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Esistenzialismo
A cura di Giacomo Conserva




Sartre vs Bataille. Il nuovo mistico vedovo di Dio e il pensiero lento del filosofo
di Daniele Baron

30 marzo 2014







«Sono felice di ricordare la notte in cui ho bevuto e ballato – ballato da solo, come un contadino, come un fauno, in mezzo alle coppie.
Solo? veramente si ballava l’uno di fronte all’altro, in un
potlach di assurdità, il filosofo – Sartre – ed io.

Ricordo di aver danzato volteggiando.
Saltando, battendo il pavimento con i piedi.
In un sentimento di sfida, di comica follia.
[...]
Un incubo di cinque mesi finiva in un carnevale.
Che stranezza associarmi a Sartre ed a Camus (cioè parlare di scuola)
» [1].

Che cosa è in gioco nella sfida che ha contrapposto i due pensatori francesi? Alla luce di un confronto tra le due posizioni e del loro pensiero, ci possiamo domandare se si è trattata di una vera e propria contrapposizione oppure se c’è possibilità di trovare un punto in comune.

L’eredità che ci lasciano e che dobbiamo riprendere ci induce al raffronto ed alla mediazione, con il tempo i contesti mutano, i contrasti si stemperano. Quello che un tempo sembrava insuperabile ed insanabile, oggi in prospettiva, in un’epoca affatto nuova con nuovi compiti e nuovi orizzonti, appare sfumato. Non si tratta oggi di decretare chi abbia vinto la sfida, chi abbia avuto ragione, chi torto, nemmeno di livellare tutto in ineffabili equivalenze, ma di provare a comprendere come si è svolta la dinamica di tale confronto, come si è dipanato il rapporto tra i due pensatori, rapporto che va dallo scontro aperto — non senza comunque tracce nei testi di stima reciproca — al tentativo di avvicinamento, rapporto che è stato definito, in un saggio collettaneo ad esso dedicato un dialogo incompiuto [2].

Fu un vero e proprio dialogo? Più che di dialogo io penso che si possa parlare, senza ombra di dubbio, di scontro, causato da un lato da incomprensione e dall’altro lato da incompatibilità tra due sensibilità differenti, tra due modalità di pensiero, tra due stili di scrittura. Anche nel lavoro collettaneo succitato emergono dubbi circa la possibilità di intendere il rapporto Sartre-Bataille come dialogo. Ciò non toglie comunque che, malgrado le differenze evidenti, permanga una prossimità di temi, un possibile luogo di vicinanza e che oggi si possa fare dialogare i loro pensieri per trarne proficue conseguenze.

Sartre lancia la sfida nel 1943 attaccando Bataille con il saggio Un nouveau mystique [3] incentrato sul libro L’expérience intérieure da poco dato alle stampe. Si tratta formalmente di una recensione dell’opera, ma dalla lettura si evince che è una recensione sui generis: essendo un articolo molto lungo (venne spezzato in tre uscite sulla rivista «Cahiers du Sud» e poi ripreso in Situations I), si caratterizza piuttosto come uno studio monografico a tutto tondo del pensiero di Bataille e anche come un ritratto, confinante con la caricatura, dello stesso Bataille. Il tono è caustico e ironico, a tratti sarcastico, a tratti professorale; Bataille fu colpito dalla veemenza dell’attacco e accusò il colpo [4].

Gli rispose con un breve testo edito nel 1945, inserito in appendice al libro Sur Nietzsche intitolato Réponse à Jean-Paul Sartre, Défense de l’Expérience intérieure [5]. Una replica anch’essa ironica, in un certo senso divertita, che segna in modo netto la distanza tra il proprio modo di pensare e il «pensiero lento» del “filosofo” Sartre.

Nel corso degli anni successivi al 1943 ci furono altre occasioni di confronto e dialogo, con tentativi di riavvicinamento e con successivo allontanamento. C’è da dire che non si trattò di un rapporto alla pari: nel dopoguerra Sartre dominava la scena filosofica e intellettuale in Francia, l’esistenzialismo era à la page, mentre invece il pensiero di Bataille era nell’ombra. Solo in un tempo successivo vi è stata una ripresa e rivalutazione della sua opera, a partire soprattutto dagli anni ‘60 del secolo scorso.

Ciò che ci interessa qui è, partendo da un’analisi puntuale delle accuse che Sartre rivolge a Bataille, chiarificare quali sono i punti di maggiore distanza, ma soprattutto riuscire ad intendere cosa, confrontando i due pensatori, li accomunava.


