato di Berlino che fu fra i primissimi fondatori della RAF, è da anni un nazionalista molto vicino ai nazi; Klaus Croissant, un altro avvocato della RAF, arrestato a Parigi fra clamore e proteste nel ’74, fu a lungo un informatore della STASI (come si è detto anche del notissimo giornalista e scrittore Günther Wallraff, cognato di Heinrich Böll); d’altra parte, una delle mie figure mitiche di gioventù, Bommi Baumann, fu nel ’73 per oltre 10 giorni minuziosamente interrogato dalla STASI sullo stato del movimento — legale e illegale — in Germania (sono stati ritrovati gli atti completi dell’interrogatorio). Ma queste sono minuzie, anche se sono il tipo di cose che non avrei mai pensato potessero succedere (ricordo ancora, detto per pura associazione, il mio sconfinato stupore quando venne annunciata la ‘fuga’ di Lin Piao e la sua morte, o il viaggio di Nixon a Pechino). Tanto per ricordare che il mondo è molto più vasto e vario di quanto a volte ci si immagina che sia (e pieno di possibilità, dunque, anche).


12 settembre 2007

Da Giacomo

“E Baader libero”: un libro dalla Germania (“abbatto il muro del suono del delirio in tuo onore”)

Bernward Vesper era figlio di un poeta sentimental-nazionalista, un poco kitsch e celebre già prima della I Guerra Mondiale, che negli anni ’30 divenne nazista. Nacque nel 1938, con il padre già sessantenne; crebbe in una tenuta semifeudale nel Nord della Germania, vicino alla brughiera di Lüneburg. Naturalmente, nei discorsi del padre e dei suoi amici, la storia girava attorno alle vicende dei prigionieri polacchi e russi che lavoravano nei campi e nella torbiera, alla fine della guerra nel rombo di bombardieri e carri armati nemici e dell’antiaerea. Da ragazzo si impegnò, seguendo il padre, nei movimenti di destra. A 20 anni andò all’Università di Tubinga, ove a un certo punto incontrò Gudrun Ensslin, una dei sette figli di un pastore protestante progressista legato agli ambienti neutralisti e pacifisti. Insieme, nel corso degli anni, furono presi dal processo di trasformazione e radicalizzazione che investì una significativa porzione della società tedesca negli anni ’60 (con una serie di tappe: il movimento antiatomico; l’affare “Spiegel” del ’62, la Grande Coalizione e la lotta contro le leggi per lo stato di emergenza, la guerra del Vietnam, la morte di Benno Ohnesorg il 2 giugno 1967 a Berlino, l’esplosione dell’SDS, il movimento delle Comuni, l’attentato a Dutschke, ecc.). Da sempre impegnato nell’editoria, fondò una piccola casa editrice, la Voltaire Verlag, che divenne uno dei portavoce del movimento antiautoritario e della opposizione extraparlamentare. Nel 1967, appena nato il loro bambino (chiamato Felix in segno d’augurio), Gudrun lo lasciò per Andreas Baader e per una attività politica sempre più dura (che inarrestabilmente la portò alla RAF, la Rote Armee Fraktion — ovvero “Banda Baader-Meinhof”, a anni di prigionia, a una tragica e oscura morte dieci anni dopo). Rimase solo e disperato (dopo averla prima innumerevoli volte tradita), combattendo una perdente lotta per tenere con sé il bambino (su cui non aveva la patria potestà, sulla base della legge tedesca di allora, non essendosi i genitori sposati). Musica, hashish e altro, vagabondaggi, sogni di lotta armata (e forse collaborazione alla lotta armata), tentativi infine falliti di tenere in piedi la casa editrice — che perse definitivamente all’inizio del ’69, fluttuanti storie d’amore — di cui la più insensata con Ruth Ensslin, la sorella 14enne di Gudrun.

