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Borges, Camus e la caduta eterna
di Stefano Scrima

23 gennaio 2014



Jorge Luis Borges nel suo racconto L’immortale (1949) scrive: «la morte (o la sua allusione) rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può esser l’ultimo. Non c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto d’un sogno». [1] Dalla notte dei tempi l’uomo brama l’immortalità, dimenticandosi — perché da lui così distante — dell’intollerabilità della vita eterna: poter fare qualsiasi cosa, e farlo infinite volte, ingrigendosi di noia, oltre ogni merito e demerito. Perfino Nietzsche, il “profeta della terra”, sfiorò con l’eterno ritorno il desiderio della vita che non muore. Ma ciò è spaventoso.

Eppure, con Borges, anche i poeti antichi ci narrano degli dèi invidiosi della morte degli uomini, l’unica in grado di conferire la magia dell’unicità: la finitudine, appunto perché limitata, dà a ogni attimo il suo sapore, sempre diverso. L’immortalità, invece, è un surrogato dell’esistenza, la sua copia sbiadita e ripetuta.

Eppure la tristezza di finire rimane viva — e solo a tratti mitigata dal profumo della terra — negli occhi degli uomini, i quali si aggrappano alle religioni, alle filosofie, a chiunque dia loro la speranza di qualcos’altro dopo la morte.

Anche Jean-Baptiste Clamence, protagonista de La caduta (1956) di Albert Camus, vuole l’immortalità, come tutti, infondo. Ma non potendo credere in mani divine o altro che trascenda il suo mondo, deve accontentarsi di un’eternità surrogata, tutta terrena e molto diversa da quella fantasticata dagli uomini: per Clamence, attraverso il piacere — l’estasi sensoriale —, il mondo si infiamma di luce e il tempo sembra fermarsi e perdere importanza. Ma non è proprio questa l’eternità: l’assenza del tempo? Sì, è questa, concetto impensabile per noi esseri situati; ma l’immortalità dell’uomo — mi si dirà — è altra cosa: un tempo che inizia ma non finisce. È vero, ma che valore hanno i secondi e i minuti quando si sa che non finiranno?

Dice Clamence: «disperando dell’amore e della castità, pensai finalmente che mi restava il piacere, il quale sostituisce benissimo l’amore, soffoca le risate, riconduce il silenzio e, soprattutto, conferisce l’immortalità. Raggiunto un certo grado di lucida ebbrezza, a letto, a tarda notte, in mezzo a due sgualdrine, e svuotata d’ogni desiderio, la speranza, vede, non è più una tortura, la mente regna sul tempo, il dolore di vivere è passato per sempre. In certo senso, io ero sempre vissuto nell’orgia, poiché non avevo mai smesso di voler essere immortale. […] Sì, morivo dalla voglia di essere immortale. Mi volevo troppo bene per non desiderare che il prezioso oggetto del mio grande amore non sparisse mai. Visto che, da svegli, e per poco che uno si conosca, non si vedono ragioni valide perché l’immortalità sia conferita a una scimmia salace, bisogna pur procurarsi surrogati di codesta immoralità. Perciò per desiderio di vita eterna andavo a letto con le puttane e bevevo per notti intere». [2]

C’è poco da aggiungere: è questa l’unica immortalità raggiungibile dall’uomo che si attiene ai fatti (in alternativa bisogna sperare nella divina salvezza). Dunque, più che immortalità sarebbe meglio chiamarla eternità, l’eternità degli attimi, di quegli attimi che percepiamo come eterni, perché fuori dal tempo, sospesi.

Ovviamente, il piacere è soggettivo e deve fare i conti non solo con il corpo ma anche con la mente e i sentimenti morali. Ognuno sarà eterno a modo suo. E cosa più importante: questa eternità, come l’immortalità di cui parla Borges, non è affatto detto conduca a felicità o realizzazione: «uno gioca a fare l’immortale, e in capo a qualche settimana non sa nemmeno più se potrà strascicarsi fino al giorno dopo» [3] rivela Clamence lamentandosi dei dolori al fegato.

L’uomo è un essere ontologicamente insaziabile e paradossale: vuole l’immortalità ma non la noia, vuole vivere al massimo, sentirsi eterno ma non troppo, per poi riconoscere, magari autocompiacendosi, l’effimerità della sua vita.

La sentenza definitiva di Camus sulla condizione umana è amarissima: l’uomo è colpevole, sempre; è per questo che Clamence si lascia andare ai piaceri della carne senza rimorso, nella consapevolezza della sua condizione, in attesa di un prossimo e puntuale tentativo di autocommiserazione e pentimento, per poi, però, ricominciare tutto da capo.

A questo punto, siamo ancora così sicuri di voler prorogare indefinitamente questo nostro io sporco e lamentevole? O forse è meglio vivere il dovuto cercando di lasciar di noi la miglior traccia? D’altronde è lo stesso Camus a scrivere quattordici anni prima de La caduta, rifacendosi al suo maestro spirituale Nietzsche, che «ciò che importa […] non è la vita eterna, ma l’eterna vivacità» [4] — fin che si vive, naturalmente.


[1] J. L. Borges, «El inmortal», in El Aleph (1949); trad. it., L’immortale, in L’Aleph, Feltrinelli, Milano 2009 (1949), p. 21.
[2] A. Camus, La chute, Gallimard, Paris 1956; trad. it. La caduta, Garzanti, Milano 1966, cit., pp. 62-63.
[3] Ivi, p.64.
[4] A. Camus, Le mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942; trad. it. Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano 2010, cit., pp. 77-78.


Francisco De Goya, Il Pellegrinaggio di San Isidro, particolare, 1823



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