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Dell’unità dell’immaginazione 3*
Le immagini appartengono tutte alla stessa famiglia? [TERZA E ULTIMA PARTE]

di Philippe Cabestan

(Traduzione di Giuseppe Crivella)



11 gennaio 2019


LA MATERIA DELLA PHANTASIE

Se Sartre può classificare la coscienza imageante all’interno di una famiglia più ampia è grazie a un’ipotesi sulla sua natura intima, che esce dalla fenomenologia propriamente detta e dipende dall’induzione. Bisogna in effetti lasciare il terreno della certezza per quello del probabile [1]. Ne L’imagination Sartre annuncia il programma de L’imaginaire in questi termini:
un lavoro sull’immagine deve quindi presentarsi come un saggio per realizzare su un punto particolare la psicologia fenomenologica. Dobbiamo cercare di costituire un’eidetica dell’immagine, ovvero cercare di fissare e descrivere l’essenza di questa struttura psicologica così come essa appare nell’intuizione riflessiva. Poi, una volta che si sarà determinato l’insieme delle condizioni che uno stato psichico deve necessariamente riempire per essere immagine, si potrà passare dal certo al probabile e chiedere all’esperienza ciò che essa può insegnarci sulle immagini così come esse si presentano in una coscienza umana contemporanea [2].
Tale frase ci permette di precisare lo statuto delle considerazioni che seguiranno sulla materia della Phantasie. Esse non dipendono dalla psicologia fenomenologica propriamente detta — ancora meno, non c’è bisogno di dirlo, dalla fenomenologia trascendentale — che è descrizione eidetica a partire dall’intuizione riflessiva sul piano mondano, ma dalla psicologia empirica che ha validità solo nella misura in cui le sue ricerche si subordinano all’eidetica dell’immagine. Allora sono proprio le immagini di una coscienza contemporanea che lo psicologo interroga, e i dati di questa psicologia empirica non rimandano all’evidenza dell’intuizione riflessiva; essi sono solo probabili, così come le induzioni che se ne possono trarre.

Bisogna inoltre comprendere la necessità di lasciare il campo della psicologia fenomenologica al fine di accostarsi alla questione della materia della Phantasie. Certo, il fenomenologo può affermare con certezza che l’immagine mentale mira a una cosa attraverso un contenuto psichico — nel seguito, pare a causa di un curioso lapsus, Sartre afferma che c’è «nell’immagine mentale un dato psichico» [3] — dal momento che si tratta in tal caso di una necessità d’essenza: una coscienza che prenderebbe di mira la cosa a vuoto sarebbe una pura coscienza di significato. Ma la descrizione riflessiva non ci istruisce direttamente sulla materia rappresentativa dell’immagine mentale. Per ciò che concerne la Phantasie non si dà per Sartre alcuna hyletica possibile, almeno da un punto di vista strettamente fenomenologico, mentre la descrizione del residuo sensibile nel caso della coscienza d’immagine [Bildbewusstsein] è sempre possibile [4]. Nella misura in cui essa decide dei limiti della fenomenologia come dello statuto della fenomenologia genetica, la questione di una possibilità di una hyletica meriterebbe a colpo sicuro di essere approfondita a dispetto della rarità delle considerazioni metodologiche sartriane. Forse essa ci condurrebbe a interrogarci su alcuni aspetti e sul valore dell’hyletica husserliana.
L’ipotesi è molto nota: l’immagine mentale possiede nello stesso modo la sua materia o hylè o supporto che, in egual maniera dei tratti neri sul foglio di un’incisione, sarebbe un analogon più meno rassomigliante; in altri termini tale materia sarebbe un contenuto immanente che presenta qualche analogia con l’oggetto preso di mira in immagine. Se io non voglio presentarmi il volto di una persona che non conosco, io posso sia produrne un’immagine, sia guardare una sua fotografia, o ancora la sua caricatura. In questi tre casi la materia è differente ma, anche se dalle variazioni della della materia derivano delle differenze che si estendono fino alla struttura dell’immagine, «in origine noi abbiamo a che fare con delle intenzioni della stessa classe» [5]. La coscienza è ogni volta coscienza imageante di un oggetto preso di mira a partire da una materia, da un analogon. Che questo sia una caricatura, una pièce di teatro o la VII Sinfonia di Beethoven, ma anche un sogno, un’allucinazione, in ogni caso un irreale è preso di mira e posto a partire da un analogon e dipende dall’immaginario [6].

Ma qual è, nel caso dell’immagine mentale, l’equivalente della cosa /incisione/, ovvero il foglio di carta con i suoi tratti neri che noi apprendiamo per costituire l’apparizione del cavaliere, della morte e del diavolo? Sartre si dimostra capace di raccogliere la sfida di Fink allorché afferma:
il nostro progetto conduce a sottolineare una cosa essenziale. Le determinazioni del mondo d’immagine dipendono essenzialmente dalle determinazioni reali del supporto. Se si apprendono le presentificazioni [Vergegenwärtigungs] come una coscienza d’immagine [Bildbewusstsein] bisogna cominciare a dimostrare che noi non abbiamo soltanto un supporto impressionale, ma anche che i dati presentificati si riflettono nei dati hyletici impressionali [7].
Qual è la natura di ciò grazie a cui qualcosa di non presente può arrivare alla presenza-assenza dell’immaginario? Noi esamineremo successivamente le risposte de L’imagination e poi de L’imaginaire e, in conclusione, de L’Être et le Néant.
L’ultimo paragrafo de L’imagination indica i requisiti che dovrà soddisfare una fenomenologia dell’immagine, l’ultimo dei quali si presenta così: «infine e soprattutto bisognerà studiare la hylè propria dell’immagine mentale» [8]
Evidentemente tale studio è già ben avviato ne L’imagination il cui quarto e ultimo capitolo è in fondo totalmente dedicato alla questione della materia della Phantasie in Husserl. Sartre, in effetti, a partire dalla critica delle tesi husserliane, vi schizza una risposta apparentemente contraddittoria e, anticipando nettamente i suoi lavori futuri, afferma: la materia dell’immagine mentale deve essere «una spontaneità, ma una spontaneità di tipo inferiore» [9].

