In questi tempi di crisi economica, culturale, politica e sociale fa bene, a mio avviso, riflettere sulla metafora ‘escrementale’, di ascendenza evidentemente freudiana, che Paolo Volponi ne
Il pianeta irritabile mette in bocca al nano Mamerte detto Zuppa durante l’alterco con il governatore del sommergibile Moneta, ovvero l’ultimo uomo restante al mondo assieme a lui. Questa metafora può risultare, infatti, illuminante dello stato dell’essere umano che vive la propria condizione di alienato dagli oggetti arbitrariamente tesaurizzati del consumismo nel mondo occidentale fra le due guerre fino al cosiddetto
Boom economico, ovvero intorno a quei decenni, dagli anni Venti alla prima grande crisi petrolifera del 1974 come
terminus ante quem, che voglio prendere in questa sede come oggetto precipuo d’indagine e attraverso cui cercherò di esporre le linee fondamentali della riflessione filosofica intorno al tema esistenzialista del ‘malessere’.
L’equazione psicanalitica tra denaro ed escrementi è ben nota: l’essenza stessa del denaro è la sua assoluta mancanza di valore; nella totale soggezione dell’uomo a Denaro e Potere, nell’accondiscendere alla logica del capitale, l’uomo sembra voler paradossalmente ovviare alla propria crisi di identità, alla perdita dell’auto-identificazione primaria, ovvero il riferimento al proprio corpo, fatto oggetto d’onta e di rifiuto da parte della società. La società civilizzata riveste infatti d’orrore tutto ciò che rimandi all’intima fisicità del corpo, ma questo desiderio di autoaffermazione di natura evidentemente sessuale ritorna come pulsione istintuale, come
transfert, indirizzandosi sul denaro, nella bieca e bestiale vittoria della logica del possesso; un po’ come già voleva suggerire, in una sorta di fiaba orrorifica moderna, lo stesso Erich Von Stroheim nel suo film capolavoro, l’iconico e profetico
Greed (
Rapacità, 1924), all’interno del quale cinquemila monete d’oro vinte in una lotteria porteranno alla rovina per avarizia patologica una coppia di coniugi sullo sfondo dei
Roaring Twenties.
Fatto sta che anche il rifiuto dell’istintualità naturale, nel nome delle norme etiche e sociali, ha definitivamente snaturato l’uomo, sottraendolo ad ogni piacere originario e rinchiudendolo nel circolo artificiale della pulsione di morte. Attraverso l’evolversi del ‘Progresso’ neocapitalistico, il principio di realtà sembra prevalere sul principio di piacere, l’istinto di morte su quello di vita, ed attraverso lo spostamento, ogni residuo pulsionale si concentra sul ‘denaro-merda’, così come lo intendevano Freud e Ferenczi (1). Del resto, Norman O. Brown nel suo
La vita contro la morte lo aveva detto chiaramente: “gli escrementi sono la vita morta del corpo, e fino a che l’umanità preferirà la vita morta al vivere, essa dovrà trattare come escrementi non solo il proprio corpo ma anche il circostante mondo degli oggetti, riducendo tutto a materiale inerte e a quantità inorganiche. La nostra tanto vantata oggettività nei confronti del nostro cosmo, degli altri e dell’universo, tutta la nostra razionalità calcolatrice, da un punto di vista psicanalitico è un’ambivalente mescolanza di amore e odio, un atteggiamento adatto soltanto a un animale che ha perso il proprio corpo e la propria vita” (2).
È proprio lo ‘sporco denaro’, assieme all’apparente accumulazione dei beni, a sviare l’uomo dalla propria natura originaria, fino a farlo trascendere in un’astrazione, l’
Homo Oeconomicus nel senso di Walras, Veblen, Keynes e Simon, che raggiunge le più alte vette della disumanizzazione in quanto perde il contatto con il corpo, coi sensi, col principio di piacere; quello stesso principio di piacere che i “ragazzi di vita” di Pasolini, all’interno dell’omonimo romanzo del 1955, mantengono vivo e pulsante, però attraverso i modi della degradazione, anch’esso spostato in direzione del Dio-Denaro, se è vero che i soldi comprano anche il vizio e il sesso.
Tale perdita definitiva del ‘corpo’ è anche perdita d’identità e di individualità differenziante, tanto che l’oggetto del neocapitalismo, frutto del lavoro alienato dell’individuo-senza-corpo, (dall’elettrodomestico al computer all’opera d’arte) è per eccellenza ‘indifferente’ a se stesso e all’utente, spersonalizzato e ‘deontologgizzato’. È un concetto opposto al deleuziano
corpo senza organi, consistendo quest’ultimo in una concezione del corpo come libera fluttuazione senza organizzazione, di contro al ‘corpo’ tradizionale, organizzato e normalizzato, inquadrato in un inconscio coercitivo e desidericida. Al contrario che in Deleuze, il corpo-oggetto subisce un processo di reificazione cristallizzante, e questo processo coinvolge non soltanto gli oggetti d’uso, le ‘cose’ nel senso più immediato del termine, ma anche il pezzo artistico in quanto prodotto.
