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Intervista a Renato Barilli
McLuhan, la letteratura e altro
A cura di Giuseppe Crivella
30 maggio 2014
Incontro Renato Barilli nel tardo pomeriggio di questo autunno perugino stranamente clemente. È una figura che al tempo stesso ispira mitezza e rigore, discrezione e tenacia; ha la fisionomia intellettuale di uno di quei rari studiosi che alla impostazione strenuamente antidogmatica della loro pluridecennale riflessione affiancano non solo la solidità del pensatore (e del critico), ma anche un tono che non ha assolutamente nulla del cattedratico. Parla con la soda placidità di chi alla straordinaria vastità di argomenti e temi che gli capita di toccare, mescola di tanto in tanto il ricordo di una stagione culturale rampante, esplosiva, probabilmente irripetibile, quasi sicuramente conclusa per sempre. A volte questo ricordo sembra prendere il sopravvento e una tenue sfumatura di malinconia colora la voce e lo sguardo del Professor Barilli, forse anche con una nota di nostalgia imbevuta di rassegnazione per il tempo trascorso. Ma questi frangenti durano attimi quasi inavvertibili; subito essi vengono rimossi da qualche accensione compostamente polemica e ancora carica di terso vigore intellettuale, come quando, per esempio, il discorso cade su Lyotard o altri autori poco congeniali al Professor Barilli.
Ma partiamo dall’inizio:
Professore, per oltre trent’anni Lei ha insegnato Fenomenologia degli stili: può tratteggiare brevemente i caratteri salienti di quest’ambito di studi?
Questa disciplina è una delle molte introdotte nello statuto del DAMS, Corso di discipline in Arte, Musica e Spettacolo, con cui si intendeva reagire al primato dell’approccio storicistico che allora si assegnava ad ogni materia umanistica, costretta ad essere preceduta dal classico “storia di”, e anche si voleva reagire al primato delle lettere, facendo notare che il genio della nostra nazione si è espresso assai di più, e oggi continua a farlo, nell’ambito delle discipline non verbali, appunto arte, e architettura, musica, cinema, teatro, le materie a cui il DAMS ha rivolto la sua attenzione. Ci fu allora una apparente contraddizione, in quanto proprio in quel momento, 1972, io vinsi una cattedra in, neanche dirlo, ‘Storia’ dell’arte contemporanea, ma per me si fece un’eccezione chiamandomi a ricoprire quella cattedra al DAMS nonostante la professione di fede anti-storicista. Però appena ho potuto (1980) sono passato volentieri a coprire la materia corrispondente a questa denominazione, che mi offriva due vantaggi; conciliare una mia mentalità teorica con una di applicazione concreta ai fenomeni artistici, nello stesso tempo la nozione di stile non era caratterizzata in singoli settori, e dunque legittimava la mia propensione a occuparmi tanto d’arte quanto di letteratura. Inoltre la pluralità con cui sono indicati gli ‘stili’ introduce pure una dimensione storica che non ho mai voluto rinnegare. Anche se di fatto la mia carriera accademica si è svolta in un dipartimento di arti visive, e infatti uso dire che quando intervengo in campo letterario sono un abusivo, come un medico senza laurea.
Facciamo un esempio: nel suo testo Scienza della cultura e fenomenologia degli stili Lei parla piuttosto diffusamente di Heinrich Wölfflin; quanto è stato innovativo e rigenerante il contributo di questo studioso per la critica e la storia dell’arte?
Io ho ereditato dal mio maestro Luciano Anceschi una ferma fede nel valore euristico delle coppie bipolari. Lui stesso aveva esordito in una sua tesi di dottorato anteguerra proponendo “Autonomia ed eteronomia dell’arte”, Io ho fatto un passo indietro fino al chiuso e aperto di Wölfflin, che lui stesso si è limitato ad applicare al campo artistico, ma poteva essere esteso anche ad altri campi. Si pensi quale uso positivo ne abbia fatto Umberto Eco stendendo il suo miglior saggio, “Opera aperta”.