Contro lo psicologismo, per il quale il mondo è una nostra rappresentazione, contro l’immanentismo di cui l’idealismo di Berkeley è una variante, contro la famosa filosofia denunciata nell’articolo del 1939, filosofia alimentare e digestiva che dissolve le cose nella coscienza [10], L’imagination rifiuta già di assimilare l’albero che io percepisco con un contenuto di coscienza. Acquisizione fondamentale dell’intenzionalità, l’albero è per principio al di fuori della coscienza: esso è trascendente [11]. Tuttavia, si affretta Sartre ad aggiungere, ciò non significa che non vi siano «contenuti di coscienza» come potrebbe pensarlo un realismo ingenuo. Sartre rimanda al §41 di Idee I — intitolato La composizione reale [reelle] della percezione e del suo oggetto trascendente — e riprende la distinzione husserliana tra il rosso, qualità trascendente, e l’impressione soggettiva che, senza dubbio, è analoga al rosso della cosa ed è solo un «quasi-rosso» [12].
Applicata alla Phantasie tale tesi significa nello stesso modo che da un lato l’immagine non si riduce a un vissuto psichico, essa non è nella coscienza, e, dall’altro, che non vi è immagine senza un contenuto psichico «Husserl, come in una percezione, distinguerà un’intenzione imageante e una hylè che l’intenzione viene ad animare» [13].

I due errori devono essere evitati: trattenere soltanto la trascendenza di ciò che è immaginato (il centauro, per esempio) e disincarnare l’immagine privandola di ogni realtà psichica al punto da farne un semplice segno sul modello della «psicologia inglese e francese contemporanea» [14], oppure, come fanno l’immanentismo e lo psicologismo, ridurre l’immagine alla sua materia in modo tale che l’immagine del mio amico Pietro non sarebbe che una «vaga fosforescenza, un solco lasciato nella mia coscienza» o un «simulacro [.], Pietro in formato ridotto» [15]. Allora, in opposizione allo psicologismo, che separa radicalmente l’immaginazione e la coscienza d’immagine, L’imagination afferma a partire da Ideen I l’unità della coscienza imageante nella misura in cui l’immaginazione è una certa maniera d’animare intenzionalmente un contenuto hyletico.
Tutto ciò che precede Sartre lo prende in prestito, crede di poterne leggere la traccia vaga, nell’opera di Husserl. La seconda parte del capitolo IV de L’imagination [16] invece è consacrata alla critica della concezione husserliana della materia della coscienza imageante. In un modo generale, Sartre si chiede se Husserl non resti prigioniero della vecchia concezione, almeno per quello che concerne la hylè, dell’immagine che, come presso Descartes e Spinoza, resterebbe in lui come impressione sensibile rinascente. Così «il centauro sarebbe costituito dalla sintesi spontanea di una percezione rinascente di cavallo e da una percezione rinascente di uomo» [17].

Sartre risponde, non senza prudenza, in maniera affermativa invocando due testi. Da una parte le Ricerche Logiche e, più precisamente, la tesi della trasformazione di una coscienza di significato o vuota in una coscienza intuitiva, tramite il suo riempimento sia per via dell’immagine che per via di percezione, preoccupa Sartre:
tale riempimento del significato tramite l’immagine sembra indicare che l’immagine possieda una materia impressionale concreta e che essa stessa sia un pieno, come la percezione [18].
In altri termini, pensare l’immaginazione e la percezione come riempimento, affermare l’uguale pienezza dell’immaginazione e della percezione significa mancare — anche se facendo questo si evita la disincarnazione dell’immagine ridotta a segno — il carattere analogico e soprattutto la povertà della materia dell’immaginazione, nonché vuol dire anche attribuirle una materia impressionale concreta identica a quella della percezione; si ci avvicina allora pericolosamente alla tesi classica dell’impressione sensibile rinascente: la hylè non è ancora identica numericamente ma specificamente. Tuttavia l’immaginazione non può pretendere di riempire nello stesso modo la coscienza vuota di significato. Vedere un’allodola non è immaginarla. Non solo le intenzioni sono differenti, ma anche la materia.
Ugualmente le Lezioni sulla coscienza interna del tempo rappresentano per Sartre un testo di grande ambiguità. In effetti il ricordo è la riproduzione della percezione, per esempio, del teatro illuminato, e l’immagine-ricordo una coscienza percettiva modificata, ovvero, spiega Sartre, affetta da un coefficiente di passato [19]. Certo, qui non si tratta di immaginazione, tuttavia si comprende facilmente che la questione della materia del ricordo è identica. Come lo stabilisce il §28 delle Lezioni che contrappongono la coscienza d’immagine [Bildbewusstsein] alle riproduzioni, queste ultime o presentificazioni appartengono ad uno stesso genere e «si suddividono a seconda che esse siano tetiche o non tetiche (pure Phantasien)». Come dire che noi troviamo di nuovo per ciò che concerne le riproduzioni o presentificazioni e la teoria della modificazione la concezione denunciata dell’impressione sensibile rinascente [20].

Ora, la tesi secondo la quale la hylè percettiva sarebbe in fondo identica alla hylè della Phantasie è per Sartre inammissibile. Esse sono necessariamente del tutto distinte. L’imagination consacra altre quattro pagine alla ricusazione di questa tesi. Ma noi ci accontenteremo di indicarne qui l’argomento essenziale [21]. Nel corso della prima parte di tale capitolo Sartre ha sottolineato la specificità della struttura intenzionale della coscienza imageante in relazione alla percezione; egli scrive a tal proposito «per noi è sufficiente che la materia da sola non possa distinguere l’immagine dalla percezione. Tutto dipende dal modo di animazione di tale materia» [22].
Ormai, al fine di stabilire la necessaria differenza di natura tra la materia della percezione e quella della Phantasie, Sartre mostra, cosa che non è per nulla contraddittoria, che neppure l’intenzionalità da sola basta e che se la hylè della percezione e quella Phantasie fossero le stesse allora non sarebbe possibile distinguere neppure questi due tipi di coscienze. Da una parte, in effetti, ricordiamo che la materia della Phantasie non può divenire la materia di una percezione: essa non offre quell’ambivalenza hyletica caratteristica della coscienza d’immagine — e che illustra in maniera così magnifica il poema di Goethe di cui noi abbiamo ripreso alcune strofe in esergo a tale seconda parte [23]. Dall’altra parte, ammettendo nel caso della Phantasie una tale ambivalenza hyletica, si arriverebbe a un problema insolubile. Dal momento che dei motivi estrinseci suscitano questa o quella attitudine di fronte a un’incisione, un quadro, ecc, quali sarebbero i motivi nel caso della Phantasie che andrebbero a informare la materia in immagine e non una percezione? Sartre risponde: «se le materie sono della stessa natura, non vi può essere alcun motivo valido» [24]. È necessario quindi che le materie siano differenti.