I. Il nuovo mistico

Il testo Un nouveau mystique, l’unico che Sartre consacra allo studio del pensiero di Bataille [6], da un certo punto di vista, per quanto concepito come saggio letterario di recensione, se si tiene conto dell’argomentazione e degli strumenti concettuali che vengono impiegati, può essere interpretato anche come uno dei primi tentativi di applicazione di quella psicanalisi esistenziale che Sartre ne L’être et le néant aveva ideato in contrapposizione alla psicanalisi vera e propria e di cui aveva fornito le categorie essenziali. Infatti, in molti punti del testo il “caso” Bataille viene analizzato secondo quelle categorie e ci ricorda un po’ i saggi letterario-filosofici successivi (sto pensando a Baudelaire e Saint Genet, comédien et martyr). Inoltre, nella conclusione dell’articolo lo stesso Sartre sembra confermare questa ipotesi, confessando il suo intento quasi nascosto e subliminale:
«Più che una simile esperienza inutilizzabile, è invece importante l’uomo che dà apertamente se stesso in queste pagine, la sua anima “sontuosa e amara”, l’orgoglio malato, il disgusto di sé, l’erotismo, l’eloquenza spesso magnifica, la logica rigorosa che nasconde le contraddizioni del pensiero, la malafede appassionata, la vana ricerca di un’evasione impossibile. Ma la critica letteraria trova qui i suoi limiti; il resto è compito della psicoanalisi. Non protestate: non mi riferisco ai metodi grossolani e ambigui di Freud, di Adler o di Jung: si tratta di altre psicoanalisi» [7].
In questo passo si confermano poi alcune cose che è bene sottolineare: innanzitutto, l’ammirazione di Sartre per la figura di Bataille. Molti interpreti si sono soffermati più sugli elementi negativi, molti hanno interpretato il testo di Sartre come una affrettata liquidazione di Bataille. Non è così secondo me, lo testimoniano la lunghezza della recensione, i suoi espliciti elogi dello stile de L’expérience intérieure, l’accostamento di Bataille a grandi pensatori del passato, a Pascal, a Nietzsche. Può essere un rilievo giusto dire che Sartre cominci il saggio (la sezione I) lodando Bataille per la forma per poi meglio smontarne il contenuto, ma io credo che, al di là della forma, altri elementi del pensiero di Bataille “turbino” profondamente Sartre.

In secondo luogo, Sartre qui esprime chiaramente la sua critica di fondo: l’esperienza interiore, di cui scrive Bataille, è “inutilizzabile”, viene affatto sminuita. Possiamo partire di qui, dalla conclusione, da questa affermazione di inanità dell’esperienza interiore, per ripercorrere le fasi dell’argomentazione di Sartre contro Bataille.

A scanso di equivoci, all’inizio della parte seconda del suo saggio [8] Sartre definisce subito qual è secondo lui l’atteggiamento di fondo di Bataille: egli «sopravvive alla morte di Dio» [9]; Dio è morto e rimane solo più l’esperienza religiosa, ma Bataille sembra non volere rinunciare al trascendente e perciò «eccocelo davanti, funebre e comico come un vedovo inconsolabile che, ancora in gramaglie, si abbandona al peccato solitario» [10]. Per Sartre Bataille non è affatto ateo, è un vedovo di Dio, ha perciò nostalgia di Dio, rinuncia a malincuore al trascendente; Sartre vuole mostrarci in che modo in Bataille il trascendente uscito dalla porta rientri dalla finestra: la nozione filosofica di malafede elaborata ne L’être et le néant gli sarà utile a tale scopo.

Sartre comincia con il rilevare che nell’opera coesistono due atteggiamenti spirituali in contraddizione tra di loro, che si danneggiano a vicenda: 1. l’atteggiamento esistenzialista; 2. l’atteggiamento scientista. Mentre il primo atteggiamento parte dai dati immediati della coscienza, dall’evidenza immediata del cogito, il secondo postula l’anteriorità dell’oggetto (la Natura) sul soggetto e partendo dai dati della scienza fa dire alla scienza più di quanto essa non dica. Se l’esperienza interiore è esperienza della coscienza di sé, per accedere al secondo punto di vista occorre porsi al di fuori del cogito, nel campo della probabilità. Secondo Sartre, solo da questo punto di vista, scientista, si può giustificare il concetto espresso da Bataille ne L’expérience intérieure per cui l’uomo sarebbe un essere improbabile. Nell’interiorità, nel vissuto, può essere sì esperita l’irrazionalità dell’esserci, la sua fatticità e contingenza, ma l’improbabilità no; per farlo occorrerebbe un punto di vista esteriore, oggettivo. L’errore di Bataille sta nel voler ricondurre nel cogito, nell’interiorità, ciò che non vi si può incontrare. Ciò che Bataille chiama ipseità è proprio il derivato di questo trapianto forzoso del trascendente nell’immanente.