Nell’estate del ’69 portò il figlio a una coppia di Undingen (cristiano-democratici, classe media, conservatori, amici degli Ensslin), che ricorrentemente se ne faceva carico. Proseguì nel Sud della Germania per il campeggio rivoluzionario di Ebrach. Infine, mentre diversi suoi amici e amiche stretti andavano in Giordania — su un furgone Ford pare fornito da Feltrinelli — per addestrarsi alla guerriglia nei campi palestinesi, scese in auto in Italia, e quindi in traghetto giunse a Dubrovnik per incontrare Ruth, che vi si trovava in vacanza con i genitori. Il pastore Ensslin ancora gli ingiunse e lo supplicò di lasciare in pace la sua famiglia. Riuscì a trascorrere una notte con Ruth, che però lo respinse. Nel pomeriggio, disperato, ripartì in auto, risalendo la costa jugoslava. A Rijeka incontrò un giovane ebreo americano che faceva l’autostop (pieno di hashish lui, tutto il tempo, e avendo con sé un trip, un acido, datogli da una sua amica prima che lei, invece di recarsi in India come aveva progettato, salisse sul Ford Transit diretto in Giordania). Bernward e Burton tornarono insieme in Germania. A Monaco di Baviera all’inizio di agosto presero insieme l’LSD. “Da allora niente è più stato uguale”, scrive a un certo punto.

Dopo qualche giorno, nella tenuta paterna, iniziò a scrivere a tempo pieno un romanzo-saggio-autobiografia, un enorme frammento. Si incrociano viaggi reali, il trip di Monaco ed altri con peyote, fumo sempre, un “semplice resoconto” — sempre più lungo e penosamente dettagliato — della sua infanzia, la Germania di quegli anni, innumerevoli figure reali (i membri della Kommune 1 di Berlino, il fondatore dei Tupamaros West Berlin, Günther Grass, l’editore di “Konkret” e marito di Ulrike Meinhof Röhl, Ulrike M., Ingeborg Bachmann, Lena Conradt e suo marito il regista Gerd, Gudrun, Ruth, Petra, Elken…), polemiche con Günther Wallraff sulla lotta armata, con Martin Walser sull’LSD, scene del celebre congresso di Londra sulla Dialettica di Liberazione organizzato da Laing e Cooper nel ’67 (cui lui aveva partecipato), un diario (immaginario?) di viaggio nel Nord dell’Italia all’interno della sinistra extraparlamentare e delle Brigate Rosse allora in formazione, un dettagliato racconto di una guerrigliera tedesca in Giordania, frammenti di giornali vari, lettere all’editore con cui era in contatto per la pubblicazione del suo libro in fieri, — perfino un fattualmente accurato resoconto della liberazione di Andreas Baader nel maggio ’70 (l’inizio ufficiale della RAF), visioni insight sogni incubi con LSD hashish mescalina anfetamine, innumerevoli citazioni e richiami (Sartre, Camus, Genet, Pavese, Reich, Laing, Marcuse, Leary, Stokely Carmichael, Eldridge Cleaver, Guevara, ecc. ecc.).