Tale ricusazione per assurdo è convincente? Sartre dà, è vero, l’impressione di voler stabilire, costi quel che costi, una tesi per la quale non dispone di molti argomenti. Alla fine l’intenzionalità non basta a distinguere i due tipi di coscienza e a evitare l’impasse della teoria classica dell’impressione sensibile rinascente che fallisce nel trovare la caratteristiche dell’immagine vera, ovvero della percezione? La difficoltà o l’abilità della ricusazione sartriana risiede, ci sembra, nel fatto che non è la materia dell’immagine mentale, qualunque sia la sua natura, a motivare positivamente l’attitudine imageante. Si potrebbe quindi essere tentati di rispondere a Sartre che la materia dell’immagine mentale, foss’anche differente da quella della coscienza percettiva, non fornirebbe per questo un motivo per non essere informata come percezione. Si mancherebbe l’argomento di Sartre: di fatto, è impossibile percepire a partire dal contenuto psichico della Phantasie; è necessario che per natura la sua materia si opponga a una simile animazione. Di conseguenza, la materia della Phantasie, anche se essa non motiva l’attitudine imageante, fornisce in forza della sua natura stessa un motivo sufficiente per non essere informata come percezione.
Vi sarebbe tuttavia in Husserl, e più precisamente in certi passaggi di Idee I e delle Meditazioni cartesiane, l’abbozzo di una soluzione, a partire in particolare dalla distinzione tra sintesi passiva e sintesi attiva [25]. Allora due vie ci si offrirebbero. Innanzitutto la via classica in base a cui la Phantasie sarebbe una sintesi attiva in una maniera passiva, ovvero delle impressioni sensibili rinascenti. Abbiamo visto come Sartre rifiuti questa soluzione. Ma si aggiunge un altro argomento. In effetti, applicata al ricordo, la distinzione tra sintesi attiva e sintesi passiva conduce — sempre tenendo presente la definizione del ricordo nelle Lezioni sul tempo come presentificazione o riproduzione della percezione — a considerare che il ricordo dipende, come la percezione, dalle sintesi passive. Allora si deve ammettere tra il ricordo e la Phantasie una «separazione radicale» che è quella tra la passività e l’attività. Ma ciò non è assurdo, tenuta presente la prossimità dell’immagine-ricordo in relazione all’immagine-finzione che manifestano le immagini intermediarie? Bisogna allora piuttosto pensarle in modo solidale come forme sia della sintesi passiva sia della sintesi attiva. La spontaneità della Phantasie prevede che il ricordo stesso sia svincolato dai suoi legami con la passività della percezione.

Bisogna allora inaugurare una nuova via e innanzitutto «bisogna abbandonare la teoria della presentificazione, almeno nella forma in cui Husserl la presenta nelle Lezioni sulla coscienza interna del tempo» [26].
In altri termini, la teoria della presentificazione [Vergegenwärtigung], dal momento che ricollega il ricordo — e, via il ricordo, la Phantasie stessa — alla percezione e alle sintesi passive, non ci permette di cogliere la spontaneità della Phantasie così come quella del ricordo. Inoltre tale via nuova esige, al fine di distinguere la Phantasie dalla percezione, che si riconosca alla Phantasie (e, aggiungeremmo noi, se Sartre non lo dice esplicitamente, al ricordo) una materia radicalmente differente, in modo che essa non sia sintesi attiva di una materia passiva, ma una coscienza che sarebbe da parte a parte spontaneità e la cui materia di conseguenza sarebbe essa stessa «una spontaneità di un tipo inferiore». Come conciliare materia e spontaneità? In che cosa consiste precisamente tale materia della Phantasie (e del ricordo), se essa è distinta dalla materia impressionale della percezione? Che cosa dobbiamo intendere con tale idea di inferiorità, di degradazione, di spontaneità inferiore o degradata? Cerchiamo di rispondere a tali quesiti volgendoci verso L’imaginaire.
La seconda parte de L’imaginaire è consacrata interamente a lumeggiare «la natura dell’analogon dell’immagine mentale». Sartre prosegue ormai il suo studio appoggiandosi sulle tesi della psicologia sperimentale. Per una necessità d’essenza noi sappiamo che nell’immagine deve esserci un contenuto psichico. Rimane da scoprire tale dato, così da fornire un contenuto alla nozione di analogon. Elementi differenti partecipano alla sua costituzione e in particolare l’affettività e il movimento — lasciamo da parte in questo studio il ruolo del linguaggio. Esaminiamo quindi la maniera in cui si combinano e quali sono i loro ruoli nel seno della coscienza imageante.

Per comprendere la concezione sartriana della Phantasie bisogna ricordare preliminarmente che immaginare suppone un certo sapere concernente ciò che si immagina, come noi l’abbiamo visto a proposito del fenomeno di quasi-osservazione. Ma il sapere di una coscienza imageante non è il sapere del significato e il sapere non è un puro meaning [27].
In effetti, il sapere della coscienza d’immagine subisce — o meglio, si dà, come Sartre precisa in nota, così che per noi la spontaneità della coscienza è salvaguardata [28] — una degradazione. Per esempio il chiodo non è un piccolo stelo di metallo che serve a fissare, assemblare, sospendere come me lo insegna il dizionario, ma si dà come qualcosa di lungo e appuntito; più precisamente, il sapere imageant è come un’attesa del dato visivo e lo si incontra nella lettura di un romanzo ove è sufficiente un momento di distrazione perché il sapere divenga immagine, proprio quella suggerita dal romanziere. Ma per comprendere questa degradazione, che è in un certo senso un’incarnazione, bisogna ormai introdurre il primo elemento costitutivo della materia della Phantasie: l’affettività. In effetti, che cos’è l’immagine? «Una sintesi dell’affettività e del sapere [.], una coscienza cognitiva-affettiva».
Il sapere imageant forma quindi una sintesi che Sartre denomina cognitivo-affettiva [29]. Di che cosa si tratta? Per comprendere tale punto bisogna partire dall’intenzione che, in origine, cioè «quando essa sorge dalla nostra spontaneità» [30], è un certo sapere; più precisamente, bisogna partire dal sapere imageant, da quel sapere «che cerca di trascendersi [...], ponendo il suo contenuto come esistente attraverso uno spessore di reale che gli serve da rappresentante» [31]. Secondo Sartre lo spessore di reale, questa materia, è innanzitutto una analogon affettivo, intendendo con tale termine la tonalità, il senso affettivo o ancora la struttura affettiva dell’oggetto intenzionato. Rimandando il lettore al suo Esquisse d’une théorie des émotions, Sartre ricorda che l’amore, l’odio non sono degli stati affettivi, ancora meno delle passioni dell’anima, ma piuttosto delle azioni dell’anima o, in linguaggio fenomenologico, delle intenzionalità speciali che puntano alla loro maniera ad un oggetto: «il sentimento di odio non è una coscienza di odio. È una coscienza di Paolo come odiabile». Se Sartre rifiuta di cogliere il sentimento, l’affettività, rescissi dal loro oggetto, dal loro significato, ciò non significa che il sentimento, la coscienza affettiva, non possa prodursi indipendentemente dall’oggetto che essi prendono di mira, e noi sappiamo che in assenza di una persona il sentimento può riapparire. Allora il sentimento può esso stesso presentarsi come equivalente, sostituto affettivo dell’oggetto preso di mira.