«Come non riesce a rendersi conto che l’improbabilità non è un dato immediato, ma una vera e propria costruzione della ragione? L’improbabile è l’Altro, poiché io lo colgo dall’esterno» [11].

Da questo vizio di ragionamento conseguono alcune importanti conseguenze: l’ipseità è composta e la causa della composizione è fuori di essa, inoltre il tempo viene concepito come lacerazione. Bataille non riesce a vedere, secondo Sartre, che il tempo può essere anche legame, che la temporalità è costitutiva dell’essere dell’ipse, attraverso il progetto, che la lacerazione non è affatto inquietante; non riesce a farlo proprio perché ha concepito il tempo non come tempo dell’interiorità (durata), ma come tempo scientifico, come successione d’istanti.

Da qui deriva il fatto che il progetto in Bataille, nonostante sia considerato una struttura fondamentale della realtà umana, viene sostanzialmente concepito in modo negativo, come fuga. Ad esso viene contrapposto l’attimo. L’uomo perciò, secondo questa concezione, può riscattarsi dal progetto, dalla ragione utilitaria, dal discorso, solo grazie a qualche cosa che gli permetta di esistere subito e per intero, senza differimento, nell’attimo. Ciò che secondo Bataille libera dal progetto è il riso.

La teoria del riso di Bataille viene sottoposta a dura critica da parte di Sartre, quello di Bataille infatti gli sembra un riso forzato, amaro e applicato. Deludente e riduttiva è secondo lui la spiegazione che Bataille ci dà del riso: una improvvisa consapevolezza d’insufficienza dell’uomo in contrasto con ciò che lo caratterizza in modo essenziale: la volontà di sufficienza.

Oltre a ciò, sembra che Bataille a tratti chiami riso ciò che invece dovrebbe essere definito in altro modo: lo spirito critico, la rivolta, la negazione in senso hegeliano.

Secondo Sartre dietro a questa concezione si cela l’evidente matrice surrealista, lo spirito dissacratore del movimento a cui Bataille è appartenuto (seppur rimanendo in disparte). Anche il gusto per la perdizione, vale a dire l’esclusione di ogni possibilità di salvezza per l’uomo, può essere considerato come un portato dell’ambiente del surrealismo. Tuttavia, secondo Sartre l’invito alla perdizione di Bataille, al dono gratuito di sé (nostalgico delle feste bacchiche), non è sincero.
«L’angoscia diventa allora delirio, gioia straziante: non vale la pena di affrontare il viaggio? Tanto più che se ne può tornare. E Bataille, in fondo, scrive, ha un impiego alla Biblioteca Nazionale, legge, fa l’amore, mangia; come dice in termini dei quali non posso fare a meno di ridere: “Mi crocifiggo a ore fisse”. [...]. Credevamo di perderci senza speranza d’appello e invece stavamo semplicemente costruendo la nostra essenza: diventavamo quello che siamo. E, alla fine delle spiegazioni del nostro autore, intravedevamo una maniera completamente diversa di perderci senza speranza: rimanere, cioè, volontariamente, nel mondo del progetto» [12].
Sartre aggiunge poi che in alcuni punti la posizione di Bataille ricorda l’umanesimo nietzscheiano, l’uomo dionisiaco che sembra portare su di sé, insieme come preghiera e sfida, tutta la sofferenza della creazione di fronte ad un cielo vuoto e muto. Si tratta di un altro modo sottile di identificarsi con il tutto. Infatti, «se la mia agonia è agonia del mondo, io sono il mondo in agonia. In tal modo, perdendomi, avrei ottenuto tutto» [13].

Questa è solo una tappa del percorso, un approdo parziale, ancora troppo terrestre, «credevamo di poter trovare l’uomo nel pieno della sua miseria, e invece no: Dio, è proprio Dio, che bisogna ritrovare» [14]. Ecco perciò che il termine ultimo del percorso di Bataille è un nuovo genere di misticismo.