In questo senso, per dirla con le notorie parole di Walter Benjamin, “ciò che viene meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di ‘aura’”, ovvero quel
quid imponderabile di natura radicalmente sacrale che identificava l’imprescindibile unicità dell’oggetto d’arte. All’interno de
L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica (1936), Benjamin teorizza la perdita dell’ ‘aura’ da parte dell’attività artistica. Con l’avvento dell’era della riproduzione tecnica, la qualità magico-rituale dell’arte, che ne costituiva l’inavvicinabilità, viene a perdersi a tutto vantaggio dell’accessibilità normalizzata a tutti e di un nuovo valore espositivo che l’arte stessa acquisterebbe. Infatti la tecnica della riproduzione “sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi” che ne determinano il carattere di massa (3). Secondo Benjamin, a causa dell’introduzione delle tecniche di riproduzione (fotografia, cinema, fonografo eccetera), l’opera d’arte si vede costretta dalla fine del secolo scorso a rifugiarsi nell’astrazione concettuale per ovviare alla sua perdita di competenza, ma la scelta di questo nuovo linguaggio non fa che esiliare l’artista dal mondo e allontanarlo dalla massa che non lo comprende più: si passa da un primo momento espositivo dedicato a tutti ad una progressiva specializzazione dell’arte d’avanguardia sempre più incomprensibile alla maggioranza; oppure, dall’altro lato, che è poi ciò che in questo discorso critico maggiormente ci interessa, si passa all’appiattimento di certe espressioni artistiche lanciate verso la produzione e il consumo di massa.
L’uomo della massa quindi, è un individuo letteralmente senz’arte né parte, un uomo che ha perso il senso della bellezza estetica e primigenia delle cose, il quale, nel ritratto che ne dà Elémire Zolla nel suo
Eclissi dell’intellettuale, si crogiola fra attivismo e irrazionalismo, fra spot pubblicitari e stadio, fra canzonette e film strappalacrime, sguazzando in ciò che oggigiorno chiameremmo pacificamente
il trash.
A questo riguardo l’opinione di Zolla è ferma: “in genere i mezzi dell’industria culturale sono ricercati per sfuggire alla noia, ma proprio per aver soggiaciuto ad essi la noia cresce e chiede altro alimento: la noia si placa nutrendola e nutrendola si accresce. Le ignare vittime volontarie potrebbero vincere il loro tedio soltanto rinunciando ai mezzi con cui lo combattono” (4). Sembra questa la definizione per eccellenza della legge del consumismo, tanto che verrebbe voglia di citare il Manifesto del Blaue Reiter, il quale appare davvero profetico dello stato in cui versa la società dal
boom economico fino ad oggi: “l’umanità ha convertito in pietra ogni pegno della sua intelligenza, il mondo è colmo alla saturazione. Ogni parola è presa in prestito, l’eredità è stata consumata, il mondo è usurato dalla banalità. Perciò avanziamo in terra vergine, tremando”.
Tuttavia, ogni avanguardia cade prima o poi nelle malie lusinghiere del Sistema; infatti l’uomo massa solo apparentemente rifiuta l’arte d’avanguardia adducendo come giustificazione la natura della sua incomprensibilità elitaria: è pronto invece ad accoglierla appena essa diventi ‘prodotto’, ovvero nel momento esatto in cui essa comincia a soggiacere alle leggi di mercato: così è successo anche alla Neoavanguardia italiana. Ad esempio per quanto riguarda la poesia, Guido Guglielmi ed Elio Pagliarani, nel loro
Manuale di poesia sperimentale (1966), affermano che il poeta contemporaneo non può contribuire alla ricerca di una nuova koinè linguistica, cioè non può intervenire sui rapporti reali tra gli uomini, perché (i due rappresentanti della neoavanguardia se ne rendono perfettamente conto) egli è troppo condizionato dall’industria e dalla sua “politica di comunicazioni di massa”. In questa lucida affermazione si evince un’accorta intelligenza del tempo e, soprattutto, la piena coscienza di soggiacere ad un condizionamento neocapitalistico assoluto; ma così il poeta potrà soltanto occuparsi del mondo dal punto di vista di un linguaggio sperimentale, lì dove la letteratura sembra aver definitivamente perso la propria funzione sociale, nonostante tutti i proclami di impegno. Ed ecco allora come conseguenza lo strappo, la chiusura asfittica dei canali di comunicazione con il pubblico, ecco l’incomprensione, ecco il progressivo allontanamento dei lettori dalla poesia (da quella che non sia mera
performance esteriore, beninteso, la quale pur sempre attira gli allocchi): ecco insomma, dopo l’odierna crisi del sacro, l’odierna crisi del poetico. Ma questo è un altro discorso.