Nel ’54 Pareyson con la sua “Teoria della formatività” apriva un nuovo capitolo dell’estetica, quasi congedando Croce. Nel ’64 Lei con Per un’estetica mondana assestava un ulteriore colpo alle tesi crociane opponendo allo Spirito solipsistico di quest’ultimo la necessità di un’apertura al mondo. In quali termini l’estetica mondana, secondo Lei, può essere ancora attuale?
Lei dimentica che, prima di Pareyson, una critica addirittura feroce dell’estetica dogmatica di Croce era stata svolta da Antonio Banfi, che predicava un atteggiamento ‘aperto’, pronto a dismettere ogni pretesa categoriale e a rivolgersi alla prassi. Era già una filosofia della ‘debolezza’, ma con intento positivo, in quanto questo atto di sganciamento dai pregiudizi invitava ad ascoltare le poetiche nascenti sul filo della diretta esperienza dell’arte. In tempi a noi vicini l’allievo migliore di Pareyson, Vattimo, ha lanciato con grande successo il suo “pensiero debole”, però non vedo come questo si discosti dalle enunciazioni della linea Banfi-Anceschi, purtroppo la gente dimentica e i remake vengono accettati.
Esiste una linea di convergenza se non proprio di continuità tra la Sua estetica mondana e l’estetica razionale di Ferraris?
Assolutamente no, ho detto tutto il male possibile di quel pasticcio epistemologico che il ‘pentito’ Ferraris, abbandonando il pensiero debole di Vattimo, ci ha snocciolato, trascinandosi dietro un pur riluttante e ondivago Eco. È una impostazione che retrocede a prima di Kant e pretende di cancellare il ruolo attivo del soggetto. Invece il mio concetto di mondo è una realtà onnicomprensiva, in cui entra appunto il soggetto, collegato in rete ai dati ambientali. In fondo, presagivo già la mia adesione alle tesi di McLuhan secondo cui il modello oggi dominante è quello del campo elettromagnetico dove “tout se tient”.
Non è strano che sia nata l’esigenza di un’estetica mondana proprio nel momento in cui, con la Nietzsche-Renaissance e tutta la deriva ermeneutica che ne è seguita, il mondo sembrava essersi ridotto a favola?
Io sono stato contrario alla Nietzsche-Renaissance, come anche a quella di Heidegger, sono rimasto un convinto fenomenologo con adesione a Husserl e soprattutto ai suoi continuatori francesi, Sartre, Merleau-Ponty, che proprio nell’“Estetica mondana” ponevo in stretta connessione col pragmatismo statunitense, nella persona di John Dewey. Applicavo già la nozione di omologia che Goldmann andava elaborando in Francia.
L’affresco teorico da Lei messo in campo in Per un’estetica mondana è vasto e potente, ricco e sistematico senza essere dogmatico. Mi interessano però soprattutto due nomi: Mikel Dufrenne e Cesare Brandi: non Le pare che siano stati colpiti da un ingiustificabile oblio?
Ahimè, l’oblio colpisce tutti, ne ho già dato esempi clamorosi poco sopra accennando all’oblio che ha colpito la linea Banfi-Anceschi. Anch’io ne sono vittima, tanto che di recente mi sono definito un calviniano “critico inesistente”.
In “Tra presenza e assenza” Lei affronta la cosiddetta linea ‘assenzialista’ del pensiero francese (Derrida, Foucault, Deleuze-Guattari, Lyotard). A suo giudizio vi è una sorta di cesura netta tra la filosofia di pensatori come Sartre e Merleau-Ponty e tutta la compagine post-strutturalista?
