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Hegel e la traccia della bellezza
di Francesca Brencio

23 ottobre 2012


                Per Ilir, mio figlio perché sappia amare e s-vestire la bellezza, non solo la sua idea

                Stretto è il mondo, e largo lo spirito
                I pensieri si sfiorano leggermente
                Ma le cose si urtano duramente nello spazio

                Friedrich Schiller, La morte di Wallenstein
                II, 2, vv. 787-789



Nella filosofia hegeliana non c’è posto per la bellezza: né per una bellezza naturale e corporea, né per una di tipo spirituale; né per una bellezza in grado di salvare l’uomo e di redimerlo e nemmeno per una bellezza che lo conduca alla perdizione ed alla dissoluzione di sé. La bellezza, nelle sue molteplici forme e tonalità, è esiliata dal “regno del concetto”, poiché il Vero, l’Assoluto non ha bisogno della bellezza per esser tale ma solo della forma logica più adeguata, cioè del concetto.

Eppure, l’Estetica di Hegel inizia con la chiara intenzione di occuparsi del bello, o meglio, della filosofia della bella arte (1), il cui oggetto di interesse e di indagine non è il bello naturale, ma il bello artistico, «la sola realtà conforme all’idea del bello» (2), la cui superiorità sul bello naturale è dettata dalla sua intima appartenenza al regno dello Spirito. Infatti, «il bello naturale appare solo come un riflesso del bello appartenente allo spirito, come un modo imperfetto, incompleto, un modo che secondo la sua sostanza è contenuto nello spirito stesso» (3).

La bellezza naturale vive nel regno dell’indeterminato e quindi essa non può elevarsi alla verità dello Spirito, il quale proprio attraverso il crescente grado di determinazione delle proprie figure diventa Vero, quindi Assoluto. Il bello naturale è tale «solo per altro, cioè per noi, per la coscienza che concepisce la bellezza» (4). Ma perché «la natura è necessariamente imperfetta nella sua bellezza, e dove si palesa quest’imperfezione?» (5). La natura è così imperfetta perché non può gettar via ciò che non appartiene al concetto; questo è proprio il compito a cui è chiamata l’arte, la quale “purificando” (6) la realtà dalle sue indeterminazioni, crea l’ideale. L’arte riesce così a ricondurre l’esistenza esteriore nello spirituale in modo tale da permettere all’apparenza esterna di diventare conforme allo spirito come sua propria rivelazione. Attraverso questa riconduzione viene riaffermata la superiorità del bello artistico sul bello naturale.

Non solo. L’arte bella è veramente tale solo nella misura in cui essa è libera, cioè nella misura in cui viene liberata dai suoi fini e dai suoi mezzi. Quando l’arte bella diviene libera, allora essa «adempie primieramente al suo compito supremo» (7), ponendosi nella sfera comune della religione e della filosofia. Tuttavia, l’arte deve realizzare un fine supremo, che è da Hegel indicato nella massima di Terenzio nihil humani a me alienum puto (8):
    Il suo fine viene quindi posto in ciò, che si debba svegliare dal torpore e dar vita a sentimenti, ad inclinazioni e passioni di ogni genere, riempire il cuore, far sentire agli uomini tutto ciò che, sviluppato o ancora non sviluppato, l’animo umano, nella sua più segreta intimità, può avere, sperimentare e produrre, tutto ciò che la profondità del petto umano può agitare e suscitare nei suoi molteplici aspetti e possibilità (9).
Affermata l’intenzione fondamentale che anima la ricerca estetica di Hegel, si dovrebbe attendere che nel corso della sua riflessione egli ponga attenzione alla bellezza. Ma questa attesa rimane irrealizzata. Ciò che sta a cuore ad Hegel non è lo studio della bellezza, né tanto meno della bella arte tout court. Ciò che interessa ad Hegel è lo studio della bella arte come progressiva manifestazione dello Spirito nella forma più adeguata a testimoniarne l’esistenza, cioè l’idea di bellezza. L’interesse per la bellezza viene scalzato via dall’interesse per l’idea del bello, in quanto solo l’idea — e quindi l’ideale — può accedere al regno del concetto. Ciò che sta a cuore al filosofo di Stoccarda è l’idea del bello, non il bello in sé. La bellezza diventa così il concetto filosofico del bello, il quale deve «contenere in sé mediati i due estremi dati, con l’unificare l’universalità metafisica con la determinatezza della particolarità reale. Solo così esso è concepito in sé e per sé nella sua verità» (10). La bellezza diventa un genere determinato di estrinsecazione e rappresentazione del vero, prestandosi al pensiero che tuttavia possiede la potenza del concetto. Proprio a partire da questo concetto della bellezza e del bello in generale, ad Hegel interessa iscrivere il bello artistico nell’ambito spirituale, poiché «il regno della bella arte è il regno dello spirito assoluto» (11) .