Tornando a noi, ed azzardando una categorizzazione, potremmo affermare che la differenza sostanziale fra l’Ottocento e il Novecento consisterebbe nelle due diverse figure che vi campeggiano: nel corso dell’Ottocento a trionfare era il borghese dedito al Dio Commercio; nel Novecento, foriero delle attuali sventure economiche e sociali, vediamo nascere e trasformarsi il perfetto avatar del borghese, l’uomo-massa di Ortega y Gasset il quale, per la prima volta, bypassa compiutamente le distinzioni in classi, se è vero, com’è vero, che “il direttore d’azienda e il fattorino guardano gli stessi spettacoli, pensano le stesse cose”(5) .
Possiamo delineare un facile identikit comportamentale dell’uomo-massa così come sarcasticamente ce lo propone Elémire Zolla dall’alto della propria sardonica sagacia: l’uomo-massa ha fatto dell’efficienza la sua ragione di vita e sa schivare i pericoli del sentimento; stipa la mente di notizie superflue e informazioni inutili, per evitare le domande interessanti e i problemi reali (conosce per esempio a memoria intere canzoni o la formazione della squadra di calcio preferita); si affida al processo di omologazione per non sentirsi inferiore o diverso (scrive Zolla: “la massima segreta dell’uomo-massa risulta: io so di essere un verme, ma debbono esserlo tutti; sono disposto ad adorare un altro verme purché si riconosca tale” (6)); ha la capacità di tenersi occupato intensamente, ma di cose che non servono a niente; non accetta ogni altro-da-sé per razzismo e per paura; si abbandona ad una serie di contraddizioni, in base alle quali ciò che annoia lo diverte, ciò che ha dignità per lui è risibile; in buona sostanza, egli è uno schiavo volontario che invece di eliminare la schiavitù storica vi si è adagiato comodamente socializzandola attraverso il
Kitsch, che è l’emblema della sua noia quotidiana.
L’Homo Oeconomicus in definitiva sembra a sua volta assumere facilmente i tratti sociologici delineati da Max Weber: l’accumulazione dei beni come dovere; la riduzione in termini quantitativi del proprio successo, anche in ambito morale; il lavoro produttivo come ultimo scopo dell’esistenza; l’etica della competizione per la selezione dei migliori; l’ordine razionalistico della propria vita che escluda l’emozione ingiustificata, il capriccio, il sentimento superfluo; la repressione del piacere, giacché il borghese soggiace eticamente a due valori cristiano-medievali: da una parte la lecita procreazione, dall’altra l’illecito piacere, che sdoppiano la figura della donna, a sua volta angelo del focolare o prostituta. Si noti come una tale descrizione fosse valida nella società italiana fino agli anni Settanta, epoca di strapotere da parte della Democrazia Cristiana, e come invece la repressione del piacere si sia modificata nei ben più edonistici e berlusconiani anni Ottanta fino ad oggi.
All’interno di questa dimensione sociale desolante, la realtà in divenire acquista il carattere della simultaneità fotografica, le cose perdono l’aura e vengono a coincidere con la loro stessa riproduzione meccanica. E l’uomo? Si ritrova ad essere meccanismo tra i meccanismi, o peggio, meccanismo al servizio dei meccanismi. L’uomo perde la propria libertà a favore di una massificazione che significa soprattutto omologazione dei costumi e del pensiero. Ed è qui che subentra l’esistenzialismo come filosofia atta ad organizzare in termini razionali ciò che di nichilistico ed irrazionale stava accadendo, in quei determinati frangenti storico-sociali, all’essere umano ed al Soggetto in quanto tale. Ecco che massa, alienazione, nausea e reificazione sembrano dar luogo ad una sorta di novella filosofia delle quattro parole, all’interno del cui dipanarsi concettuale vige il motto di Søren Kierkegaard in base al quale l’uomo è la perfetta fusione fra un animale e un angelo, in quanto tale prova l’angoscia, e quanto più è nobile la sua grandezza tanto più la sua angoscia è profonda.
Ovviamente queste categorie analitiche sono tanto più interessanti quanto più appartengono alla storia della critica e della filosofia immersa nel tempo reale in cui questi fenomeni prendevano piede:
Eclissi dell’intellettuale è del 1959; dal canto suo,
Minima Moralia di Theodor Wiesengrund Adorno, la raccolta di aforismi che smascherano la vita del borghese analizzata nei suoi gesti quotidiani attraverso i metodi della psicanalisi e del marxismo, è del 1951 e si pone certamente come pietra miliare di questo discorso critico.
Lo stesso concetto di ‘massa’ ha un’elaborazione decennale che vede i suoi massimi teorici nel Sigmund Freud di
Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921) e nell’opera di Josè Ortega Y Gasset. Nella teoria dello psicanalista viennese la massa rappresenta, per il singolo, un momento in cui egli può liberare il proprio inconscio attraverso i comportamenti irrazionali, le suggestioni, la partecipazione emotiva, l’identificazione con un capo, l’appartenenza ad un gruppo o alle istituzioni. Nella massa e nei suoi modelli emergenti l’individuo ricerca, secondo Freud, la sublimazione degli istinti che risultano deviati dal loro carattere originario istintuale ed inconscio. Questa concezione attribuisce alla massa una qualità positiva in quanto essa costituirebbe una valvola di sfogo per la libido e per le pulsioni psichiche riposte, anche se, per Freud, la massa detiene in definitiva un carattere di irrazionalità precostituita, interpretazione di evidente natura conservatrice.