Le cose stanno proprio come dice lei, mi sembra che il tempo mi abbia dato ragione, le proposte di Foucault e Derrida si allontanano, mentre per esempio il ‘mondano’ e presenzialista McLuhan oggi è stato rimesso sugli altari. Io credo fermamente nella coppia soggetto-oggetto, che si fanno reciprocamente, come anche detto sopra. I Nouveaux philosophes francesi, con indubbie prodezze concettuali, hanno cercato di far fuori entrambi i continenti, non ci sarebbe più né una soggettività concentrata e responsabile né un’oggettività offerta alle nostre ‘intenzioni’, per dirla con Husserl.
Se le chiedessimo di prendere posizione all’interno della querelle Postmoderno New Realism Lei dove si collocherebbe?
Lei sa bene che do al postmoderno un significato e una valenza storica, portandolo a essere coestensivo di quanto secondo i manuali dovrebbe essere definito come contemporaneo. Quanto al New Realism, è etichetta vaga, non so bene a che cosa lei si riferisca, se è alle concezioni malamente abborracciate da Ferraris le respingo con sdegno, perché sono una retrocessione a prima del contemporaneo, o postmoderno che si dica. Ignorano la presenza del campo elettromagnetico come realtà coinvolgente.
Lei è stato uno dei primi e più acuti interpreti di Robbe-Grillet, a cui ha dedicato anche un saggio dal titolo Robbe-Grillet e il romanzo postmoderno. Qual è il lascito più rilevante del Nouveau Roman nella narrativa attuale?
Una posterità del Nouevau Roman passa attraverso la constatazione che quello fu un fenomeno generale di ripresa dei migliori caratteri della narrativa rivoluzionaria dei primi del secolo, Joyce, Woolf, Svevo, Pirandello, ma con modalità più diffuse e appiattite, cioè, come dicevo allora, “normalizzate”, e anche con maggiore attenzione a quanto riguarda il corpo e il sesso. Si noti però che sempre nelle avanguardie storiche era pure presente la riscrittura di miti del passato, si pensi a Jarry, Roussel, al nostro De Chirico, e dunque neppure il pastiche, il remake possono essere detti forme del tutto inedite.
Nell’Introduzione del 1976 al volume sul Gruppo 63 Lei fa riferimento al fatto che proprio voi del Gruppo foste accusati di foraggiare l’industria culturale. Come spiega un attacco di questo genere?
Allora per avversarci si valsero di ogni possibile accusa, però è vero che noi insistevamo a dire che bisognava tenere conto della seconda (o terza?) rivoluzione industriale che stava cambiando tutti gli stili di vita, e dunque anche i modi dell’arte e della letteratura nel darne conto.
È corretto affermare che uno dei contributi più importanti del Gruppo 63 riguarda una poderosissima riflessione sulle forme (poetiche, narrative, teatrali, artistiche in senso lato) che in seno al panorama italiano forse era sempre mancata?
Non bisogna assolutizzare questa formula, noi cercammo di far capire quanto fosse necessario rapportarci alla rivoluzione industriale in atto nei primi anni ’60.
Il vostro modello derivava da una parte dal Gruppo 47, dall’altra dal Nouveau Roman. La cultura francese e tedesca come guardarono il fenomeno del Gruppo 63?
Ci fu una certa attenzione da parte del mondo francese, i membri della rivista Tel Quel, capeggiati da Sollers, per qualche tempo ci guardarono con attenzione, facendo tradurre il Capriccio italiano di Sanguineti, ma poi seguirono il richiamo di Foucault prendendo la strada dell’assenza. Purtroppo ci portiamo dietro la poca conoscenza di cui gode nel mondo la nostra lingua.
Si parla sempre della poesia e della narrativa sorte in seno al Gruppo 63. Non sarebbe giusto parlare anche di un nuovo modo di intendere la critica letteraria e critica d’arte?
Ovviamente, avendo partecipato al Gruppo 63 come critico, e non come autore di testi, mi spetta di dire bene del ruolo che allora svolsi, consegnato proprio all’antologia compilata nel ’76 assieme al collega Guglielmi, e ora ripubblicata da Bompiani. Sono comunque del parere che critica e produzione di testi devono procedere assieme, con scambi continui.
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Gruppo 63
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