12 settembre 07

Da Ennio

[…] Così come lo presenti, un personaggio come Vesper m’incuriosisce e respinge. Non riesco a capire come avvicinarlo. Rappresenta per me il lato del ’68 più frenetico e romantico che — devo riconoscere a posteriori — mi sfiorò soltanto come discorso “per sentito dire” o per immagini intraviste (sui giornali o in persone del movimento incrociate ma non frequentate). Mi viene in mente un certo S., uno studente di filosofia che avevo conosciuto tra 1966 e 1967, quando avevo ripreso alla Statale di Milano i miei studi universitari interrotti, e dal quale avevo cercato di farmi spiegare un articolo di Badaloni su Althusser che trovavo incomprensibile. Ricordo di averlo poi rivisto ‘fatto’ (ma allora nulla sapevo di droghe), dondolante in piedi e con lo sguardo smorto, davanti all’ingresso della Statale occupata. Lo incrociai settimane dopo sotto la Galleria accanto a Piazza Duomo con Allen Ginsberg (sì, proprio lui). S. mi diede un indirizzo, forse quello una comune di allora, e un appuntamento. Mi presentai puntuale, bussai più volte alla porta indicata sul biglietto. Nessuno mi aprì. Dietro l’uscio sentivo bisbigliare persone, che forse mi scrutavano dallo spioncino e che — suppongo — diffidando di uno sconosciuto, non mi aprirono. Oppure D., uno che aveva organizzato agli inizi degli anni ’60 i primi scioperi operai “a gatto selvaggio”. Lo ricordo durante una riunione di studenti che, abbandonando la Statale chiusa e presidiata dalla polizia, erano confluiti dopo scontri con la polizia al Politecnico. Lui si offrì di buttarsi da solo contro i poliziotti per provocare uno scontro. Di recente, quasi per caso, ho trovato un sito a lui dedicato: è morto nel 1996. Ho visto sue foto, letto suoi scritti, saputo qualcosa della sua tormentata giovinezza e degli scontri feroci con un padre socialmente molto in vista. E poi c’è P., col quale ho avuto sempre un rapporto/non rapporto e una comunicazione mai veramente sintonizzata, come fra due universi che parevano continui ma nei fatti si svelavano sempre lontani. Anche lui, al di là degli incontri/scontri nel contesto preciso della scuola dove insegnammo tra ’70 e ‘78 o delle lettere che ci siamo scambiati, ha una zona di esperienza politica ed esistenziale ‘altra’ dalla mia. So che me l’ha sempre occultata. Credo per una valutazione da parte sua d’incompatibilità politica ma anche umana con me (una volta mi disse che io parlavo ancora come un contadino…). Questo diaframma è sempre rimasto. Ho sentito sempre in lui un intenzione strumentale, come di chi collochi il rapporto con te su un piano delimitato e subordinato ad altri ben più importanti per lui.

Detto questo di me, mi chiedo cosa spinge te ad esplorare un personaggio come Vesper oggi. Mi dici che nel ’77 avevi teorizzato che bisognasse sprovincializzarsi e “imparare il tedesco”. Io, per vari motivi, non ci sono mai riuscito. Ma - non prenderla come una provocazione — mi sentirei alleato della tua ricerca, se capissi cosa hai già imparato dalla tua esplorazione della Germania e cosa ricavi da questi materiali sulla vita di Vesper, cosa e come potremmo riproporre di tutto ciò su Poliscritture.


15 settembre 2007

Da Giacomo

Per un aspetto, l’idea era di utilizzare le sostanze psichedeliche per accedere a un più profondo contatto con sé stessi, la propria storia, il mondo; usarle per superare le rigidità, distruggere la corazza caratteriale, disfare quanto di disastroso famiglia, educazione, Germania avevano depositato dentro di lui (“mi avete reso un maiale”, dice a un certo punto); e, nello stesso tempo, viene sviluppata una tecnica del ricordo, del ripercorrere infinite volte il passato biografico — tolto alla banalità, alle identificazioni o controidentificazioni acquisite, sollecitato come da una lente dalla luce spietata, capace di focalizzare, ristrutturare, annientare.

Lottare contro le verdure, gli integrati, i nazisti del mondo esterno e del mondo interno; passare dall’odio all’energia grazie all’esperienza (riprendendo a modo suo una formula di Che Guevara). (E ricordi di William Blake, quello delle “porte delle percezione”: la Strada dell’Eccesso che conduce al Palazzo della Saggezza). E muoversi intanto nella realtà delle comuni, dei piccoli e grandi gruppi in trasformazione, delle discussioni e lotte collettive, sullo sfondo di un mondo dove l’ordine imperialistico-patriarcale era ovunque in crisi. Da tutto ciò non solo il legame con le tematiche di protesta e resistenza del movimento antiautoritario, ma la tensione (allora di tanti) ad innalzare il livello di scontro, ad attaccare invece di difendersi soltanto.