Sartre si domanda preliminarmente «com’è possibile, per un pensatore, affermare la mancanza di ogni trascendenza e poi attuare un’esperienza mistica, conservando e seguendo il medesimo procedimento?» [15]. Secondo la sua interpretazione ciò può accadere in Bataille, poiché viene ipostatizzato il non-sapere. Il cielo è vuoto e l’uomo non sa nulla, l’esperienza interiore non conduce ad un nuovo sapere, ma di fronte al non-sapere. Tuttavia, secondo Sartre il non-sapere è ancora immanente al pensiero, è ancora un pensiero. Ecco il punto discriminante secondo lui: Bataille constata il non-sapere dal punto di vista mistico del trascendente, trasforma il nulla del non-sapere in qualche cosa, lo fa diventare un essere, una sostanza. Il trucco è semplice: basta chiamare ignoto il nulla, trovare un altro modo per comunicare con esso e il non-sapere diventa così importante alla fine da identificarsi con il tutto o con Dio.
«il nulla è trattato con tale bravura da diventare tutto. Bataille [...] ci ha soltanto ammannito una modesta estasi panteistica [...]. Sostituite il nulla assoluto di Bataille con l’essere assoluto della sostanza, e otterrete il panteismo di Spinoza. Bisogna tuttavia ammettere, dirà qualcuno, che la geometria di Riemann non è quella di Euclide. D’accordo; anche il sistema di Spinoza è un panteismo bianco; quello di Bataille è un panteismo nero» [16].
In questo modo si completa il quadro e si comprende perché per Sartre l’esperienza al centro della riflessione di Bataille è inutilizzabile, non ha più valore «del piacere di bere un bicchiere o di scaldarsi al sole sulla spiaggia» [17].

Si chiarifica anche la mia affermazione posta all’inizio: qui Sartre adotta gli strumenti della psicanalisi esistenziale. Bataille, infatti, nel suo anelito — per quanto nascosto sotto altre forme - ad essere tutto, sembra essere caratterizzato da quello che ne L’être et le néant Sartre descrive come il fondamento ultimo dell’uomo, vale a dire il desiderio di essere in-sé-per-sé. La realtà umana, infatti, è definita come essere per-sé che nel proprio essere è mancanza d’essere (essere che non è ciò che è e che è ciò che non è) e perciò desidera essere a fondamento del proprio essere, colmare tale mancanza. Questo desiderio può essere “soddisfatto” in infiniti modi, tanti quanti sono i differenti individui, ma in generale tutte le modalità di appagamento avvengono con l’introduzione del trascendente all’interno dell’immanente, dell’oggettività all’interno della soggettività; l’appagamento non può che essere fittizio e prodursi perciò attraverso l’alienazione e la malafede [18].

In ultima analisi, Bataille ha semplicemente trovato una propria via specifica, peculiare, alla malafede, al desiderio di essere a fondamento del proprio essere.


II. Il pensiero lento

La risposta di Bataille è divertita e ironica, all’insegna, potremmo dire, del riso. Come abbiamo detto, uno degli elementi che vengono criticati da Sartre è proprio la teoria del riso come momento rivelatore dell’insufficienza dell’ipse e pertanto viatico dell’esperienza interiore.

Come se volesse riaffermare i diritti della propria concezione, Bataille nella sua Réponse “ride”; in primo luogo di sé, denudandosi per così dire, denunciando la propria insufficienza:
«Perché dovrei farmi una preoccupazione del desiderio che ho di convincere? Ciò che un’intelligenza acuta talvolta sembra sottrarre, non tarda ad essere restituito dall’immensa stupidità alla quale essa si connette [...]. Non posso che ridere di me stesso scrivente (potrei forse scrivere una frase se non vi si accompagnasse subito il riso?). Naturalmente io attendo al mio compito nella maniera più rigorosa possibile. Ma quel sentimento che il mio pensiero ha della sua fragilità (soprattutto la certezza di raggiungere i suoi fini proprio attraverso il fallimento) mi toglie la quiete, mi priva della distensione favorevole all’ordine rigoroso. Dedito alla disinvoltura, penso e mi esprimo in balìa del caso» [19].
Il suo pensiero è in continuo movimento, gli approdi di questa deriva, di questo procedere erratico che eccede il discorso e la ragione, sono solo isole di quiete in un oceano in burrasca e se analizzati dall’esterno appaiono comici, risibili.

