Kasparhauser
rivista di cultura filosofica





Kasparhauser

2014


Rivista di cultura filosofica


Monografie


Culture Desk


Ateliers


Chi siamo


Partnership


Info

La minaccia di guerra
A cura di Jacopo Valli

18 settembre 2014



Ci sono circostanze difficili solo che per coloro che arretrano dinnanzi alla tomba
(Saint-Just)

Non è inutile opporre ai rinnegamenti degli uni o alle scappatoie degli altri un piccolo numero di affermazioni senza equivoco.

1. Il combattimento è la stessa cosa che la vita. Il valore di un uomo dipende dalla sua forza aggressiva.

2. Un uomo «vivente» si raffigura la morte come ciò che compie la vita: egli non la guarda come un male. Al contrario, un uomo che non abbia la forza di dare alla morte un valore tonico è qualcosa di «morto».

3. Se ci si propone di andare fino all’estremità del destino umano, è impossibile rimanere soli, bisogna formare un’autentica Chiesa. Bisogna rivendicare un «potere spirituale» e costituire una forza capace di sviluppo e d’influenza. Nelle circostanze presenti, una tale Chiesa dovrebbe accettare ed anche desiderare il combattimento nel quale affermerebbe la propria esistenza. Ma essa dovrebbe riferirlo essenzialmente ai suoi propri interessi, vale a dire alle condizioni d’un «compimento» delle possibilità umane.

4. La guerra non può essere ridotta ad un’espressione e al mezzo di sviluppo di qualche ideologia, seppur bellicista: al contrario le ideologie sono ridotte al ruolo di mezzo di combattimento. Una guerra scavalca da tutte le parti le «parole» che sono pronunciate contraddittoriamente al suo verificarsi.

5. Il fascismo subordina servilmente tutti i valori alla lotta e al lavoro. La sorte della Chiesa che noi definiamo dovrebbe essere legata a valori che non fossero né militari né economici: non vi sarebbe differenza per essa tra esistere e combattere un saldo sistema di servitù. Essa non vi dimorerebbe meno estranea all'interesse nazionale o alle grandi parole democratiche.

6. I valori di questa Chiesa dovrebbero essere dello stesso ordine delle valutazioni tradizionali che collocano la Tragedia al vertice: indipendentemente dai risultati politici, è impossibile guardare una discesa dell’universo umano agli inferi come privata di senso. Ma di ciò che è infernale, non dovrebbe essere possibile parlare che discretamente, senza depressione e senza braveria.

Geroges Bataille (“Acéphale”, 5, 1939, traduzione di Jacopo Valli).



Il triangolo di Kanizsa
di Jacopo Valli


Davvero non sono equivoche queste affermazioni? È possibile assimilare la guerra all’esistenza stessa, e, allo stesso tempo, deprecare la schiavitù dei valori, pur richiamandosi a “nuovi valori”, riferibili alla costituzione di una nuova Chiesa?

Lo Schmitt de La tirannia dei valori insiste sul fatto che questi ultimi si pongano sempre al mondo attraverso un «punto d’attacco», rivelante una loro immanente aggressività e tensione all’egemonia, e, quindi, una loro forma compiuta, chiusa, stabile.

Ma non è la rivendicazione di valori comuni e la costituzione di un’identità comunitaria [e — direi sospettosamente — anche di una comunità che non rivendicasse identità, come sembra suggerire Agamben: perché — mi pare — l’idea di comunità esprima astrattamente una forma, ed ogni forma esige un contrappunto dialettico, uno sfondo, anche quando invero non c’è, come rivela l’illusione ottica del triangolo di Kanizsa] già anche un rendersi alla logica schiavizzante che si intenderebbe ferocemente scongiurare [«[…] non vi sarebbe differenza per essa tra esistere e combattere un saldo sistema di servitù»]? E rappresentano una sincera adesione al tragico, il riconoscimento della possibilità di un destino ideale dell’umanità come compimento e la tensione ad esso, e ciò anche qualora tale destino fosse riconosciuto come un possibile non esauribile, e, quindi, non tipizzabile e richiudibile in una forma delineante i tratti di un preteso “Uomo”?

Ritengo che allorché tali questioni si risolvessero in risposte positive, si produrrebbero come costitutive affermazioni di una logica servile riportante ad un senso della guerra non più tragicamente intendibile, in senso (r)esistenziale, come connaturata all'esistenza stessa e — come dire — ontologicamente coincidente ad essa, ma indicabile politicamente [e, nondimeno, esteticamente] come volontà impositiva/costruttiva protesa all’installazione di una nuova o ennesima (!…) «forma mundi», secondo la mai defunta e cocciuta tensione dinamica dialettica ideale e storicista, con tutte le nefaste e ineluttabili conseguenze del caso.



Il paradosso del pacifismo integrale
di Marco Baldino


Se la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero, il ripudio della guerra “senza se e senza ma”, è certamente una posizione non filosofica e meta-culturale; non potrà cioè fare da guida a nessuna considerazione ‘filosofica’ riguardo al nostro presente, così intensamente attraversato dalla guerra.