A sua volta, Josè Ortega Y Gasset nel fondamentale
La ribellione delle masse (1930) afferma che la concentrazione e la massificazione delle folle deriva dallo stesso sviluppo produttivo e tecnico che predispone condizioni di vita uniformi e normalizzate: gli individui stessi, anzi, favoriscono la propria massificazione in quanto soggiogati e gratificati da essa e dagli standard in essa vigenti, attraverso un conclamato e disarmante atteggiamento socialmente passivo. Tuttavia, Ortega recupera all’uopo il concetto di ‘minoranze’, ovvero gruppi sociali che per il tipo di cultura, di partecipazione, di morale e di ideali si distaccano dalla massa omogenea non volendone subire lo stato di livellamento generale.
Nello stesso periodo in cui opera il filosofo spagnolo, György Lukács scriverà
Storia e coscienza di classe (1923), opera nata, com’è noto, da una profonda elaborazione del pensiero marxista alla luce di una prospettiva dialettica e rivoluzionaria in senso ‘occidentale’. In questo saggio, Lukàcs discuterà, oltre al legame fra Hegel e Marx, al concetto di merce nel sistema capitalistico e al nesso teoria-prassi, anche il tema qui centrale dell’alienazione a sua volta interpretata partendo dal concetto di fondo della reificazione. Il filosofo ungherese porrà così le basi dell’elaborazione di questi concetti in chiave contemporanea per l’intero Occidente capitalistico e industrializzato.
Nel frattempo, gli orrori della seconda guerra mondiale in Italia avevano avuto l’effetto di risvegliare le coscienze in direzione dell’impegno politico ed ideologico, ma nel giro di un decennio le istanze post – resistenziali sembravano aver esaurito larga parte della loro spinta e le correnti artistiche e di pensiero ad esse collegate si avviavano verso una problematica modificazione: fu questo forse il motivo per cui, fra gli anni Cinquanta e Sessanta ed anche oltre, grande influenza ebbe sullo sviluppo del pensiero italiano, ma anche europeo ed americano, il fenomeno di un certo ‘riflusso’ delle tendenze storiciste laiche e marxiste. A questo proposito scrive Giulio Ferroni: “il quadro della cultura italiana dopo il ’68 ha visto un totale arretramento dello storicismo […] La nuova vitalità del marxismo soprattutto a ridosso del ’68 si è posta del tutto al di là della tradizione storicistica, con notevoli sviluppi nell’ambito del marxismo “critico”, che si è riallacciato al pensiero del giovane Lukács, agli insegnamenti della Scuola di Francoforte o alle originali elaborazioni del marxismo americano (particolarmente vivace negli anni Sessanta)” (7).
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta questa tendenza porterà poi al sorgere di una nuova corrente di pensiero filosofico e sociologico la quale, partendo dalle istanze ideologiche del marxismo così come era stato interpretato dai teorici della Scuola di Francoforte, si porrà come obiettivo primario l’analisi della società contemporanea nelle sue manifestazioni vitali di massa. Si tratta in breve di un marxismo di impronta “critica” che riversa le sue indagini sulla cultura di massa cercando di individuarne i contenuti e le motivazioni. Esemplare di questo discorso critico fu l’opera di Herbert Marcuse, filosofo della Scuola di Francoforte non a caso emigrato negli Stati Uniti, che influenzerà in breve tempo il pensiero marxista ed avrà un certo peso in Italia soprattutto sui numerosi gruppi studenteschi che sorsero prima e dopo il fermento vitalistico della Contestazione.
Nel suo cogliere nel processo dialettico hegeliano l’importanza del momento negativo, inteso come fattore critico che aiuta l’interpretazione del dato oggettivo alla luce della razionalità, secondo un modo di ragionare che avvicina Hegel a Marx ed alla psicanalisi di Freud, Marcuse riesce in special modo attraverso due opere ad influenzare il pensiero europeo dell’epoca: cioè con
Eros e civiltà (1955) e soprattutto con
L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata (1964). Mentre nella prima opera l’istanza psicanalitica freudiana si rivolge all’analisi dei modi con cui l’individuo si integra nella società attuale, nel secondo Marcuse attua una critica sistematica della società industrializzata nella quale l’identità personale dell’individuo viene schiacciata da forme di prevaricazione, strumentalizzazione e repressione che la società impone attraverso metodi solo apparentemente tolleranti. Dato che la classe lavoratrice, in special modo quella americana, risulta ormai inquadrata perfettamente nel Sistema, soli depositari di una possibile ‘alternativa’ rimangono, secondo il filosofo berlinese, gli strati più emarginati del Terzo Mondo, che dovranno imparare ad opporsi allo stato delle cose e al Neocapitalismo imperante.