Così, quando noi “produciamo” una coscienza affettiva in assenza dell’oggetto a cui essa mira, la tonalità presente può essere riempita dal sapere imageant e, facendo ciò, essa diviene l’equivalente affettivo dell’oggetto che io posso allora prendere di mira in immagine. In altri termini, la sintesi affettivo-cognitiva è quindi un riempimento [Erfüllung] — o sintesi di riempimento — grazie al quale un sapere imageant vuoto, o aurora di immagine, giunge a darsi un oggetto in immagine, a partire quindi da un rappresentante affettivo. Riprendiamo, pur semplificandolo, l’esempio di Sartre: io amo le lunghe mani bianche e sottili di una certa persona, io le desidero. Il mio desiderio, nella loro assenza, si sposta sul loro sostituto affettivo a partire dal quale il desiderio mira alle mani della persona amata e allora io le immagino. Questa è la struttura profonda della coscienza d’immagine. Tuttavia Sartre invoca un altro elemento al fine di rendere conto della materia della Phantasie: i movimenti o impressioni cinestetiche.
Per comprendere, al suo principio, il ruolo delle impressioni cinestetiche è sufficiente riprendere l’esempio dell’altalena [32]. Sartre ci racconta che, mentre era intento a cercare di rappresentarsi un’altalena animata da un movimento abbastanza vivo, egli ebbe l’impressione di spostare lievemente i suoi globi oculari e che, tenendo gli occhi immobili, non riuscì più a immaginare il movimento dell’altalena. In altri termini e in maniera più generale, le impressioni cinestetiche valgono come sostituto analogico di una forma visuale [33]. In tal caso, il sapere imageant non ha più per correlato un sostituto affettivo ma un analogon cinestetico; o, piuttosto, l’immagine completa comprende un analogon affettivo che rende presente [gegenewärtigen] l’oggetto e un analogon cinestetico che lo esteriorizza, il quale permette di apprendere la forma spaziale dell’oggetto, indica i suoi movimenti, ecc. e gli conferisce una sorta di visualità, ovvero di intuitività visuale [34].

Nella misura in cui la famiglia dell’immagine ingloba delle coscienze come il sogno o l’allucinazione, la teoria sartriana della hylè punta a rendere conto ugualmente di questi tipi di coscienza imageante. Così il sogno si compie grazie alla stessa materia della coscienza ipnagogica, coscienza le cui immagini si formano in uno stato di quasi-sonno o sonnolenza e che è, secondo Sartre, una coscienza che non riesce a sprofondarsi nel suo sogno come se questo non riuscisse a rapprendersi. Facendo leva su diversi lavori di psicologia sperimentale, Sartre si interessa in particolare ai lucori endo-optici o fosfeni, vale a dire a quelle sensazioni luminose situate nel globo oculare che non risultano dalla luce. Certo, non vi è affatto rassomiglianza tra, per esempio, i lucori endo-optici e la figura a denti di sega che apprende la coscienza ipnagogica, mentre nella coscienza di ritratto la coscienza è sollecitata da una forte rassomiglianza. Ma a tale obiezione si può rispondere soltanto dicendo che, man mano che la coscienza imageante si allontana di più dalla materia della percezione, la materia intuitiva presenta non più un rapporto di rassomiglianza ma dei rapporti di equivalenza [35]. Così, il movimento di una macchia luminosa è colto come equivalente di una forma, per esempio di una figura a denti di sega. Nello stesso tempo, il sapere di ciò che è immaginato, il quale avvolge la coscienza imageante, gioca un ruolo tanto più importante quanto più la materia intuitiva è povera. Questo è il caso, allo stato vigile, relativo all’apprensione di una caricatura in cui il mio sapere completa gli sparuti tratti disegnati; nella coscienza ipnagogica, nel sogno, il sapere si sostituisce all’intuizione di una materia rassomigliante e una materia che presenti dei rapporti di equivalenza può essere sufficiente. Inoltre nella coscienza ipnagogica o onirica le impressioni cinestetiche hanno ugualmente un ruolo legato al loro carattere nello stesso tempo trascendente e esteriore: le cinestesi esteriorizzano l’oggetto onirico [36]. Così, in quanto coscienza imageante, la coscienza può cogliere una successione di impressioni cinestetiche, per esempio lo spostamento dei globi oculari durante il sonno, come analogon di una traiettoria che un corpo mobile descrive o ancora in relazione alla figura di un oggetto dato [37].
L’eidetica dell’immagine esige che l’immagine mentale possieda qualcosa come una materia analoga al supporto dell’immagine materiale, e ci è sembrato che tale materia non potesse essere, in un modo o nell’altro, identica a quella della percezione. Per questo, abbandonando il campo della psicologia fenomenologica, noi ci siamo sforzati di dare un contenuto specifico a questa materia che L’imaginaire costituisce, in una maniera essenziale, a partire dall’affettività e dalle impressioni cinestetiche. In più abbiamo sottolineato, leggendo L’imaginaire, che tale materia o hylè deve essere una spontaneità, se si vuole davvero distinguere tra percezione e immagine. Possiamo infine aggiungere un terzo requisito, enunciato ne L’Être et le Néant e che si confonde con il precedente: vietarsi ogni concezione della materia che, come la hylè husserliana, distruggerebbe la spontaneità del per-sé. L’Être et le Néant dichiara:
dando alla hylè i caratteri della cosa e i caratteri della coscienza, Husserl ha creduto di facilitare il passaggio dall’una all’altra, ma è riuscito a creare soltanto un essere ibrido che la coscienza rifiuta e che non potrebbe fare parte del mondo [38].
Dobbiamo allora concepire la coscienza imageante indipendentemente da ogni materia, se è vero che la materia è per definizione passiva e dell’ordine del per-sé? Sartre rinnegherebbe nel 1943 ciò che egli scriveva alcuni anni prima?