Il libro è così al centro di spinte laceranti. Fare i conti con il nazista dentro di sé non è così semplice, comporta una serie di rischi (Bernward Vesper ebbe all’inizio del ’71 una crisi psicotica, per esempio; e poco più tardi morì suicida); costruire rapporti ‘diversi’ con compagni e compagne non è banale; e quanto alla guerra rivoluzionaria di liberazione, al “distruggi chi ti distrugge”, si sa bene quanti labirinti, sofferenze, disastrose sconfitte e a volte disastrose vittorie comporti. E poi: osare lottare, osare vincere — è stato scritto tanto tempo fa, e la cosa ha un senso e la questione resta aperta, anche se a volte una spessa nebbia oscura il campo di battaglia, stravolge le fisionomie dei contendenti e degli astanti, a volte ne modifica la natura più interna; ma la questione resta aperta appunto, comunque; e il merito di questo libro è di porla con forza, in tutta la sua complessità e il suo caos (e a volte tutto il suo orrore e il suo squallore). Così, come scrisse Heinrich Böll nel ’77, è un libro non benefico, ma necessario. Infine messo insieme dai manoscritti e dalle note di Vesper, il libro uscì in quell’anno, l’anno di Stammheim, e trovò una grande eco e un enorme ascolto. “Testamento di una generazione”, venne chiamato; in effetti tratteggia tutto il travaglio della generazione del ’68 tedesco, il suo tentativo di fare i conti con un passato atroce e di costruire, oltre il fascismo quotidiano ed i rapporti di potere di una società autoritaria, un nuovo mondo; e testimonia pure senza dubbio la terribile violenza messa in campo in questo sforzo.

Dopo il maggio ’71, in cui morì Bernward Vesper, tante cose sono avvenute in Germania e altrove. Di molti eventi, emozioni, concatenazioni di quel periodo storico si è cancellato il ricordo, di altre si diffonde una versione unidimensionale e rosé — come se per esempio il ’68 a livello mondiale sia stato solo un glorioso momento di modernizzazione e democratizzazione, o inversamente di nascita e avvento di una nuova borghesia, o di ascesa del sistema a più alti livelli di complessità ed efficienza. È tutto vero ma c’è di più in quegli anni: un di più che va indagato e pensato — non solo per amore della verità ma anche per aiutare a restituire al reale la sua dialettica e il suo colore, la sua sofferenza ma anche il suo campo di possibilità. Così Die Reise può servire — una specie di esercizio di meditazione su sé stessi e sul proprio mondo: è esattamente quello che Bernward Vesper aveva in mente quando decise di dedicarsi alla sua ricerca.


15 settembre 2007

Da Ennio

Il tuo pezzo su Vesper può essere utile a scrostare i depositi di rimozione sul ’68 e le sue letture accomodanti, ma anche ad evitare discorsi generali su quegli anni, partendo da un’autobiografia o dall’analisi di un concreto militante o del suo libro. Ma il “di più” di quegli anni va pur valutato e chiarito. E la verità, allora raggiunta o intravista, andrebbe non solo riconosciuta ma anche riproposta ad altri/e, ai giovani, ecc. Perciò intendo chiederti: Cosa c’è da portare ad esempio nella vicenda di Vesper? La sua (e d’altri) idea di “utilizzare le sostanze psichedeliche per accedere a un più profondo contatto con sé stessi, la propria storia, il mondo” ti sembra riproponibile? Quella “tecnica del ricordo, del ripercorrere infinite volte il passato biografico — tolto alla banalità, alle identificazioni o controidentificazioni acquisite” non manca di qualcosa (del contatto con gli altri, secondo me) per fruttare sia individualmente che socialmente?