La prospettiva di una ‘società del benessere’ sul modello americano, infatti, è per Marcuse oggetto di pesanti critiche: accanto al raggiungimento di un agiato tenore di vita e alla possibile diffusione della cultura a livello capillare attraverso i mass-media, fra le altre cose, non dobbiamo dimenticare che la produttività della società neocapitalista “tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per l’esistenza, individuale, nazionale ed internazionale […] [la società industriale avanzata, inoltre] sa domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato tenore di vita” (8). In quanto tale la forza del neocapitalismo, secondo Marcuse, ha saputo trasformare l’individuo prima in cittadino esemplare, quindi in
Uomo a una dimensione, depauperandolo progressivamente delle proprie aspirazioni e costringendolo ad una felicità e ad un benessere che si finge conquista reale dell’uomo ma che in realtà la società dei consumi gli impone, nel modo più subdolo proprio perché apparentemente indolore.
In un fondamentale articolo critico risalente a quello stesso periodo, Walter Pedullà delinea una felice sintesi della concezione marcusiana dell’uomo a una dimensione: “la società industriale avanzata si propone e rischia di imporsi come società definitiva col dare a costui [cioè all’uomo a una dimensione] una coscienza felice. Soddisfa i bisogni che gli impone segretamente ma gli impedisce di definire autonomamente quelli che arricchiscono la sua vitalità; gli dà l’impressione di essere libero nelle sue scelte, ma lo costringe in una struttura così rigida e coerente che in verità gliele condiziona; lo convince di essere in contatto con l’alta cultura e invece gliene dà una contraffazione, visto che i classici venduti al supermercato sono privati della loro forza antagonistica. Un’inattaccabile logica domina il mondo abitato da quest’uomo. Da qualunque parte si volti non c’è nulla che appaia inadatto al Sistema. Tutto è concreto, oggettivo e ‘disinteressato’. La tecnologia parla col linguaggio perentorio della produzione, e fa dimenticare che c’è un padrone e una classe che la manovra per i suoi fini; l’analisi descrittiva dei fatti proposta dal neo-positivismo “blocca la loro comprensione e diventa un elemento dell’ideologia che li sostiene”; il linguaggio sostituisce le immagini ai concetti, che per loro natura trascendono i fatti, reggono la dimensione storica, senza la quale non c’è mutamento, determinano lo sviluppo del significato; l’arte registra superfici immobili di oggetti isolati dal contesto storico e quindi ha perduto una funzione di contestazione che le è quasi sempre propria. Questo universo uniforme e funzionalizzato denuncia la fine dell’uomo «a due dimensioni», quella dell’immaginazione e quella della realtà che poteva ancora giudicare, criticare la realtà e progettare di mutarla, e per il quale la cultura e l’arte erano modi della protesta contro ciò che è. L’immobilismo sociale, il torpore intellettuale, l’indifferenza morale attendono perciò l’uomo della società industriale avanzata dotato di un pensiero unidimensionale che rifiuta la trascendenza storica come trascendenza metafisica e di un linguaggio unidimensionale “irrimediabilmente anticritico ed antidialettico” e “radicalmente antistorico”. Unidimensionale infine egli stesso, si degrada in una “coscienza felice”, che in sostanza è poi piuttosto ‘precaria’, “crosta sottile che copre paura, frustrazioni e disgusto”. (9)
Se volessimo ricercare in questo senso un esempio ultracontemporaneo di uomini a una dimensione, potremmo identificare questo feticcio iconico con il brulicante e leviatanico popolo cinese, perfettamente inquadrato nel Sistema sociale, economico e politico preposto alla logica ferrea della propria cordiale, indefessa, parossistica produttività.
In questo quadro desolante, allora, l’unica possibilità di rottura degli schemi precostituiti non può che venire dall’esterno del Sistema stesso: dall’esercito dei disoccupati, degli inabili, dei reietti, degli emigranti, degli sfruttati, dei perseguitati di tutte le razze e di tutti i paesi, da una parte; dall’altro lato, una reazione allo stato delle cose può venire dagli intellettuali e dagli artisti che oppongono da sempre il “Gran Rifiuto” tramite il mezzo artistico e critico. Le difficoltà come si vede sono enormi e il discorso marcusiano, privo di ogni possibilità di vedersi realizzato in politica, si sposterà ben presto a livello dell’utopia; tuttavia rimane ancor oggi una delle più lucide prese di posizione nei confronti della società neocapitalista.
Storicamente, queste teorie influirono profondamente sull’assetto ideologico della nuova sinistra prima americana e poi europea e, suscitarono molteplici dibattiti fra gli intellettuali sul comune sostrato del pensiero ‘negativo’, il quale andava in quegli anni diffondendosi attraverso una feconda ripresa di Heidegger, dell’esistenzialismo e di certi slogan che saranno poi fagocitati e fatti propri dal Sessantotto, uno su tutti il famigerato “Dieu est mort” .