Vorremmo schizzare qui l’idea, che meriterebbe senza dubbio un’esposizione molto più approfondita, che la materia dell’immagine mentale, come l’espone L’imaginaire, soddisfi non solo la prima, come abbiamo visto, ma anche la seconda e la terza di queste condizioni. Che si tratti dell’affettività o delle impressioni cinestetiche, noi non possiamo attribuire ad alcuno di questi elementi, considerati separatamente e astrattamente o sinteticamente e concretamente, una qualsiasi passività ed essi non hanno neppure l’opacità dell’in sé o della cosa. Per ammettere tale tesi è necessario ricordare, come lo ha stabilito Sartre nell’Esquisse per l’affettività, che non ci sono stati affettivi, ovvero dei «contenuti inerti che sarebbero trascinati dal fiume della coscienza» e che producono una coscienza affettiva [39]. Nello stesso modo, le impressioni cinestetiche non devono essere considerate come l’effetto, per esempio, dei movimenti dei globi oculari che, non si sa perché, si agiterebbero durante il sonno, ma bisogna comprendere tali impressioni cinestetiche dal punto di vista della critica della nozione di sensazione e della concezione del corpo soggiacente all’Esquisse e esposta ne L’Être et le Néant [40].
È necessario quindi ricollocare le cinestesi nel seno della prima dimensione del corpo, o corpo per sé, ed allora diventa possibile considerare che a differenza della pseudo-sensazione del quasi-verde che io non afferro mai e che è un’invenzione psicologica, le impressioni cinestetiche, lungi dall’essere in se stesse inafferrabili dalla riflessione dipendono — come, in una certa maniera, il dolore — dall’affettività originaria. Di contro, in quanto movimenti fisici, le cinestesi fanno capo alla seconda dimensione del corpo proprio, o corpo per altri. Ponendoci dal punto di vista del corpo per-sé si può ammettere per induzione che, probabilmente, le cinestesi accompagnano la coscienza imageante e che esse l’accompagnano spontaneamente: come nell’emozione la coscienza svanisce spontaneamente — cosa che, evidentemente, non significa volontariamente — nello stesso modo la coscienza imageante può modificare spontaneamente il suo corpo, in quanto corpo per-sé, ciò che si manifesta, dal punto di vista del corpo-altri, in relazione a dei fenomeni fisici osservabili da parte di altri, come lo spostamento dei globi oculari nell’esempio dell’altalena. Le impressioni cinestetiche partecipano quindi della spontaneità della coscienza e la materia d’immagine è esattamente, come lo richiedeva già nel 1936 L’imagination, spontaneità [41]. Essa non è neppure, se è vero che le cinestesi appartengono al corpo per-sé, quel misto impossibile di per-sé e di per-sé che denuncia Sartre ne L’Être et le Néant [42].

Bildbewusstsein e Phantasie. Prese in tutta la loro diversità queste due specie di coscienza imageante formano proprio una sola e stessa famiglia: la famiglia dell’immagine. Noi abbiamo visto che le determinazioni eidetiche dell’immagine detta mentale s’applicano nello stesso modo alla coscienza di immagine; in un caso come nell’altro, l’immagine non è una cosa, ma una coscienza imageante che pone il suo oggetto come niente; altrimenti detto, essa è un’intenzione imageante il cui correlato è un irreale, e l’immagine, in ragione della sua spontaneità e della sua povertà, non ha per conseguenza né la passività né la ricchezza della percezione. Inoltre noi abbiamo creduto poter evidenziare per la Phantasie una materia specifica, distinta dagli Empfindungsdata della hylè husserliana, e estranea a ogni passività dal momento che essa partecipa della spontaneità della coscienza. Certo, tale materia non ha la trascendenza della cosa-immagine [Bildding] che si riscontra in ogni coscienza d’immagine; ciò che unifica quindi la coscienza d’immagine, non deve, trascinato nel suo slancio, tralasciare le differenze che risultano ogni volta dalla natura dell’analogon: la coscienza d’immagine, come abbiamo visto, non ha lo stesso tipo di spontaneità, nel senso psico-fenomenologico, e in certi casi, lo stesso grado di povertà della Phantasie. È proprio per questo che, secondo Sartre, le immagini non sono di una stessa e medesima specie, ma appartengono a una famiglia comprendente differenti membri o tipi di d’immagine.


CONCLUSIONI

Poiché è difficile enucleare una dottrina husserliana centrata sull’immaginazione — nonché centrata sulla questione, più limitata e al centro di questo studio, dell’unità dell’immaginazione [43] — non possiamo soffermarci qui sul modo in base al quale situare le tesi di Fink, come la teoria sartriana della coscienza imageante in relazione ai lavori di Husserl. Una tale impresa esigerebbe in primo luogo di seguire passo dopo passo le instancabili ricerche di Husserl e i molteplici rimaneggiamenti teorici che esse comportano, cosa che oltrepasserebbe di gran lunga il quadro di questo studio.
Si può tuttavia tentare di prendere la misura di certi scarti richiamandosi ad alcuni testi determinati e soprattutto cercare di intravedere le scelte teoriche fondamentali che condussero Fink e Sartre a proporci due descrizioni psico-fenomenologiche dell’immaginazione così diverse l’una dall’altra. In tale prospettiva noi esamineremo in un primo tempo in quale maniera Fink approfondisce e sistematizza i lavori di Husserl pur separandosene su qualche punto; poi, in un secondo tempo, vedremo come Sartre d’improvviso si allontana dalla prospettiva husserliana per sviluppare una concezione originale della coscienza imageante. Ciò infine dovrebbe permetterci di comprendere ciò che separa in maniera fondamentale le fenomenologie finkiane e husserliane da una parte e dall’altra parte quella sartriana della coscienza imageante.
La concezione finkiana della Phantasie ci sembra riprendere essenzialmente ciò che Husserl aveva già elaborato. In effetti, per Husserl e Fink la Phantasie è un tipo di presentificazione e Fink può recuperare, con qualche precisazione, la definizione della Phantasie di Idee I come modificazione di neutralità della presentificazione posizionale, quindi come ricordo nel senso più largo [44]. Se il concetto di de-presentazione, che si incontra in Husserl, ma la cui elaborazione sembra opera di Fink, distingue la teoria di quest’ultimo, di contro la paternità della stretta relazione tra la temporalità, il possibile e la Phantasie è legato a Husserl.

In Idee I Husserl distingue per ogni ora un orizzonte di anteriorità, un orizzonte di posteriorità e un orizzonte di originarietà [Originaritätshorizont], «il suo ora-di-coscienza totale e originario [sein gesamtes originäres Bewusstssein-jetzt] [45]», e in Erste Philosophie nel corso della quarantanovesima lezione intitolata Gli orizzonti del flusso del presente vivente, Husserl a partire dai concetti di orizzonte esterno e prefigurazione oppone, in maniera forse ancora più netta di Fink stesso, le possibilità immaginarie — dette non-prefiguranti da Fink — e le possibilità che hanno come supporto una coscienza di validità posizionale [46]. Dal momento che questo non permette di distinguere tra un possibile immaginario e un possibile reale, Husserl scrive:
non c’è un cammino tracciato dall’esperienza, non ci sono dei cammini tracciati da un io posso guardare, io posso acquisire delle conoscenze empiriche e decidere, che condurrebbero al dominio delle finzioni [Fiktionen] per così dire assolute, delle finzioni che non sono disegnate nello spazio dell’universo.
All’opposto, esistono dei cammini dell’esperienza in base ai quali verificare se, riprendendo l’esempio di Husserl, degli esseri vivono su Sirio. In un caso noi abbiamo dei possibili immaginati, nell’altro dei possibili reali.
Forse è piuttosto l’opposizione tra la Phantasie e la coscienza d’immagine che separa Fink dal suo maestro e che costituisce l’originalità del suo contributo per una psicologia fenomenologica della coscienza imageante. Dobbiamo procedere tuttavia in modo prudente, dal momento che «la teoria husserliana della coscienza d’immagine ha spesso mutato fisionomia» [47]. Husserl raccoglie dapprima, durante gli anni ’90 del XIX secolo, sotto l’espressione anschauliche Vorstellungen sia la coscienza d’immagine — le rappresentazioni della Phantasie in senso ampio inglobanti la rappresentazione del ricordo e dell’attesa — sia le rappresentazioni della percezione e questo in opposizione alle begrifflichen Vorstellungen [48].