Bataille, in secondo luogo, ride anche di Sartre, del “filosofo”, poiché ha preso sul serio, analizzato con «una lucidità indifferente» [20], i suoi ragionamenti, le sue dimostrazioni. Non che secondo Bataille i suoi concetti siano inconsistenti o risibili, non bisogna ingannarsi su questo. La loro fondatezza risulta, tuttavia, solo se ci si pone dalla prospettiva giusta, solo se li si interpreta come tappe verso qualche cosa che trascende ciò che è stato scritto (Bataille usa l’immagine efficace di un paesaggio visto da un rapido [21]). Il movimento del pensiero è qui descritto come una vertigine, come corsa precipitosa, ansante, come ciò che attraverso l’ebbrezza va verso il non-senso, inteso come vuoto rispetto al senso definito e dato; il non-senso ha un senso a sua volta che con il tempo si consolida e che verrà successivamente contestato da un’ebbrezza suscitata da un altro non-senso, e così via. Sartre, che non è inebriato, giudicando dall’esterno questo movimento, non può che indicarne il vuoto. Vengono contestati perciò a Sartre (Bataille tornerà su questo argomento in altri articoli) il suo intellettualismo e la sua totale incapacità di sentire le emozioni che con grande bravura analizza sul piano logico-oggettivo. In particolare, secondo Bataille, Sartre è sordo di fronte ai rapimenti dell’esperienza interiore e non riconoscendo loro alcun valore si affida soltanto a ciò che riesce a cogliere nel testo alla lettera: l’inessenziale. Questa è la principale tara del «pensiero lento» [22]: non è rapito, non è inebriato dal movimento del pensare, ma analizza e giudica tutto dall’esterno.

In fondo alla sua difesa, quasi di sfuggita, Bataille esprime inoltre quello che ai suoi occhi è il fraintendimento principale di Sartre. Leggiamo infatti:
«Ho parlato di esperienza interiore: era l’enunciazione di un argomento; non intendevo, mettendo innanzi questo titolo vago, attenermi ai dati interiori di questa esperienza. Soltanto arbitrariamente possiamo ridurre la conoscenza a ciò che traiamo da un’intuizione del soggetto. Potrebbe farlo soltanto un “essere nascente”» [23].
Ecco il punto fondamentale: l’esperienza interiore non è affatto assimilabile al cogito come immediata evidenza, al cogito così come l’intende e interpreta Sartre. L’esperienza interiore è sì un vissuto, ma un vissuto affatto particolare, può essere definita un’esperienza-limite che comporta l’uscita del soggetto fuori di sé, il suo sacrificio come essere cosciente; l’esperienza interiore è una passione che non può rientrare nel sapere, nel progetto, ma si associa al non-sapere; è perciò estasi non comunicabile dal sapere discorsivo. Essa precede o eccede la logica e la correlazione fenomenologica soggetto-oggetto.

Sartre assimila l’esperienza interiore al cogito, alla coscienza di sé. Da questo punto di vista anche l’esperienza mistica è un’esperienza come tutte le altre, non è privilegiata. Per Sartre ogni esperienza deve essere ricollegata alla coscienza che la vive e al progetto che la costituisce e la guida, poiché in fin dei conti nell’uomo agisce sempre la scelta originaria, il progetto ultimo (quasi sempre inconsapevole e involontario) di essere a fondamento di sé, di essere in-sé-per-sé. Ai suoi occhi Bataille usa abili stratagemmi per evadere dalla prigione della coscienza dalla quale non è possibile uscire. Quest’accusa sarebbe fondata se Bataille considerasse l’esperienza interiore un dato evidente e immediato della coscienza, cosa che è necessario escludere [24].

C’è da dire, infine, che è indebita e ingiustificata anche l’interpretazione di Sartre del concetto di non-sapere come di un’altra forma di sapere e come una modalità sottile di identificarsi con il tutto. Il non-sapere in Bataille è la contestazione di ogni possibilità di fondamento ultimo, di ogni senso ultimo e di ogni teleologia, non conduce a nulla. Il nulla non viene affatto ipostatizzato, come pretende Sartre, ma va a significare la necessità tragica dell’uomo di non poter abbandonare l’immanente con la sua incompiutezza e finitezza [25].