«Il bello deve essere concepito come idea, anzi come idea in una forma determinata, come ideale» (12). Ma l’idea altro non è se non il concetto, l’unione del soggettivo con l’oggettivo, l’intero eternamente realizzato e realizzantesi. Proprio perché ideale allora la bellezza è anche vera: «Se la bellezza è idea, bellezza e verità sono per un verso la stessa cosa. Il bello cioè non può non essere vero in se stesso» (13). Questa identità di bellezza e verità si basa su una relazione di natura logica, concettuale. E proprio in relazione al concetto, alla bellezza corrispondono gli stessi attributi del vero: essa è infinita, libera, eterna. Poiché la bellezza diventa ideale, cioè idea, essa può ora accedere al regno del concetto e guardare la realtà dall’alto della sua forma vera: «Schiller nella sua poesia L’Ideale e la Vita parla, di contro alla realtà con i suoi dolori e le sue lotte, della “bellezza di un calmo paese delle ombre”. Tale regno delle ombre è l’ideale, gli spiriti che in esso appaiono sono morti all’esistenza immediata, distaccati dai bisogni dell’esistenza naturale, liberati dai legami della dipendenza da influenze esterne e da tutte le perversioni e le deformazioni che sono inerenti alla finitezza dell’apparenza […]. L’ideale se ne sta unito con se stesso nell’esteriore, liberamente poggiando su di sé, come sensibilmente in sé beato, di se stesso gioendo e godendo. Il suono di questa beatitudine echeggia per tutta l’apparenza dell’ideale, giacché per quanto la forma esterna possa estendersi, l’anima dell’ideale non vi perde mai se stessa. E solo per ciò esso è veramente bello» (14). Come attributi di questa bellezza ideale, Hegel elenca la calma serena e la beatitudine, poiché, come suggerisce ancora Schiller, «seria è la vita, serena è l’arte» (15). Questo esser soddisfatti di se stessi restando in se stessi chiusi assume la forma delle statue degli antichi dei, in cui si assiste al trionfo della libertà concreta in sé concentrata, o del volto di Cristo, degli Apostoli, dei santi, dei penitenti e dei devoti, presentati nella loro beata quiete e soddisfazione (16). E questa serenità è la stessa calma serenità con cui l’eroe tragico greco si staglia sullo sfondo del Fato. Sebbene egli sia stato vessato dal volere del Fato, tuttavia in esso è all’opera il dimorare presso di sé rimanendo fedele a se stesso; egli «può perdere la vita ma non la libertà» (17). La lacerazione dell’eroe greco si ricompone nella fermezza della propria libertà e non si separa dal tutto etico a cui appartiene (18).