Adorno, Marcuse ed Erich Fromm saranno tre dei principali teorici del concetto di ‘massa’ in senso contemporaneo: per tutti e tre, infatti, le masse nella società a regime capitalista avanzato, pur presentando vivi segni di emancipazione sociale e di illuminazione culturale rispetto al loro passato storico, tuttavia sarebbero oppresse da un senso di alienazione derivata dalla persuasione occulta attraverso cui i detentori del potere economico e politico cercano di controllare gli usi e i costumi nell’ambito di una semiosfera sociale sempre più scissa e franta in direzione di una indecidibile individualizzazione. Per il Fromm di
Avere o essere? (1976), in particolare, è fondamentale cercare di restituire all’individuo il senso ultimo del suo valore in quanto uomo, attraverso un riequilibrio e una preminenza del fattore dell’‘essere’ sull’‘avere’.
La “cultura di massa”, dal canto suo, ha suscitato negli anni della sua diffusione due reazioni ben precise, esemplarmente analizzate da Umberto Eco in
Apocalittici e integrati (1964). In questo senso, gli ‘apocalittici’ sono indicati come acerrimi nemici del ‘sistema’ culturale neo-capitalista in quanto considerano la cultura di massa una sorta di ‘anticultura’ che assume le catastrofiche sembianze di un’apocalisse del pensiero e dei costumi. Essi, dall’alto della loro visione aristocratica e distaccata, rifiutano qualsiasi collaborazione col Sistema, lamentano la morte dell’arte borghese e la fine dell’idea di uomo di ascendenza rinascimentale. Dall’altra parte della barricata ci sono gli ‘integrati’, coloro i quali considerano la civiltà di massa come il leibniziano “migliore dei mondi possibili”; si tratta della frangia di intellettuali che presta volentieri la propria collaborazione al Sistema, producendo fra l’altro testi televisivi, canzoni, film, fumetti, ma offrendo in tal modo il fianco alla strumentalizzazione con cui la classe egemone mantiene il controllo su ogni aspetto della società. In tal senso gli integrati, come per certi aspetti gli apocalittici, attraverso il loro atteggiamento passivo nei confronti del Potere diffonderebbero più o meno inconsciamente la sua ideologia conservatrice: da questo ruolo ultracontemporaneo dell’intellettuale, sembra dire Umberto Eco, non si scampa. La passività comune ai due schieramenti di intellettuali consisterebbe a sua volta nel fatto che entrambi ritengono immutabile la situazione, i primi per fatalismo catastrofico, i secondi per mera accondiscendenza.
Delineati questi due atteggiamenti, Eco si rivolge nel saggio all’analisi dei mezzi di comunicazione di massa (TV, fumetti, rotocalchi eccetera) cercando di individuare criticamente il modo in cui questi mezzi, per lo più usati ai fini di conservazione sociale, di abbrutimento intellettuale e di reificazione del soggetto in quanto tale, possano essere usati per renderlo invece cosciente, pregno e libero. “Una civiltà democratica si salverà solo se farà del linguaggio dell’immagine una provocazione alla riflessione critica, non un invito all’ipnosi”, scrive il semiologo, che alla fine del suo discorso proporrà come reazione al quadro descritto la conquista da parte delle forze laiche e progressiste dei mezzi della cultura di massa, ai fini del raggiungimento di una cultura realmente democratica.
È proprio il tema della
téchne, in questa fase storica della riflessione sociologica e filosofica fra gli anni Sessanta e Settanta, a farla da padrone. Per individuare una motivazione che sappia spiegare l’alienazione dell’uomo-massa nel mondo delle comunicazioni tecnologiche e dei mass-media, Marshall McLuhan ipotizzò un modello secondo cui l’uomo contemporaneo starebbe tornando ad una realtà ‘stereofonica’: secondo McLuhan, con l’esistenza e l’uso del telefono, del telegrafo, della tv, della radio e, aggiungo ulteriormente, del computer e di internet, si torna oggigiorno ad una cultura orale, lì dove gli oggetti dell’attenzione si presentano non altrove che all’interno di una stordente, onnicomprensiva simultaneità indistinta. Ma cosa rende questa nuova cultura orale così inquietante? Il fatto che essa manca di un mito unificatore che possa fungere da fattore di aggregazione sociale, così che l’uomo vede scomparire la sfera del privato e, per una mancata partecipazione alla nuova sintassi comunicativa a causa dell’assorbimento passivo di ogni informazione, si ritrova ad essere isolato nella percezione che ha della realtà, solitario nella folla.
Un solitario fra la folla sicuramente era già, e con largo anticipo sui tempi, il personaggio di Antonio Roquentin, protagonista di uno dei romanzi della ‘crisi’ più importanti del secolo Novecento: stiamo ovviamente parlando de
La nausea (1938) di Jean Paul Sartre, uno dei manifesti più drammaticamente incisivi del pensiero esistenzialista contemporaneo.