Tutto sta poi a vedere quale obiettivo uno persegue. Forse è vero che “la strada dell’Eccesso conduce al Palazzo della Saggezza”. Ma non a “cambiare il mondo”, come si pretendeva allora (e, per me, si dovrebbe ancora pretendere). Anche “muoversi intanto nella realtà delle comuni, dei piccoli e grandi gruppi in trasformazione, delle discussioni e lotte collettive” a me pare sia stato proposito insufficiente e generico. Bisognava e bisogna pur vedere quanto e cosa quelle comuni mettevano… in comune e quanto invece si chiamavano fuori da altre trasformazioni snobbate o sottovalutate. Fare “i conti con il nazista dentro di sé” non è così semplice, ma proprio per questo — vado per approssimazioni — quel tipo di lotta dev’essere contiguo ad altre lotte, perché rischia di essere assolutizzato e interiorizzato senza più scambi con gli altri/e. E troppi sono stati i cortocircuiti tra i due piani (interno ed esterno) a scapito del lavoro su entrambi che hanno caratteristiche specifiche. Per cui l’“osare lottare, osare vincere” è stato più spesso un azzardo soggettivo e disperato che un atto di vero coraggio. Spiego questo termine: per me ‘coraggio’ significa una visione realistica almeno del 70% di quella che chiamiamo 'realtà' e un azzardo del 30%; e non viceversa). Ho in mente il Lenin delle Tesi di aprile che convince gli altri suoi compagni titubanti a prendere il potere. Altrimenti, non solo non si vince neppure un attimo, ma neppure si fa un passo più avanti rispetto alle posizioni di prima; e la sconfitta stronca ogni spinta liberatrice, anche le più elementari. Vorrei capire poi bene in che senso Böll riteneva “non benefico, ma necessario” questo libro di Vesper. È forse nel senso che intendeva Fortini quando nella poesia Stammhein scriveva: “Essi hanno fatto quello che dovevano / secondo gli ordini della città non visibile. /…Sono stati uccisi. / Nessuno fu più obbediente di loro.”? Posso anche arrivare a capire che in quella Germania, con quel passato, quella generazione doveva passare attraverso quel calvario. Ma tutti i passi o quelli più significativi di Vesper vanno iscritti in quel contesto?

Nel tuo testo poi c’è un punto che mi pare non fila e andrebbe chiarito: scrivi che prima combatte “una perdente lotta per tenere con sé il bambino (su cui non aveva la patria potestà, sulla base della legge tedesca di allora, non essendosi i genitori sposati)” ma poi, forse dopo la carcerazione di Gudrun lo ottiene, se dici che “nell’estate del ’69 portò il figlio a una coppia di Undingen che ricorrentemente se ne faceva carico”?

La mia impressione è che Vesper abbia vissuto poco politicamente ma molto esistenzialmente gli eventi in cui fu coinvolto. E la vera ‘scoperta’ per lui più che il mondo politico (il movimento studentesco, ecc.) in conflitto della Germania d’allora sia stata quella dell’LSD, che gli apre le porte di una scrittura convulsa e di genere misto (“romanzo-saggio-autobiografia” tu dici). È proprio questo suo “semplice resoconto — sempre più lungo e penosamente dettagliato” che andrebbe secondo me criticamente valutato. Quanto è delirio? Quanto corrisponde a fatti accertati?

Merita davvero la definizione di “testamento di una generazione”? Io con tutta l’attenzione al singolo e alle sue sofferenze, sulla base di quanto tu ne scrivi, ho dei dubbi. Come sempre per essere un vero testamento bisognerebbe — credo — che in quel “semplice resoconto” si collegassero i nuclei di verità soggettiva con i nuclei di verità politica della Germania di allora. Altrimenti — mi azzardo a dire — credo che possa interessarti come psichiatra. È il resto che a me preme per meglio avvicinarmi anche al singolo. È il divario tra quella soggettività e le altre che fecero esperienze diverse che andrebbe colmato.

Comunque il tema è interessante. Io insisto a fare l’avvocato del diavolo (o dell’angelo in questo caso?). Tu lavoraci e poi lo proponiamo anche agli altri.
Un caro saluto
Ennio