L’antitesi tra i due pensatori sembra perciò fissata una volta per tutte e nelle successive occasioni di incontro continua ad approfondirsi: in Sartre abbiamo la coscienza come correlazione soggetto-oggetto, mentre in Bataille l’esperienza interiore come esperienza-limite; da una parte in Sartre la logica pura, dall’altro in Bataille l’emozione ragionata; la scelta originaria, il progetto, contro la dépense, il dispendio; il tempo come legame costitutivo dell’essere dell’uomo, come base per la libertà, contro il tempo come lacerazione; la fiducia nel discorso contro la ricerca di un linguaggio che fuoriesca dal discorso, che voglia raggiungere il silenzio; l’azione come base per l’essenza dell’uomo (nell’uomo il fare precede l’essere) contro l’azione come fuga dall’attimo dell’esperienza interiore; la letteratura come engagement contro la letteratura caratterizzata da una libertà assoluta, sovrana, che non può né deve servire né un dio né un padrone né una causa, ecc..
A questo punto è ancora possibile parlare di dialogo?


III. Il dialogo

Insistiamo nel tentare di scovare una prossimità tra i due pensatori che all’apparenza avevano poco in comune. Segnalo a questo proposito all’interno del già citato lavoro collettaneo un bel saggio di Jean-Luc Nancy [26].

Nancy con penetranti analisi individua qual è l’elemento che li accomuna: entrambi hanno dovuto fare i conti con la crisi del sapere, con la fine di tutte le sicurezze della credenza e del pensiero, con la incompiutezza durevole del sapere. Entrambi hanno posto il linguaggio, e di conseguenza il pensiero, nell’osservanza dell’estremità che questa incompiutezza porta con sé. L’estremità del pensiero, che lui chiama anche pensiero sottratto, è l’impossibile a compiersi come intima condizione del pensiero, il fatto che «non vi è pensiero, ossia articolazione di senso, che non porti in sé l’impossibile a compiersi, come intimazione, come un obbligo serrato, implacabile, logico quanto etico, a doversi sottrarre, in quanto pensiero, nell’atto stesso che è il suo e, se posso così dire, per essere pensiero» [27].

Entrambi inoltre hanno condiviso la necessità di pensare ad un mondo ormai sfrondato di origine e fine; entrambi volevano affermare che «la verità non abitava né cielo né domani: ossia affermare la verità qui e ora, essere capaci di una verità del qui-e-ora, di un noi, di conseguenza, nel nostro mondo» [28].

Secondo Nancy, tuttavia, Sartre e Bataille si dividono nel modo in cui affrontano quest’estremità, poiché «Bataille non ha voluto considerare il pensiero che in misura di tale intimazione. Sartre, invece, continuava a credere che l’estremità (che egli riconosceva a colpo sicuro) potesse non cedere, ma sottraendosi e portandosi sempre oltre, suscitare un discorso virtualmente infinito e capace di fermare, non il termine, ma almeno il moto dello spostamento» [29].

L’interpretazione di Nancy è sostanzialmente corretta nel valutare il rapporto tra Sartre e Bataille: individua una prossimità di fondo (forse da entrambi inconfessata) pur mantenendo le differenze evidenti che impedirono il compimento del possibile dialogo.

Ciò può essere ulteriormente reso sensibile se appuntiamo la nostra attenzione sul primo scritto filosofico di Sartre, vale a dire La Transcendence de l’Ego. In esso Sartre radicalizza la concezione fenomenologica di Husserl della coscienza, liberando il campo trascendentale dall’Io, facendo dell’Io un essere trascendente la coscienza nei confronti del quale si può attuare l’epoché, la riduzione fenomenologica.

In seguito alla messa tra parentesi del mondo e dell’Ego (epoché), pertanto, rimane come assolutamente primo ed indubitabile il cogito preriflessivo o irriflesso, che è coscienza posizionale dell’oggetto e coscienza non posizionale (non tetica) di sé. Sartre fa una importante precisazione: la coscienza preriflessiva ed assoluta, essendo senza Io, è una coscienza impersonale.

Questo tipo di coscienza, pertanto, non può mai essere tematizzata come oggetto, ma è atto puro. L’Ego (in questa nozione rientrano, nonostante le debite distinzioni, anche il Cogito di Cartesio, l’Io penso di Kant ed il Me degli psicologi) compare solo al livello della riflessione impura (che Sartre distingue da quella pura), come qualcosa di costituito, come la totalità concreta degli stati psichici e delle azioni di cui è supporto. Durante la riflessione la coscienza si sdoppia: un atto irriflesso di riflessione si rivolge alla coscienza riflessa.

