«Quando aprii Nietzsche per la prima volta, rimasi profondamente colpito. Nero su bianco aveva l’audacia di affermare: “Dio è morto!”. Ma come! Avevo appena imparato che Dio non esiste, e adesso qualcuno mi partecipava il suo decesso! Mi si affacciarono i primi dubbi. Zarathustra mi appariva come un eroe grandioso di cui ammiravo la grandezza d’animo, ma nello stesso tempo si tradiva con delle puerilità che io, Dalí, avevo già superato». [1] Queste le considerazioni di Salvador Dalí a proposito di alcune delle sue prime e più influenti letture. Egli, allievo talentuoso, volle superare il suo maestro d’ateismo Nietzsche nell’unico modo possibile: diventando un autentico nietzscheano, cosa che nemmeno il filosofo di Röcken si sognò mai di essere. Accortosi dell’intrinseca debolezza dell’uomo distante dalla sua filosofia, diventato folle per l’incapacità di sperimentare integralmente la volontà di potenza, Dalí si proclama superiore, vero
genio più che
übermensch; colui che non teme, assetato di vita e potenza, di portare ai limiti estremi ogni esperienza vitale. «Ma anche per i baffi, mi accingevo a superare Nietzsche! I miei non sarebbero stati deprimenti, catastrofici, prostrati dalla musica wagneriana e dalla bruma. No! Sarebbero stati affilati, imperialisti, ultra-razionalisti e puntati verso il cielo, come il misticismo verticale», [2] come quelli “gai e vivaci” di Velázquez.
Beffardamente, Dalí spiega come «Nietzsche risvegliò in [lui] l’idea di Dio» [3] un paradosso. Libero da ogni sorta di idiosincrasie nei confronti dell’esistenza, egli si apre a una visione onnicomprensiva (o forse sarebbe meglio dire “ipercubica”) dell’esperienza, volta a una riappropriazione dei suoi lati oscuri (sogni, intuizioni, perversioni, credenze). Fagocitata l’idea della “morte di Dio” nietzscheana, Dalí recupera l’esteticismo della Fede cattolica quale vezzo e ornamento di una personalità avida di sguardi (compreso quello di Dio, nell’eventualità che esista) e sfumature, scrigno d’un continuo schiudersi di possibilità monche: «a imitazione di sant’Agostino, che mentre si abbandonava al libertinaggio e ai piaceri orgiastici pregava Dio di accordargli la Fede, io invocavo il Cielo, aggiungendo: “Sì, ma non subito. Solo fra qualche tempo…”». [4] Precludersi la possibilità della Fede sarebbe per Dalí una limitazione oscena, infedele al suo bisogno fisiologico e intellettuale di potenza e razionalità; razionalità che, attraverso quello che egli chiama il suo metodo paranoico-critico, avrebbe dovuto razionalizzare ciò che di estremo (in termini morali ed estetici) e inspiegabile la vita (mondo dell’inconscio compreso) avesse offerto, per poi spiritualizzarlo, alla maniera spagnola, e compiere così la “missione” dell’uomo sulla terra.
Quello di Dalí è un misticismo lucido, che, invece di abbandonarsi alle speranze ultraterrene della religione, fantastica sui possibili progressi scientifici che gli avrebbero concesso infinite rinascite per vivere in eterno. La volontà di potenza, infatti, è volontà di vita, vita che non vuol cedere all’insensibilità del tempo tirannico: «Problemi tutti, e voi capelli bianchi, indietreggiate!». [5] Così nasce l’utopica fenicologia: «la fenicologia insegna a noi viventi le meravigliose possibilità che abbiamo di diventare immortali nel corso di questa medesima vita terrestre, e ciò grazie alla segreta eventualità di ritrovare lo stato embrionale e di potere così realmente rinascere in perpetuo dalle nostre ceneri come la Fenice, l’uccello mistico il cui nome è servito a battezzare questa nuovissima scienza che pretende d’essere speciale tra le più speciali della nostra epoca». [6] Eterno ritorno, sì, ma non dell’uguale monotonia soffocante per un drogato di colori.
[1] S. Dalí, Diario di un genio, tr. it. di F. Gianfranceschi, SE, Milano 1996, p. 18.
[2] Ivi, p. 19.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 23.
[5] Ivi, p. 107.
[6] Ivi, p. 75.
Salvador Dalì, Cigni che riflettono elefanti, 1937