30 settembre 2007

Da Giacomo

Scusa il tempo trascorso dai tuoi messaggi, ma sono stato preso in un vortice totale di lavoro […]. Non ho comunque smesso di pensare alle questioni poste da te, che sono quanto mai appropriate. Proverò a spiegarmi un poco. In primo luogo, dopo le morti di Stammheim facemmo una dimostrazione rabbiosissima a Parma — la più soggettivamente violenta cui io abbia mai partecipato (a parte il 12 marzo 1977 a Roma — in cui però ero stato molto più passivo). Poi. De Il viaggio mi parlò il mio migliore amico nell’’80, quando uscì; lo presi in mano, ma lo trovai eccessivamente cupo e angoscioso, e totalmente respingente. Non me ne scordai però. Molti anni dopo, occupandomi variamente di cose tedesche, cominciai a trovarne tracce molteplici in Rete. Finché quasi due anni fa lo comperai, e lentamente cominciai ad entrarci dentro — aiutato in modo decisivo infine da un libro di G. Koenen, autore di una ben nota storia del Movimento in Germania fra il ’67 e il ’77, e di un luttuoso Vesper, Ensslin, Baader. Alle origini della lotta armata in Germania. Intanto c'era l’aspetto intellettuale: decifrare un testo superstratificato-caotico, mettere in rapporto le pagine e pagine di testo con una sensata serie di eventi (solo-individuali, e storici in senso stretto). Poi: ci sono pagine di un valore estremo: le scene in contemporanea sono vive, di un linguaggio diretto e forte e semplice (meglio di quello di Handke, senza la sua deformazione elegiaca). Poi, più rilevante (e qui vengo a una domanda esplicitamente posta da te): più ci entravo dentro, più Vesper mi ricordava (completamente diverso, sì) il me fra i 15 e i 35 anni, più o meno: un mix (nomadico? Io direi caotico) di padre autoritario e distante — amato/odiato, provenienza in qualche modo alto-borghese (decaduta), rovine attorno nel dopoguerra, ricerca di liberazione individuale utilizzando ogni scorciatoia immaginabile, fascinazione per l'idea di un sovvertimento totale (ben al di là della percentuale di irrealismo che tu, giustamente, ritieni gestibile/utile), ricerca della libertà emotivo-sentimentale accoppiata a uso a volte del tutto irresponsabile delle altre persone (e, in ultima analisi, di sé stessi), mantenimento non detto di tutta una serie di dipendenze decisive. Come ti ho scritto, ritengo il libro anche la cronaca di una malattia: non mi ci sono trattenuto, perché (e probabilmente sbagliavo) mi sembrava evidente: che un tale stile di comportamento e di scelte, l’uso sfrenato di sostanze, l’instabilità di rapporti, la eccessiva disarmonia interna e violenza interna (e a volte esterna: vedi per esempio la cronaca dell’attacco alla villa di Rohl, ex-marito di Ulrike Meinhof e direttore di “Konkret” — una rivista di sinistra estrema molto importante —, che si era distanziata dalla sinistra extraparlamentare nel ’69 — che penso tradurrò prossimamente e inserirò nel testo — la cronaca è appunto francamente agghiacciante, come per esempio erano stati agghiaccianti i comunicati sul fratello di Peci, o un messaggio di Gudrun Ensslin a Kurt Wagenbach della fine del ’76 che ho letto pochi giorni fa: — come ho pure letto da un’altra parte, la lotta armata e la violenza sono spesso molto più affascinanti viste da lontano che da vicino). Vi era comunque in Vesper (e in quegli anni in senso lato) una energia estrema, che mi interessa riconsiderare. Per quanto mi riguarda, a un certo punto (inizio dell’’80, grosso modo) mi sono quasi completamente azzittito su troppi temi: un po’ perché non condividevo, o non condividevo più, i principi portanti; un po’ per paura (paura della polizia, paura dello sguardo degli altri, paura), un po’ per pura angoscia. Mi ci sono voluti anni — difficili — per venirne un poco a capo. Quando ho ricominciato a occuparmi di politica in senso lato, la struttura del silenzio è stata elusa, non affrontata (il massimo di formulazione è stato del tipo: quelle cose avvenivano allora — senza dettagliare a me stesso in primo luogo di cosa esattamente parlavo —, ma adesso i tempi sono diversi, possiamo tutti insieme occuparci in modo più irenico di altro — di qui l'interesse per i Verdi per esempio. È una soluzione, ma non ottimale; troppo rimane fuori). A ogni modo: occuparmi di Germania (che per una serie di motivi mi ha sempre interessato: all'origine p.e. le copie della “Illustrazione italo-germanica” bilingui degli anni dopo il ’43 trovati nella soffitta della casa di campagna di mia madre; e la scia della Seconda guerra mondiale, con sigle e nomi che mi affascinavano: OKW, Rommel, Von Keitel, Stuka ecc. ecc. — tieni conto che per me bambino i tedeschi erano i perdenti assoluti, dotati comunque una forza comunque del tutto superiore a quella dei fascisti italiani) (mio padre era liberale, con un passato antimonarchico e non-fascista; mio nonno materno, morto suicida nel ’44, era un medico importante e gerarca di medio livello, per quel poco che sono riuscito a capire) — occuparmi di Germania è un modo che ho trovato per fare un po’ i conti con il mio passato (e il passato di un po’ d’altri); tieni conto, per concludere, che nel ’75 dedicai il libro di Blake ad Anna Maria Mantini, dei Nuclei Armati Proletari; che poco dopo scrissi una lunga poesia su Margherita Cagol (che certo non ho più fatto girare, ma che ancora trovo molto bella); che poi nel ’78 scrissi Ziggy Stardust sognando sognando sognando di essere lontano dalla semi-guerra civile che infuriava attorno. Per dire che ero un po’ confuso, come tanti. Credo non fosse scontato che mi salvassi dai vari rischi (crollo mentale, licenziamento, arresti per motivi veri o presunti ecc.). (Non ho mai partecipato alla lotta armata).