Ma Husserl s’impegna anche a mettere in evidenza le differenze e, in particolare nelle lezioni dell’inverno 1904-1905, sottolinea la specificità della Phantasie in relazione dalla coscienza d’immagine. Alla questione vertente sul sapere se l’apparizione dell’immagine [Bild] si fonda su quella del supporto, cosa che comporterebbe due apprensioni sovrapposte l’una sull’altra e la percezione come condizione della coscienza d’immagine [Bild], Husserl risponde nei corsi del 1904-1905 che i contenuti delle due apparizioni sono identici ma non le loro apprensioni e che secondo i casi è l’una, l’apprensione imageante, o l’altra, l’apprensione percettiva, che domina senza che l’una o l’altra scompaiano puramente o semplicemente [49]. Marbach presenta così, rimandando ai testi n. 16, 18a del 1918 [50], l’evoluzione di Husserl:
la differenza gravida di difficoltà all’epoca delle <>Ricerche Logiche tra la pura Phantasie e la coscienza d’immagine [Bildbewusstsein] normale è finalmente generalizzata terminologicamente come differenza tra la Phantasie riproduttiva (o presentificazione) e Phantasie percettiva, ovvero presentificazione in un’immagine, in una figurazione immaginata [Vergegenwärtigung im Bilde, in bildlicher Darstellung] [51].
In altri termini, mentre la Phantasie è una coscienza puramente riproduttiva, la coscienza d’immagine è una coscienza riproduttiva fondata in maniera percettiva.
Così, all’opposto di Fink e della separazione rigorosa che egli si sforza di stabilire tra presentificazione e presentazione, Phantasie e coscienza d’immagine, la coscienza d’immagine è definita da Husserl come Phantasie percettiva e come presentificazione. Tale scarto deve essere messo in relazione con la distinzione tra neutralità di compimento e neutralità del tenore che permette giustamente a Fink di opporre Phantasie e Bildbewusstsein e di cogliere la coscienza d’immagine come un certo tipo di coscienza percettiva la cui irrealtà specifica risulta da un tipo determinato di modificazione di neutralità: la modificazione del tenore.

Ciò sarebbe allora, nel quadro problematico delle Lezioni sul tempo di Husserl, l’approfondimento della teoria della modificazione e, più precisamente, della modificazione di neutralità che, conducendo a opporre la Phantasie in quanto presentazione, costituirebbe forse l’apporto specifico di Fink. Incontestabilmente Fink si rivela essere fedele al pensiero di Husserl di cui fissa le esitazioni in una sistematica di cui resterebbe da interrogarne l’incompiutezza. Non troviamo certo la stessa fedeltà in Sartre. Innanzitutto, mentre Sartre unifica senza ambiguità sotto il titolo della coscienza imageante la coscienza d’immagine e la Phantasie, Idee I instaura certo, «tra la percezione da un lato e la rappresentazione simbolica per immagine o per segno dall’altra [bildlich-symbolischer oder signitiv-symbolischer Vorstellung], una differenza eidetica non oltrepassabile [unüberbrückbarer Wesen-unterschied]», ma avvicina la Phantasie della percezione e del ricordo, entrambe prive della struttura dell’immagine [52].
Inoltre abbiamo visto che Sartre, il quale vuole distinguere radicalmente la percezione dalla Phantasie, deve allora riconoscere alla Phantasie la sua specifica materia. Sartre in un senso è fedele a Husserl ma, se così si può dire, al primo Husserl che riconosce alla Phantasie un contenuto [Inhalt] specifico che egli nomina Phantasma, complesso di Phantasmen che sono in relazione alla Phantasie ciò che gli Empfindungsdata sono per la percezione, conformemente allo schema generale dell’intenzionalità in seno al quale Husserl distingue: l’atto di apprensione, il contenuto sensibile vissuto e l’oggetto intenzionale [53]. Ma Husserl, come lo segnala J. Sallis, formula dal 1909 delle «serie riserve sullo schema apprensione/contenuto» [54]; e in un manoscritto più tardo che non è contenuto nel volume XXIII dell’Husserliana, Husserl dichiara:
era erroneo considerare la Phantasie come un modo di apprensione particolare il cui contenuto di apprensione [dessen Auffassungsinhalte] sarebbero i Phantasmen. La Phantasie è una modificazione della percezione corrispondente, i contenuti della Phantasie sono delle modificazioni dei dati sensoriali corrispondenti [Modifikate entsprechender Empfindungsdaten] [55].
In altri termini bisogna abbandonare il parallelismo tra la Phantasie e la percezione e comprendere, tramite questa teoria della modificazione [Modifikation], che l’immaginazione trova la sua materia nella modificazione imageante dei dati sensoriali. Come scrive Françoise Dastur:
se è proprio nelle profondità della hylè che bisogna cercare il fenomenologico come tale, ciò implica l’abbandono dell’Inhalts-Auffassungs-Schema, ovvero l’opposizione stretta tra il momento intenzionale e il momento hyletico che fino ad ora aveva governato le analisi di Husserl [56].
A suo modo Sartre rifiuta tale versante del pensiero di Husserl e conserva alla Phantasie una materia specifica in modo tale che essa possa differire dalla coscienza percettiva non solo per la sua intenzionalità, ma anche per la sua materia [57]. E tale differenza trova il suo principio, ci sembra, in un disaccordo più fondamentale concernente le relazioni tra la coscienza imageante, la temporalità, la modificazione riproduttiva e la definizione husserliana della Phantasie come presentificazione. Ricordiamo questa dichiarazione de L’imagination:
è necessario abbandonare la teoria della presentificazione, almeno nelle forme in cui Husserl la presenta nelle sue Lezioni sulla coscienza interna del tempo [58].
Sartre spezza la «stretta connessione tra gli atti intuitivi e la coscienza del tempo», il cui riconoscimento fu, secondo Marbach, decisivo per Husserl a partire dalle lezioni del semestre d’inverno 1904-1905 [59]; facendo ciò, Sartre rifiuta di descrivere la coscienza imageante nei termini della teoria della modificazione. La Phantasie non è una modificazione qualsiasi della percezione, ma essa è in quanto coscienza imageante una funzione radicalmente altra della coscienza.