Ma la lacerazione che è all’opera nel volto dell’eroe tragico greco assume ben altro spessore nell’estetica romantica, in cui questa lacerazione e la dissoluzione vengono approfondite e non sempre riconciliate. Così, per esempio la pittura,
    nel rappresentare la Passione, può accontentarsi talvolta dell’espressione di scherno nei tratti della soldataglia che tortura Cristo, e dell’orrenda deformazione della grinta del loro volto; ed allora, mantenendo questa disunione, particolarmente nel descrivere il vizio, il peccaminoso e il male, la serenità dell’ideale viene a perdersi (19).
Subentra il non bello, non necessariamente la bruttezza. Proprio questo non bello consegna alla bellezza ideale una traccia di negatività, un residuo di disarmonia, uno iato che rimanda alla lacerazione. È in tal senso che, essendo la bella arte funzionale all’esigenza del sistema di mostrare l’Assoluto, essa non può sedersi accanto allo Spirito. Piuttosto, il bello conserva in Hegel le tracce del negativo, di quel negativo che nell’alternarsi dialettico ha dovuto di volta in volta superare e affrontare ancora, di nuovo, il proprio opposto nella sua tensione verso lo Spirito Assoluto. I segni di questo conflitto sono tanto più visibili quanto più ci si avvicina proprio verso il regno dello Spirito, verso le sue altezze. La bellezza così non è mai immune da ombre, da residui di negatività che ne delimitano i contorni. Nell’arte, l’avvicinarsi alle altezze dello Spirito, è rappresentato da due specifiche forme artistiche: la tragedia e la commedia. Esse sono entrambe caratterizzate da squilibri profondi che, se pur assumono la veste della bellezza, tuttavia rimandano al negativo originario in esse custodito. Questi squilibri attestano non tanto come il bello si avvicini all’Assoluto, piuttosto come la negatività in esso contenuto sia custodita dal non bello, cioè dal brutto.