Antonio Roquentin entra in un caffè; sedendosi, lancia uno sguardo agli avventori. Fra questi, c’è un uomo vestito in modo ‘scioccante’; indossa una camicia azzurra con delle bretelle color malva che stonano completamente col resto del vestito e con l’arredamento circostante: “Ho cominciato a guardarlo, sedendomi, ed ho continuato perché non potevo voltare la testa. È in maniche di camicia, ha un paio di bretelle color malva. S’è arrotolato le maniche fin sopra il gomito. Le bretelle si vedono appena sulla camicia azzurra, son cancellate, nascoste dall’azzurro ma è una falsa umiltà; in realtà non si lasciano dimenticare, mi irritano con la loro testardaggine di montoni, come se, partite per diventare viola, si fossero arrestate a mezza strada senza rinunciare alle loro pretese. Verrebbe voglia di dir loro: Avanti, diventate viola e non se ne parli più! Ma no; restano in sospeso ostinate nel loro sforzo incompiuto. Talvolta l’azzurro che le circonda scivola su di esse e le ricopre completamente. Non le vedo più, per un istante. Ma non è che un’onda, ben presto l’azzurro impallidisce qua e là, vedo riaprire degli isolotti d’un malva esitante, che s’allargano e si riuniscono e ricostituiscono le bretelle. Il cugino Adolfo non ha occhi: le sue palpebre gonfie e ripiegate si aprono appena un poco sul bianco. Sorride con un’aria addormentata, ogni tanto sbuffa, guaisce e si dibatte debolmente, come un cane che sogna. La sua camicia di cotone azzurro spicca allegramente sulle pareti color cioccolato. Anche questo dà la Nausea. O piuttosto è la Nausea. La Nausea non è più in me. Io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè. Sono io che sono in essa” (10) .
Il brano è famigerato: esso descrive il manifestarsi improvviso della nausea, ovvero la presa di coscienza assurda e lancinante di un sottile disgusto esistenziale che permea l’intelletto attraverso i sensi (in questo caso tramite la vista) e che nasce dall’incomprensibilità, in termini di mezzi umani, della contingenza dell’esistere. Effettivamente l’esistenzialismo, nella sua accezione moderna come tendenza filosofica (e moda), si farà espressione del male di vivere della società europea fin dagli anni Trenta fino ad arrivare, ai giorni nostri, a permeare iconicamente alcuni fenomeni di cultura underground come il movimento dark e il gothic.
L’esistenzialismo, tuttavia, sviluppatosi negli anni successivi alla seconda guerra mondiale grazie soprattutto al gruppo dei pensatori francesi che se ne fecero promotori (in particolare Jean Paul Sartre, Simone De Beauvoir, M. Merleau Ponty, Jean Wahl), rendeva scabro e, quindi, tangibile e tagliente sulla superficie piatta della società borghese del tempo il vuoto di certezze conseguente agli orrori della guerra e alla dispersione dei valori che ad essa si accompagnò e, in questo senso, riuscì ad affermarsi in breve tempo ed in modo privilegiato come filosofia “della crisi”; del resto, com’è noto, la filosofia della ‘crisi’ aveva visto un altro importante momento di affermazione subito dopo la fine della prima guerra mondiale, quando in Germania era avvenuta la cosiddetta “rinascita kierkegaardiana” attraverso le riflessioni di Karl Jaspers e Martin Heidegger.
Effettivamente l’esistenzialismo inquadra tutta una serie di nodi irrisolti su cui si fondano le angosce della società contemporanea e ultracontemporanea: in opposizione al Sistema che tutto fagocita in sé, l’individuo non può essere se non accentuando la propria esistenza e accogliendola in tutta la sua problematicità: da qui deriva l’angoscia, il pathos della scelta, l’aut aut problematico. Riprendendo questi concetti da Kierkegaard, prima Heidegger e poi Sartre individueranno il tema dell’inconciliabilità circolare e drammatica fra
esserci ed
essere, fra
per sé e
in sé, termini della contrapposizione dell’individuo al mondo (una specie di Io-Non Io fichtiano portati all’estremo) e dell’incomunicabilità fra la coscienza personale e la vera essenza della realtà.
La vera condanna, dice Sartre, non è nella costrizione alla scelta (eventualità che ci solleverebbe da ogni responsabilità), bensì nella possibilità di scegliere, di agire, di intervenire sul reale, come lo Straniero dell’omonimo libro di Albert Camus che uccide l’arabo incontrato sulla spiaggia senza una reale, concreta e fattuale motivazione al suo gesto (avrebbe anche potuto non farlo, la sua azione non ha alcun valore, alcun peso, alcun senso). Il dramma dell’uomo contemporaneo, insomma, è quello di essere “condannato ad essere libero”, inquadrato com’è in una realtà che gli vomita addosso il suo non senso e la sua assurda mancanza di valori, così come la realtà spruzza sugli occhi di Antonio Roquentin tutta la violenza cromatica di una camicia azzurra e di due assurde bretelle color malva.