Commentando la sua evoluzione intellettuale nel 1937 e la stesura in tre mesi delle quattrocento pagine della psychè, Sartre dichiara nei Carnets (p. 226, ed. Gallimard):
e poi poco a poco, senza che io me ne rendessi conto, le difficoltà si accumulavano, un fossato sempre più profondo mi separava da Husserl: la sua filosofia evolveva in fondo verso l’idealismo, cosa che io non potevo ammettere e soprattutto [.] la sua filosofia aveva la sua materia passiva, la sua hylè, che una forma verrebbe a lavorare (categorie kantiane o intenzionalità). Io sognavo di scrivere su questa nozione di passività, così essenziale nella filosofia moderna. Nello stesso tempo, man mano che io mi allontanavo dalla psychè, essa smetteva di soddisfarmi. Innanzitutto a causa del problema della hylè che io avevo eluso.
Saremmo tentati di dire che L’imaginaire si propone, tra altre cose, il compito di colmare questa lacuna in relazione alla coscienza imageante. Ma se la hylè si trova proprio al cuore del contenzioso che oppone Sartre e Husserl, è già più fondamentalmente, via la teoria della modificazione, la questione della temporalità che separa le due fenomenologie della coscienza imageante.
Sebbene egli non ne parli mai e non lo citi, si può pensare che Sartre, durante o dopo il suo soggiorno a Berlino e la sua scoperta della fenomenologia husserliana, abbia letto il testo di Fink prima di scrivere L’imaginaire. Ma questo lavoro non poteva rappresentare un elemento di interesse ai suoi occhi. Non solo perché Fink separa ciò che non è separato in Husserl e che Sartre cerca di raccogliere in un’unica famiglia: le differenti forme della coscienza imageante; ma soprattutto perché Fink, fedele in questo al suo maestro, si sforza di ricollegare, secondo una modalità specifica per ogni tipo di coscienza, la Phantasie e la coscienza d’immagine percettiva. All’opposto, tutto lo sforzo di Sartre consiste nel rompere i legami che potrebbero riconnettere la coscienza imageante alla coscienza percettiva. Inoltre, lungi dal conservare una dipendenza qualsiasi in relazione alla coscienza percettiva e al presente vivente di cui essa sarebbe una modificazione riproduttiva e qualificativa, la coscienza imageante sartriana rinuncia a cogliersi come presentificazione a partire dal presente vivente, dai suoi orizzonti e dal ricordo in senso ampio.
Se è vero che, come lo sottolinea, J. Sallis, «nella storia della metafisica l’immaginazione poteva essere compresa solo come altra rispetto alla presenza, come l’intuizione di una presenza secondaria, parziale e in un certo modo degradata» e che tuttavia «non si può pensare l’immaginazione senza riferimento alla presenza, altrimenti essa sarebbe assurda, impensabile» [60], ci si potrebbe domandare in che misura la concezione sartriana della coscienza imageante si deduca dall’imperativo del presente-vivente, «concetto fondatore della fenomenologia come metafisica» [61].

Una tale interrogazione non dovrebbe tuttavia mascherare a quale punto Sartre, giungendo a distinguere rigorosamente la coscienza imageante, considerata in tutta la sua estensione, dalla coscienza percettiva, sia lontano da un pensiero della differ()nce che contesta la filosofia della presenza in nome non dell’assenza, ma dell’intrico [enchevetrêment] indissolubile della presenza e dell’assenza, dell’essenza e del fatto, della percezione e dell’immaginazione [62].

* Saggio apparso in ALTER, Revue de Phénoménologie, n. 4/1996, "Espace et imagination", pp. 69-122. Per gentile concessione dell’autore. Il saggio di Cabestan è tradotto qui in tre parti. Per la parte priima clicca qui: Cabestan I; per la seconda qui: Cabestan II.