30 settembre 2007

Da Giacomo

Mi accorgo di non avere concluso una frase — preso da una lunghissima parentesi: mi sembrava dunque evidente che lo stile di comportamento di Vesper diventasse sempre più idiosincrasico, pericoloso, infine del tutto patologico; e una psicosi maniacal-delirante, come quella in cui entrò francamente all’inizio del ’71, e che lo portò a mesi di ricovero psichiatrico obbligatorio, con suicidio infine il giorno prima della dimissione, è quanto di più patologico si possa immaginare; pur mettendoci dentro l’Anti-Edipo e Laing ecc. è evidente che dal suo ‘viaggio’ lui non è riuscito a uscire in condizioni decenti e accettabili (anche se quanto vi ha scoperto e vissuto può essere estremamente significativo per gli altri).


5 aprile 2008

Da Giacomo

…ho pensato a lungo alle note che proponi di mettere: ma come si fa? Lin Piao, Mao, Klaus Croissant, Rudi Dutschke, l’affare “Spiegel”, la Grande Coalizione, la Stasi, gli Stukas…: è come dovere spiegare passo passo la storia di 50 anni — o una sua porzione significativa. E poi la spiegazione è sempre unilaterale e per forza parzialmente falsa, e fuorviante. È al di là delle mie capacità. Diciamo che sono un sopravvissuto (che vive ancora, sottolineo), o che bisogna studiare (come ha detto Fortini, appunto: le Chinois, ça s’apprend).

Le uniche cose che mi sento in dovere di aggiungere sono bibliografiche, e ad personam. Right on. Per Mara (e per Ulrike, NdR) apparve sull’“Erba voglio” nel 1976; Ziggy Stardust, i Ragni di Marte ed il rapimento di Aldo Moro su “A/traverso” all’inizio del ’79. Poesie di William Blake, con scelta e traduzione mia, è stato stampato dalla Newton Compton nel ’76 (e poi ristampato almeno altre due volte).