Perché è importante riprendere le pagine questo primo scritto? Come sottolinea bene nel saggio introduttivo alla recente riedizione in italiano dell’opera [30] il curatore e traduttore Rocco Ronchi, La Transcendence de l’Ego è un’opera fondamentale perché in essa Sartre teorizza un campo trascendentale che va oltre la correlazione fenomenologica classica di soggetto-oggetto, entrando in una regione poco esplorata: quella dell’evento di questa correlazione. Questo evento, secondo Sartre, non si raggiunge con una semplice operazione intellettuale, né attraverso un metodo ragionato, ma mediante un sentimento, l’angoscia, che agisce su di noi nostro malgrado. Il campo che si dischiude è un assoluto non sostanziale, il quale dunque non ammette nulla al di fuori di sé, è immanenza assoluta, evento che non può essere oggettivato [31]. Secondo Ronchi questa concezione apre ad un materialismo assoluto, ad un realismo non riduzionistico o ingenuo o metafisico, e mette in questione la nozione cardine di intenzionalità della fenomenologia: quella per cui la coscienza è già sempre nella correlazione soggetto-oggetto, è già da subito coscienza di qualche cosa.

C’è da dire che già nello scritto Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: l’intentionnalité, coevo a La Transcendence de l’Ego, Sartre ritorna su posizioni più classicamente inserite all’interno della correlazione e perciò che, come giustamente sottolinea Ronchi, «esita a percorrere la strada che lui stesso inaugura con il suo travolgente esordio filosofico» [32]; aggiungiamo inoltre che l’identificazione tra libertà (intesa come progetto) e coscienza operata da Sartre nelle opere successive ai primi scritti andrà nella direzione di distacco da questa intuizione inziale, perché la coscienza indicherà non più quel campo impersonale trascendentale, ma la persona, la soggettività.

Tuttavia, la nozione di coscienza come cogito preriflessivo e le distinzioni operate da Sartre ne La Transcendence de l’Ego continueranno ad essere valide durante tutto l’arco della sua vicenda intellettuale.

Su questa intuizione solo abbozzata da Sartre, cioè sul fatto che la nozione della coscienza come spontaneità impersonale autoproducentesi (come atto in ultima analisi) apre al materialismo e all’immanenza, avrebbe potuto innestarsi il dialogo tra Bataille e Sartre. Scrive infatti Ronchi:
«Tale coscienza la si può estendere ad ogni punto della materia, dal virus alle stelle, perché essa della materia è l’atto stesso. L’autocoscienza umana, la coscienza, cioè, riflessiva, che fa coppia con se stessa e che produce l’Ego, è solo un caso specifico di questa coscienza assoluta, un caso certamente interessante, ma non determinante. L’umano modo d’essere non è, insomma, unità di misura del cosmo (noto qui come il mancato interlocutore di Sartre, Georges Bataille, nell’immediato dopoguerra, sviluppando quanto aveva scritto nel 1933 sulla nozione di dépense, proverà ad elaborare proprio una simile cosmologia che prescinde dal ristretto punto di vista riflessivo dell’Ego)» [33].
Il dialogo non avvenne, dunque, perché Sartre non sviluppò l’intuizione iniziale e si mantenne nel punto di vista della soggettività, dell’umano; ciò risulta evidente dal tenore delle critiche che Sartre nel saggio Un nouveau mystique rivolge a Bataille: si basano, infatti, tutte sul postulato della impossibilità per il pensiero umano di uscire dal cogito inteso come progetto.