NOTE
[1]. J-P Sartre, L’imaginaire, Gallimard, Paris 1940, pp. 16-17. Da ora in nota sempre abbreviato con /Imgr/ seguito da numero di pagina.
[2]. J-P Sartre, L’imagination, Gallimard, Paris 1936, p. 143. Da ora in nota sempre abbreviato con /Imgt/ seguito da numero di pagina.
[3]. Imgr, p. 90.
[4]. Secondo Husserl l’iletica pura [die reine Hyletik] è una disciplina autonoma qui offre una materia [Stoffe] possibile per delle formazioni [Formungen] intenzionali, cfr. Ideen I, p. 178; essa sta alla noetica come la materia alla forma, scrive Ricour, cfr. trad. francese diIdeen I, p. 287, nota I.
[5]. Ivi, p. 43.
[6]. Ivi, pp. 367 e sgg.
[7]. E. Fink, Vergegenwërtigung und Bild, in Jahrbuch für Philosophie und Phänomenologische Forschung XI, 1930, Max Niemeyer Verlag, p. 92.
[8]. Imgt, p. 159.
[9]. Ivi, p. 158.
[10]. J-P Sartre,
Situations I. Essais critiques
, Gallimard, Paris 1947, pp. 38-39.
[11]. Imgt, p. 144.
[12]. Lévinas, in un articolo intitolato Intetionnalité et sensation, contesta e denuncia l’idea di una «rassomiglianza tra le sensazioni e le qualità oggettive, come se rassomiglianza e analogia non supponessero già un piano oggettivo e costituto». Articolo del 1965 ripreso in En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1988, pp. 149-150.
[13]. Imgt, p. 146.
[14]. Ivi, p. 152, nota I.
[15]. Ivi, p. 148. Cfr. Ideen I, § 112.
[16]. Ivi, pp. 150-159.
[17]. Ivi, p. 157.
[18]. Ivi, p. 151.
[19]. Sartre si appoggia chiaramente su § 27 delle sue lezioni ove Husserl, a partire dall’esempio del teatro illuminato, sottolinea che «il ricordo implica quindi realmente una riproduzione della percezione anteriore». Husserl aggiunge «io mi ricordo del teatro illuminato di ieri. Ciò vuol dire io attuo una riproduzione della percezione del teatro e allora il teatro fluttua dinanzi a me nella rappresentazione come un presente» (Ideen I, § 27).
[20]. Sartre resta diffidente e sottolinea l’ambiguità dei testi di Husserl su questo aspetto. Probabilmente aveva letto il § 19 delle lezioni husserliane sulla differenza tra ritenzione e riproduzione che ammette una differenza d’essenza tra sensazioni e fantasmi.
[21]. Abbiamo forse bisogno, in fenomenologia, di una negazione? Non dimentichiamo che la questione della materia della coscienza imageante non dipende dalla descrizione fenomenologica.
[22]. Imgt, p. 150.
[23]. Ivi, p. 156. Sottolineiamo quanto una simile spiegazione sappia ancora di Husserl. L’Imaginaire sarà ancora più radicale nella distinzione tra la coscienza immaginante e quella percettiva, e solo in quest’ultimo caso si parlerà di un percepire.
[24]. Ivi, p. 156.
[25]. Ivi, pp. 157-158. Cfr inoltre Husserliana I, § 38 e Ideen I, § 23.
[26]. Imgr, p. 158.
[27]. Ivi, p. 129.
[28]. Ivi, p. 121, nota I.
[29]. Ivi, pp. 143-145.
[30]. Ivi, p. 115.
[31]. Ivi, p. 132.
[32]. Sartre pensa forse indirettamente al quadro di Fragonard Les hasards heureux de l’escarpolette?.
[33]. Cfr. Imgr, p. 64 e sgg. per il disegno schematico che trova nel movimento dell’occhio il suo complemento materiale. Inoltre rinviamo a R. Bernet, La vie du sujet, PUF, Paris 1994, p. 275 in cui l’autore rilegge La voix et le phénomène di Derrida.
[34]. Imgr, pp. 162-163 e pp. 174-175 in cui Sartre rifiuta la lezione e le definizioni bergsoniane. Sui rapporti fra cinestesi e spazialità rimandiamo ancora a R. Bernet, Die kinästhetische Motivation der Konstitution von Ding und Raum, in E. Husserl, Darstellung seines Denkens. Trad It. R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, ed it a cura di C. La Rocca, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 158-159.
[35]. Ivi, p. 107.
[36]. Ivi, p. 161.
[37]. Cfr. i lavori di Medard Boss come Es träumte mir vergangene Nacht, Verlag Hans Hubert, Berne 1975. [38]. J-P Sartre, L’Être et le Néant, Gallimard, Paris 1943, p. 26.
[39]. Imgr, p. 137. Ci permettiamo di semplificare tale questione che bisognerebbe approfondire tenendo conto di ciò che Sartre chiama affettività originaria che è al di qua della libertà e che bisogna recuperare a partire dalla coppia trascendenza e fatticità.
[40]. Sartre consacra il secondo capitolo della terza parte de L’Être et le Néant al corpo. Egli distingue tre tappe o dimensioni nella sua costituzione: il corpo come essere per sé, il corpo per altri e la terza dimensione del corpo o il mio corpo oggetto per me. Sartre, nel corso di questo capitolo, sottolinea sovente l’importanza dell’ordine della costituzione del corpo. Mescolare e confondere le dimensioni del corpo, attribuire al corpo per sé ciò che dipende dal corpo per altri, (tipo i movimenti cinestetici nello spazio, mentre solo le sensazioni cinestetiche dipendono dal corpo proprio) significa non comprendere nulla della questione del corpo.
[41]. Cfr. Imgr, p. 153.
[42]. J-P Sartre, L’Être et le Néant, p. 379 nonché Imgr, pp. 118, 120, 134. In una maniera o in un’altra intervengono il sensibile e la corporeità, sia sotto le forme di una intuizione sensibile (imageante) grazie ad un analogon relativo a una materia o ancora, per l’emozione, sotto forma di un oscuramento del punto di vista della coscienza sulle cose che si presenta ugualmente come uno stravolgimento del corpo per altri. E l’emozione, come l’immagine, sono in quanto tali delle coscienze spontanee. Ma come non intendere qui un’’eco dell’assiologia platonica di un tipo inferiore dal momento che si invischia spontaneamente nel sensibile di cui essa resta a volte prigioniera come ne testimonia l’alienazione emozionale?
[43]. Come testimoniano le frequenti oscillazioni terminologiche dei manoscritti di Husserl, cf. Marbach, op. Cit., p. 133.
[44]. Ideen I, § 111.
[45]. Ivi, p. § 82.
[46]. Husserliana VIII. Erste Philosophie (1923-1924), p. 148.
[47]. Marbach, op. cit., p. 140.
[48]. Ivi, p. 131.
[49]. J. Sallis, Espacements. De la raison et de l’imagination dans des textes de Kant, Fichte et Hegel, Vrin Paris, 1997, pp. 78-79. Per Sartre, al contrario, i due tipi di apprensione si escludono e bisogna scegliere: o percepire o immaginare. Husserl conserva la simultaneità delle due apprensioni nella misura in cui sulla presenza reale riposa il carattere come-se dell’immagine. Cfr. Husserliana XXIII, p. 46.
[50]. Cfr, Husserliana XXIII.
[51]. Ivi, p. 134.
[52]. Ideen I, § 43, p. 79.
[53]. Husserliana XXIII, § 10, p. 22.
[54]. J. Sallis, op. cit., pp. 73 e 83, nota I. [55]. J. Sallis, op. cit., p. 84. Cfr. Ideen I, § 112: «il phantasma non è un semplice dato di sensazione scolorito, ma è per essenza la Phantasie del dato di sensazione corrispondente».
[56]. F. Dastur, Husserl et la neutralité de l’art in La part de l’oil, n. 7 1991, p. 22.
[57]. Si può dire allora che v’è in Sartre un resto di empirismo di cui Husserl avrebbe saputo liberarsi? Dastur scrive: «si può in effetti vedere in questa teoria una permanenza di ciò che caratterizza l’attitudine naturale nella sua tendenza reificatrice: il contenuto sensibile, isolato dall’intenzionalità che esso supporta, vi è considerato come cosa in miniatura [Sachelchen]/#187. Ivi, pp. 22-23? Noi non lo crediamo, tanto più se teniamo conto di quella concezione sartriana molto particolare della materia come spontaneità degradata che abbiamo cercato di esporre e che implica che tale materia non è un contenuto sensibile, isolato dalla intenzionalità.
[58]. Imgt, p. 158.
[59]. Marbach, op. cit., p. 134 e Husserliana X, p. 394.
[60]. J. Saillis, op. cit., , p. 134. [61]. J. Derrida, La voix et le phénomène, PUF, Paris 1967.
[62]. R. Bernet, La voix de son maître, in Revue Philosophique, n. 2, PUF Paris 1990, pp. 147-166.

Philippe Cabestan, Professore per le “Classes préparatoires aux Grandes Ecoles” (CPGE) a Janson-de-Sailly, membro degli Archivi Husserl di rue d’Ulm. Le sue ricerche vertono principalmente su questioni di fenomenologia, antropologia e psicanalisi. Tra le sue tante pubblicazioni ricordiamo: Le vocabulaire de Sartre (con A. Tomès, 2001), Qui suis-je? Sartre et la question du sujet (2015), Introduction à la phénoménologie (2017).

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