E poi che, naturalmente, la Germania è per me anche Hölderlin e Brecht e Goethe e Adorno e Fassbinder e Wenders e…



UNA CONCLUSIONE

Considerazioni su Il viaggio

Fabio Ciriachi

Ho incontrato Il viaggio, di Bernward Vesper, all’inizio degli anni Ottanta. Vivevo ad Arezzo, allora, e dopo una lunga assenza dalla pratica della scrittura, stavo lentamente considerando la possibilità di riprendere la penna in mano; questo, per dire che l’ho letto con gli occhi del potenziale scrittore. A interessarmi subito, nella quarta di copertina, era stata la dichiarata intenzione di scrivere un romanzo sotto l’egida, diciamo così, psichedelica. Durante gli anni Settanta avevo accumulato una discreta esperienza diretta con l’LSD. Caratteristica comune ai sempre diversi viaggi fatti in quel periodo, la loro incompatibilità con l’espressione verbale. Dominavano le immagini, travolgenti; e solo di rado pensieri balenavano in profondità (ovvero, il più possibile lontani dalla loro resa in parole), tanto in profondità da sembrare tutt’uno con la violenza delle emozioni. Annichilimento, stupore, espansione, scoperte folgoranti e indicibili. Ecco, indicibili è il termine esatto con cui potrei etichettare quelle esperienze. E Vesper, invece, ci aveva costruito sopra una buona parte del suo lavoro!

Devo dire che il libro, poi, mi aveva talmente interessato per la sua cruda incompletezza di opera postuma che la specifica curiosità iniziale si era diluita presto nel piacere delle tante scoperte impreviste offerte in abbondanza da quel suo essere laboratorio a cielo aperto, lavoro in corso che il suicidio dell’autore aveva fissato a metà delle spazio fra intenzioni e risultati. Ulteriore interesse per Il viaggio, la sua ambizione di costituirsi come opera unica e definitiva, onnicomprensiva; desiderio che, nell’intimo, molti scrittori covano, e che raramente si concretizza per le immani difficoltà che comporta. Per anni e anni questo grande e dimenticato laboratorio compositivo - solo relativamente spia di una certa stagione politica in quanto, nel suo estremismo, rappresenta fino in fondo solo l’autore — è rimasto misconosciuto. Qualche mese fa, poi, ne ho letto in un articolo di Franco Cordelli su Uwe Tim apparso, credo, sul Corriere della Sera, e ora, questa bella iniziativa di “Poliscritture” che, mi auguro, possa preludere a una ristampa de Il viaggio. Di nuovo — a riprendere oggi in mano la vecchia edizione Feltrinelli, con le pagine dai bordi sempre più ingialliti che assediano il cuore della scrittura — un sentimento di enorme pena per il piccolo Felix (figlio dell’autore e di Gudrun Ensslin) a cui il libro è dedicato e che, immagino, avrà avuto non poche difficoltà a capire la feroce ironia di quel nome in rapporto al tragico destino di sua madre e suo padre. A proposito di Felix: se ne sa qualcosa? È vivo? Ce l’ha fatta?


[1] Da “Poliscritture”, n. 4, maggio 2008, pagine 52-61 (tutto il numero in pdf in backupoli.altervista.org. Ennio Abate era (ed è tuttora) il direttore della rivista, oltre che un amico. Fabio Ciriachi compare su questo numero (v.). Questo testo dall’andamento labirintico nacque dall'incontro/scontro del mio lavoro su Vesper (e la Germania) – che era pure un tentativo di iniziare a fare i conti con la mia identità e il mio passato – e la visione del mondo e politica di Ennio. Non fu banale; mentre il mio progetto iniziale era di fare un testo normale, alla fine, davanti all'aggrovigliarsi e invilupparsi dei discorsi, e alla rilevanza dei temi che venivano a galla nello scambio di lettere, mi venne una idea (presa a prestito, si parva licet componere magnis, dalla storia della corrispondenza Artaud/Rivière del 1923): pubblicare tutto, caotico e labirintico per quanto fosse; il caos stesso era comunque, mi pareva, molto significativo e istruttivo. Ennio, con la redazione, accettò la mia proposta. Così si andò alla stampa (con l'integrazione di una bella lettera giunta in medias res da Roma da Fabio Ciriachi, che ancora non conoscevo). Il tutto probabilmente non agevola la lettura, ma credo sia stato il prezzo pagato per provare a DIRE il quasi indicibile.


Bernward Vesper


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