[1] G. Bataille, Su Nietzsche, trad. it. di A. Zanzotto, SE, Milano 1994, p. 97. La scena pittoresca tratteggiata da Bataille della danza con Sartre si è svolta molto probabilmente nel corso di quelle fiestas notturne nella primavera del 1944 di cui parla Simone de Beauvoir ne’ «La Force de l’âge», incontri di intellettuali dell’ambiente di Saint-Germain des Prés prima della fine della guerra e della Liberazione. Cfr. S. De Beauvoir, L’età forte, trad. it. di B. Fonzi, Einaudi, Torino 1995, pp. 495-501.
[2] Cfr. AA. VV., Bataille-Sartre, un dialogo incompiuto, a cura di Jacqueline Risset, trad. it. di A. Dell’Armi L. Santone P. Tamassia, Artemide Edizioni, Roma 2002. Il saggio è molto interessante e contiene numerosi spunti per questa disamina; si tratta di una raccolta di interventi di filosofi francesi ed italiani contemporanei; è diviso in sezioni che toccano i differenti aspetti degli interessi e dell’opera dei due pensatori (la politica, la letteratura, la filosofia) interessi affini e paralleli.
[3] Cfr. J.-P. Sartre, «Un nuovo mistico», in Id. Che cos’è la letteratura?, trad. it. autori vari, Il Saggiatore, Milano 1995, pp. 243-279.
[4] Cfr. M. Surya, Georges Bataille, la mort à l’ouvre, Gallimard, Paris 2012, pp. 383-388.
[5] Cfr. G. Bataille, «Risposta a Jean-Paul Sartre, Difesa de l’“Expérience intérieure”», in Id., Su Nietzsche, cit., pp. 207-215.
[6] Mentre l’interesse di Sartre nei confronti del pensiero di Bataille si limitò a questo studio, peraltro approfondito e di un certo spessore, e a qualche fugace riferimento sparso qua e là nelle opere scritte in quel periodo, l’interesse di Bataille nei confronti delle pubblicazioni di Sartre fu più durevole. Di conseguenza, successe che mentre Sartre non prestò più attenzione ai lavori successivi a L’expérience intérieure, Bataille commentò e intervenne con articoli sulle opere pubblicate da Sartre dopo il 1943. Commentò, ad esempio, le Réflexione sur la question juive, Baudelaire, Saint Genet, intervenne in modo critico sulla questione, all’epoca cruciale, del engagement della letteratura.
[7] Cfr. J.-P. Sartre, Un nuovo mistico, cit., p. 277.
[8] Come già accennato il saggio si divide in tre sezioni: la prima è consacrata all’analisi dello stile dello scritto di Bataille, mentre la seconda e la terza si concentrano sul contenuto filosofico.
[9] J.-P. Sartre, Un nuovo mistico, cit., p. 250.
[10] Ivi, p. 251.
[11] Ivi, p. 252.
[12] Ivi, p. 268.
[13] Ivi, p. 270.
[14] Ivi, p, 271.
[15] Ibidem.
[16] J.-P. Sartre, Un nuovo mistico, cit., p. 275.
[17] Ivi, p. 277.
[18] Per la psicanalisi esistenziale cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, trad. it. di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 619-682. Per la nozione di malafede cfr. Ivi, pp. 82-107.
[19] G. Bataille, Risposta a Jean-Paul Sartre, Difesa de l’«Expérience intérieure», cit., p. 212.
[20] Ivi, p. 208.
[21] Cfr Ivi, p. 210.
[22] Ibidem.
[23] G. Bataille, «Risposta a Jean-Paul Sartre, Difesa de l’“Expérience intérieure”», cit., pp. 213-214.
[24] Come rileva giustamente Roberto Esposito nel libro Communitas, in un breve excursus sulla diatriba qui in esame, Sartre rimprovera a Bataille a proposito dell’esperienza interiore le stesse cose che ne L’être et le néant obiettava ad Heidegger a proposito del Dasein. Secondo Esposito questa è una prova implicita della vicinanza fra il filosofo tedesco e Bataille, nonostante l’enorme differenza di sensibilità e di stile. Checché ne dica Sartre a tal proposito in Un nouveau mystique, dove accusa Bataille di fraintendere il pensiero di Heidegger e di utilizzarne a sproposito le espressioni, Bataille è accomunato ad Heidegger proprio da questa tensione all’uscita dal sé identitario e interpreta meglio di Sartre (che tende qui ad arrogarsi a vero interprete) il significato ultimo del filosofare del tedesco sull’uomo e sul vivere in comunità. Cfr. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 2006, pp. 134-129.
[25] Cfr. M. Canevari, La religiosità feroce. Studio sulla filosofia eterologica di Georges Bataille, Le Monnier, Firenze 2007, pp. 77-80.
[26] Cfr. J.-L. Nancy, «Il pensiero sottratto», in AA.VV., Bataille-Sartre, un dialogo incompiuto, cit., pp. 75-88.
[27] Ivi, p. 77.
[28] Ivi, p. 78.
[29] Ibidem.
[30] Cfr. J.-P. Sartre, La trascendenza dell’Ego, trad. it. di R. Ronchi, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, pp. 7-22.
[31] Cfr. Ibidem. Secondo Ronchi sotto questo aspetto la filosofia di Sartre presenta numerose analogie con la concezione di Bergson, con la sua identificazione in Matière et mémoire di coscienza e materia, per cui la coscienza prima di essere coscienza di qualche cosa deve essere “immagine in sé”, vale a dire una coscienza senza testimone, senza Io. Questa vicinanza è stata rilevata nella sua importanza anche da Deleuze.
[32] J.-P. Sartre, La trascendenza dell’Ego, cit., p. 19.
[33] Ivi, p. 19-20.


Geroges Bataille, Jean-Paul Sartre


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