Hegel non ha mai dedicato espressamente molto spazio alla nozione di brutto, né in riferimento al bello e neppure laddove la riflessione su di esso lo imponeva; tuttavia è possibile scorgere nelle pagine dell’Estetica i primi cimenti di una vera estetica del brutto, anticipando molte delle riflessioni che saranno poi sviluppate da Franz Rosenkranz nella sua Estetica del brutto (20). Il brutto è una categoria che Hegel adopera in riferimento all’esperienza del dolore introdotto dal cristianesimo nella civiltà occidentale. Scrive Hegel:
    Per l’espressione della bellezza spirituale certamente l’artista eviterà quel che è brutto in sé e per sé nelle forme esterne, oppure saprà domarlo e trasfigurarlo con la forza dell’anima che vi irrompe, ma tuttavia egli non può fare interamente a meno della bruttezza […]. È questa la cerchia della cattiveria e del male, che viene ad apparire nell’ambito religioso principalmente con la soldataglia che agisce nella Passione di Cristo, con i peccatori dell’Inferno e con i diavoli (21).
La sofferenza ed il dolore, che nell’arte romantica toccano l’animo dell’uomo in modo più profondo rispetto alle altre arti, vengono rappresentati con un’intimità spirituale,
    un gioire nella sottomissione, una beatitudine nel dolore, una felicità nella sofferenza, anzi una voluttà perfino nel martirio […]. Nell’arte romantica in generale quest’espressione è un sorridere attraverso le lacrime. Le lacrime appartengono al dolore, il sorriso alla serenità, e così il sorriso nel pianto indica questo essere pacificati in sé pur nel tormento e nel soffrire. Certamente in tal caso il sorriso […] deve apparire come la fermezza e la libertà del bello nonostante ogni dolore (22).
In questa considerazione del dolore e del brutto, l’uomo è trasformato in
    anfibio, costretto cioè a vivere in due mondi. Viene infatti alternativamente trascinato verso la terra, verso il basso della “carne”, dalle tentazioni e dal peccato, e verso il cielo, verso l’alto, dal suo infinito desiderio di assoluto. Da un lato, dunque, le fisionomie animalesche dei fustigatori di Cristo nell’antica pittura tedesca simboleggiano la tragica, inestirpabile onnipresenza del male nell’uomo; dall’altro, i delicati volti della Madonna e quelli dei santi alludono a una redenzione aperta a ciascuno. Il cristianesimo metabolizza la negatività, a patto che si riconosca sul piano religioso, che la natura (umana e extraumana) è priva di bellezza e di conciliazione (23).
Il male secondo Hegel è incapace di suscitare un vero interesse estetico:
    Il male è in generale in sé freddo e senza contenuto, poiché da esso nient’altro nasce che negativo, distruzione ed infelicità, mentre l’autentica arte deve a noi presentare in sé l’aspetto di un’armonia (24).
A questo negativo che emerge dalla considerazione del brutto deve corrispondere anche il negativo della forma:
    La realtà del negativo può certo corrispondere al negativo e alla sua essenza e natura; ma se il concetto e il fine interni sono in se stessi già nulli, la bruttezza già interna ancor meno ammette nella sua realtà esterna una bruttezza autentica (25).
Naturale è la corrispondenza tra interno ed esterno, caratteristica spirituale del contenuto artistico, anche nel caso del brutto: il brutto interno non può avere altra forma esteriore se non quella che rimanda alla bruttezza estetica. Tuttavia, puntualizza Hegel, il fatto che l’artista rappresenti il brutto nella sua crudezza non significa che esso non sia bello dal punto di vista della creazione artistica; ciò significa che l’artista rende visibile il negativo in una modalità che sia conforme alla natura del negativo stesso, ma non per questo la rappresentazione artistica può dirsi brutta:
    La sofistica della passione può si cercare con l’abilità, il vigore, l’energia del carattere, di immettere lati positivi nel negativo ma noi ne traiamo lo stesso la visione di un sepolcro imbiancato. Infatti ciò che è solo negativo è in generale in sé scialbo e piatto, e quindi o ci lascia vuoti o ci respinge, sia che venga usato come movente di un’azione o semplicemente come mezzo per provocare la reazione altrui. Ciò che è crudele, infelice, l’asprezza nell’uso del potere, la durezza della prepotenza, possono ancora essere messi insieme e tollerati nella rappresentazione, se sono appoggiati ed elevati dalla consistente grandezza del carattere e del fine, ma il male come tale, l’invidia, la viltà e la bassezza d’animo sono e rimangono repellenti. Il diavolo per sé è perciò una figura cattiva, inutilizzabile esteticamente; infatti, egli non è altro che la menzogna in se stessa, e quindi un personaggio prosaico al massimo (26).
Hegel perviene ad un luogo teoretico in cui della bellezza, di quella che non riesce ad essere contenuta nelle maglie del concetto ma che irrompe fuori da esso, c’è solo la traccia nel suo doppio rimando; da un lato all’Assoluto, in quanto l’idea della bellezza è una forma del concetto; dall’altro al negativo, in quanto la bella arte non è priva di residui di non bello. La bellezza con Hegel smette di essere un attributo per diventare una forma da determinare mediante il suo proprio concetto. Stretta tra le esigenze che la costruzione del sistema dello Spirito impone, la bellezza diventa idea, strumento dell’arte, primo gradino della filosofia dello Spirito, poiché l’arte bella ha il suo futuro nella religione, inveramento dello Spirito.
Il cammino hegeliano verso l’arte non parte dall’Estetica, ma affonda le sue radici altrove. A tal proposito, si ricordi che Hegel non ha mai scritto un’Estetica vera e propria, né ha mai pubblicato personalmente alcuna opera intitolata Lezioni di estetica. Il materiale che possediamo e che porta questo stesso titolo è una redazione dei suoi quaderni e degli appunti dei suoi studenti delle lezioni di estetica tenute a Berlino, redazione compiuta e supervisionata da parte di uno studente di Hegel nonché suo interprete, Gustav Heinrich Hotho, dopo la morte del filosofo (27). Hotho non solo ha trascritto la maggior parte degli appunti di Hegel ma ha anche aggiunto molto del proprio pensiero nella redazione dell’Estetica, al punto da richiedere una supervisione finale molto scrupolosa ed adeguata.