“Proprio tempo” non significa la contingenza di un tempo slegato dal suo passato, ma forma abbreviata e sintetica dell’intero passato o abbreviazione del passato nella forma presente. La novità del presente è, per la coscienza europea, che questo tempo è pieno di guerra e lo stupore della coscienza europea per essere essa stessa in guerra è parte integrante del problema. Tale parte ha nome «pacifismo integrale» e il suo significato è quello di essere una reazione risentita alla scoperta che tale tempo non è conforme alle aspettative di questa coscienza e deve quindi essere nuovamente fluidificato.

La storia è attraversata dalla guerra perché le autocoscienze lottano per l’autonomia, ovvero per non dover rispondere che a sé, dinanzi a chi deve invece rispondere sempre e solo ad altri. Si tratta di qualcosa come una dialettica tra ‘maggiorità’ e ‘minorità’. Emanciparsi dalla condizione di minorità è una necessità che nessun pacifismo può negare, perché non si può, in coscienza, respingere l’aspirazione emancipativa in nome della pace (e questa è già una notevole contraddizione): l’emancipazione supera cioè eticamente la ripulsa della guerra.

Infatti non si può ammettere che, in nome della pace, un popolo accetti di rimanere prigioniero del suo stato di minorità, nel momento stesso in cui, invece, ne sta prendendo coscienza. Questo perché l’emancipazione dallo stato di minorità è una presa sulle proprie spalle del proprio destino, che è un destino di morte — laddove chi vive nella piena protezione d’altri, senza dover mettere in gioco la propria vita, è, appunto, quel che si dice un ‘minore’.

La dialettica delle autonomie è ciò che chiamiamo “sviluppo storico” o il suo motore. In questo contesto liberarsi o emanciparsi, significa non dover più rispondere ad altri, ma ciò significa anche riconoscere il proprio destino di morte. E tale riconoscimento è possibile solo attraverso un confronto in cui si mette in gioco la propria vita. Questa è una prima considerazione. La seconda è che limitare o espungere il rischio di guerra dalla “scena umana” è un problema post-storico.

Se il ricorso alla guerra è espungibile, lo è alla sola condizione che la dialettica delle autonomie sia compiuta. Compreso che la maggiorità è sapere il proprio destino di morte, l’emancipazione dal proprio stato di minorità può divenire un puro gioco sociale, per esempio una dialettica tra ‘maggior-età’ e ‘minor-età’, solo se il desiderio scompare. Ma la tacitazione del desiderio o la sua riduzione a “gioco sociale”, può darsi solo se il negativo può essere a sua volta ridotto a manifestazione inoperosa, incapace cioè di intaccare l’equilibrio esistente che, per tanto, deve potersi concepire come globalmente stabile, cioè non accrescibile, non suscettibile di assumere ulteriori configurazioni.

Solo questo scenario può contemplare l’estinzione della guerra, e questo cozza in tutta evidenza con la pretesa di limitare la guerra attraverso un ripudio etico. Il minore non espungerà la guerra rovesciando semplicemente i rapporti di forza, misurandosi sul terreno del maggiore, ma modificando il significato della Weltanschauung, imperniandola, per esempio, sul concetto di virtù — così è accaduto duemila anni fa e più. Oppure portando ad effetto una rivoluzione che libera il lavoro dalla sua immagine servile — anche questo fa parte del passato già dato. Nessuno di questi tre metodi (confronto a morte, stoicismo, rivoluzione sociale) ci salverà dalla guerra. Ci vuol altro. Ci vuole anzitutto una comprensione stratificata e sintetica di ciò che chiamiamo ‘presente’, della ‘novità’ che rappresenta. Ebbene, nessuna petizione di principio etico potrà fornirci, essendo questa nient’altro che una posizione già occorsa, e quindi semplicemente morta, una visione sufficientemente ampia del problema. Oppure, questa stessa petizione è già una minaccia di guerra.



Ancora rifiutare la guerra?
di Jacopo Valli


Non certo per pose morali, e peraltro nemmeno annaspando nell’illusione che le guerre possano finire — almeno finché esistano un numero sufficiente di umani desiderosi di farsele, e mezzi adatti a tali scopi.

Se non ci si accontentasse di interpretare, pure sinteticamente, il proprio tempo ma ci si volgesse alla dissoluzione rappresentativa, perpetua, tanto delle tensioni utopistiche, afferibili a qualsivoglia vettorialità, quanto delle a mio avviso non meno illusorie attualità, che siano volgarmente cronachistiche o messe in scena come fattuali (il fatto che io indichi ogni stato rappresentativo come spettacolare nondimeno non significa che tali rappresentaziono, qualsiasi esse siano, non si diano come coincidenti col reale stesso: pur senza esaurirlo), l’apparente qusi-necessità della guerra — certamente non intesa come la necessaria interazione modale che è — ne uscirebbe perlomeno indebolita.

Se la guerra marca il processo di raggiungimento dell’autonomia, quel che mi pare auspicabile — e vorrei dire “necessario”, per radicalità — è un’autonomia che sia tale anche rispetto alle condizioni definite, di ogni tipo: quindi, autonomia non solo delle forme, ma anche dalle forme — forme nondimeno inevitabilmente, necessariamente instabili, [lietamente] instabilizzabili.



Franz Kline, Untitled



Home » Ateliers » Economia generale


© 2014 kasparhauser.net