Jean Paul Sartre seppe in special modo entrare da protagonista nei dibattiti culturali degli anni Cinquanta e Sessanta, ponendo il suo pensiero come
trait d’union fra le diverse istanze dell’esistenzialismo, del marxismo, dello strutturalismo e della psicanalisi: avendo addolcito i termini della sua filosofia, riuscendo così a dare un senso alla vita tramite l’impegno politico e ideale (la svolta verso un pensiero ‘positivo’ dell’esistenza avviene, com’è noto, nel saggio
L’esistenzialismo è un umanismo, pubblicato nel 1946), egli sarà in prima linea sulle barricate degli studenti francesi quando, nel maggio del 1968, scoppierà la Contestazione al Sistema.
Nel frattempo, il marxismo ‘critico’ poteva vantare una fila agguerrita di studiosi che attraverso le proprie opere tendevano ad una sistematica analisi e corrosione del Sistema neocapitalista e delle sue ipocrisie, concentrandosi sul concetto di “coscienza di classe” e sui temi dell’alienazione e della reificazione, accogliendo in questo senso la lezione di Lukàcs. Fra di essi, un esempio di marxismo teoreticamente agguerrito, nei brulicanti e irrefrenabili anni Sessanta e Settanta, è quello di Jean Fallot. Nel suo
Sfruttamento inquinamento guerra. Scienza di classe (1974), il marxista francese delinea i vari aspetti del processo neocapitalista di accumulo del plusvalore a danno delle popolazioni più povere del Terzo Mondo, identificando il debito pubblico di questi paesi con “la forma capitalistica dell’usura”. È indicativo il modo di procedere della trattazione, in cui Fallot individua progressivamente uno sfruttamento del lavoro materiale ma anche uno sfruttamento del lavoro intellettuale, così come accanto all’inquinamento biologico, atmosferico ed ecosistemico, individua un tipo di inquinamento dei sensi ed un inquinamento intellettuale che starebbe alla base dell’appiattimento della cultura di massa, della perdita dei veri valori e della strumentalizzazione operata dalla civiltà neocapitalista: “nel sistema di sfruttamento capitalistico, dove i prodotti intellettuali di consumo sono merci come le altre e sono ugualmente incrementati a causa del plusvalore di lavoro che permettono di prelevare […], il capitalismo, che non ha creato l’ignoranza delle masse ma si basa su di essa come su un dato di fatto, la diffonde a sua volta e la moltiplica per mezzo dei suoi prodotti. […] Oggi, ogni sforzo di conoscenza (che sboccherebbe quasi automaticamente in quello della conoscenza della propria condizione) è ostacolato non dall’ignoranza degli sfruttati ma dalla diffusione di una cultura che snatura ed appiana tutti i problemi, la quale produce sulle menti lo stesso effetto negativo dell’aria, degli alimenti e delle bevande inquinate di cui essi si nutrono” .
Al di là degli estremismi teorici legati alle ideologie ma anche all’interno di esse, tali problematiche troveranno negli anni della rinascita economica italiana ampia diffusione anche da noi, soprattutto all’interno dei ferventi dibattiti politici, sociologici e filosofici di quegli anni, nel tentativo di comprendere in che modo i temi dell’alienazione, dell’angoscia, della reificazione e della massificazione fossero entrati così di prepotenza, direttamente provenienti dal dibattito europeo e dall’esperienza nazionale, nella letteratura italiana durante gli anni del “boom” economico: basti pensare a Paolo Volponi, Elio Vittorini, Italo Calvino, Lucio Mastronardi, Pier Paolo Pasolini, Ottiero Ottieri, a
Il Padrone di Goffredo Parise, alla letteratura industriale nel consesso, alla disincantata ed autoironica rappresentazione del grottesco umano e sociale nella figura del Fantozzi di Paolo Villaggio.
(1) V. Ferenczi, «Sull’ontogenesi dell’interesse per il denaro», in
Fondamenti di psicoanalisi, a cura di G. Carloni e E. Molinari, Guaraldi, Rimini 1972.
(2) N. O. Brown,
La vita contro la morte: il significato psicanalitico della storia, trad. di S.Giacomoni, Il Saggiatore, Milano 1971 (1959), p. 423.
(3) W. Benjamin,
L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, trad. di E. Filippini, Einaudi, Torino 2000 (1966), p. 10.
(4) E. Zolla,
Eclissi dell’intellettuale, Bompiani, Milano 1959, p. 66.
(5) Ivi, p. 113.
(6) Ivi, p. 120.
(7) G. Ferroni,
Storia della letteratura italiana. Il Novecento, Einaudi, Torino 1991, p. 647.
(8) H. Marcuse,
L’uomo a una dimensione, trad. di L. Gallino e T. G. Gallino, Einaudi, Torino 1999 (1967), p. 4.
(9) W. Pedullà, «La respirazione artificiale di Marcuse rianima la dialettica?» in
La letteratura del benessere, Bulzoni, Roma 1968, pp. 99-100.
(10) J.-P. Sartre,
La nausea (1938), trad. di B. Fonzi, Einaudi, Torino 1999, p. 31.
(11) J. Fallot,
Sfruttamento inquinamento guerra, trad. di N. Maffil, Bertani, Verona 1976, p. 119.
Sartre, Yereyan, World Book Capital, 2012