Nelle sue lezioni di estetica, Hegel adopera per la prima volta un termine che è entrato nel linguaggio filosofico e in quello comune con una certa frequenza: Weltanschauung, “visione del mondo”. Questo termine è usato da Hegel al plurale, proprio nel senso di “visioni del mondo” per indicare i diversi punti da cui l’arte permette all’uomo di affacciarsi sul mondo. È così che l’arte diventa un “Argo dai mille occhi” poiché in essa, da ogni punto, attraverso il sensibile, viene spazzata via l’illusione e la parvenza, richiamando l’attenzione «ad un elemento spirituale che per mezzo suo deve venire a rappresentazione» (28).

Tuttavia, questa straordinaria capacità dell’arte è anche il suo limite più proprio; infatti, la sensibilità non solo è l’orizzonte dell’arte ma anche il suo limite, poiché l’universale esiste indipendentemente dalla percezione sensibile che la coscienza realizza. L’arte riesce a riunire e riconciliare tra loro le contraddizioni, nerbo della dialettica, solo a patto di una serenità pacificatrice — come insegna Schiller — che tuttavia rimane al di là del concetto dell’Assoluto, il quale ha superato e ricomposto in sé tutte le lacerazioni e le contraddizioni senza alcun bisogno dell’arte. In tal senso per Hegel l’arte deve essere oltrepassata.

È con Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio che Hegel spenderà qualche parola sull’ideale del bello. Ciò che merita di essere meditato degli ultimi paragrafi dell’Enciclopedia dedicati all’arte è come Hegel colleghi l’arte bella alla religione nei termini di progressiva liberazione dalla non libertà dello Spirito; proprio qui egli afferma che
    l’entrata in scena dell’Arte Bella annuncia il tramonto di una religione ancora legata all’esteriorità sensibile. Proprio nel momento in cui sembra conferire alla Religione la suprema trasfigurazione ed espressione e il supremo splendore, l’Arte ha in realtà innalzato la Religione al di là della sua limitatezza […]. L’Arte Bella ha svolto a suo modo lo stesso compito della Filosofia, vale a dire: la purificazione dello spirito dalla non-libertà […]. L’Arte bella, tuttavia, è soltanto uno stadio della liberazione, non la liberazione suprema […]. L’Arte bella […] ha il proprio futuro nella Religione vera (29).
Conclusa la sezione dell’arte nell’Enciclopedia con l’affermazione che il futuro dell’arte è nella religione, è proprio nell’Estetica che questa meditazione corre come un filo rosso tra quelle Vorlesungen. Qui, nell’Estetica, la bellezza torna come termine di confronto con il romanticismo. L’arte romantica rappresenta la soggettività assoluta come unica verità, l’unione dello spirito con la sua essenza in modo che l’ideale si trovi effettivamente realizzato:
    Per la bellezza romantica è assolutamente necessario che l’anima […] mostri al contempo di essere ritornata in sé dalla corporeità e di vivere in se stessa […]. Per questo motivo la bellezza non riguarderà più l’idealizzazione della forma oggettiva, ma la forma interiore dell’anima in se stessa; essa diviene una bellezza dell’intimità (30).
Nell’arte romantica avviene la separazione tra contenuto e forma, la quale conduce all’esistenza di due mondi: uno spirituale, in sé perfetto; l’altro esteriore, sciolto dallo spirito, il regno del naturalismo. Proprio tra soggettivismo e naturalismo si consuma secondo Hegel l’esperienza dell’estetica romantica; natura e spirito non si compenetrano reciprocamente ma si scontrano in espressioni contrapposte dell’arte. Attraverso l’esame dei tre grandi momenti dell’estetica romantica — la cerchia religiosa dell’arte romantica, la cavalleria, l’autonomia formale delle particolarità individuali — l’arte romantica conosce due strade: o si abbandona all’oggettivismo prosaico o sceglie il soggettivismo umoristico, anime opposte i una medesima corrente la quale dimostra tutta l’insanabilità del conflitto tra le due tendenze e l’assenza di una pacificazione, specchio fedele delle antinomicità del reale che il romanticismo ha colto e reso più acute.

Hegel non ha mai potuto tollerare la scissione, «l’infelicità che è nella scissione, nella rottura dell’armonia, quell’armonia che la Grecia esemplarmente seppe possedere e che il mondo moderno ha irrimediabilmente perduto, come l’ambizione e l’inquietudine dell’illuminismo dimostrano» (31).

Proprio perché gli era insopportabile l’elemento della scissione, della disunione, egli costruisce nell’estetica il più grandioso tentativo di far ritornare lo Spirito, lacerato dallo struggimento dell’opposizione e della contraddizione che regge il reale, «come fede, più avanti come anima bella e alla fine come trapasso dalla religione disvelata al sapere assoluto» (32).

In questo procedere l’Assoluto, come unione dell’unione e della non unione, è nuovamente riaffermato. Con la sua manifestazione vera non c’è alcun spazio per la bellezza, ma solo per la sua idea.


(1) G. W. F. Hegel, Ästhetik, Aufbau Berlin, 1955; Estetica, tr. it. a cura di N. Merker e N. Vaccaro, Feltrinelli, Milano 1963, p. 5.
(2) Ivi, p. 191.
(3) Ivi, p. 7.
(4) Ivi, p. 167; cfr. O. Meo, Tragico e fruizione estetica in Kant e Hegel, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 7 ss.
(5) Ivi, p. 191.
(6) Cfr. Ivi, p. 207.
(7) Ivi, p. 13.
(8) Cfr. Ivi, p. 65.
(9) Ivi, p. 65.
(10) Ivi, p. 32.
(11) Ivi, p. 129.
(12) Ivi, p. 144.
(13) Ivi, p. 150.
(14) Ivi, p. 209.
(15) Ivi, p. 210.
(16) Cfr. Ivi, pp. 234 ss. (17) Ivi, p. 210.
(18) Cfr. Ivi, pp. 238 ss.
(19) Ivi, p. 210.
(20) Cfr. F. Rosenkranz, Ästhetik des Hässlichen, Bornträger, Königsberg 1853; Estetica del brutto, tr. it. a cura di S. Barbera, Aesthetica Edizioni, Palermo 1984.
(21) Ivi, p. 1137 s.
(22) Ivi, p. 211.
(23) R. Bodei, Le forme del bello, Il Mulino, Bologna 1995, p. 106.
(24) G. W. F. Hegel, Estetica, cit., p. 292.
(25) Ivi, p. 291.
(26) Ivi, p. 291.
(27) L’Estetica fu pubblicata per la prima volta da Hotho in tre tomi, dei quali il primo vide la luce nel 1835 e l’ultimo tre anni dopo. Hegel iniziò a tenere corsi di filosofia dell’arte ad Heidelberg, nel 1817 annunciandone uno ma non svolgendolo, nel 1818 invece effettivamente portandolo a termine, mentre a Berlino lesse per ben quattro volte sull’estetica, nell’arco di tempo dal 1820 al 1829.
(28) Ivi, p. 15.
(29) Ivi, p. 907.
(30) G. W. F. Hegel, Estetica, cit., p. 700.
(31) P. Piovani, Incidenza di Hegel, in AA. VV., Incidenza di Hegel. Studi raccolti nel secondo centenario della nascita del filosofo, a cura di F. Tessitore, Morano, Napoli 1970, p. p. 13.
(32) K. Rosenkranz, Vita di Hegel, cit., p. 221.


Francisco de Goya y Lucientes, El Prendimiento de Cristo, 1798



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