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Heidegger e i Quaderni neri
A cura di Marco Baldino




Il doppio errore di Heidegger
di Guido Cavalli


30 settembre 2016


1.
Ritorno alla frase che udirono i presenti alla conferenza di Brema del 1949, poi espunta dal testo del 1954 che ne rielabora il materiale, La questione della tecnica:
Il lavoro del contadino non provoca il terreno, bensì affida la semina alle forze della crescita, proteggendola nel suo allignare. Nel frattempo, tuttavia, anche la lavorazione della terra si è convertita nel medesimo ordinare che assegna l’aria all’azoto, il terreno al carbone e al minerale metallifero, il minerale all’uranio, l’uranio all’energia atomica e quest’ultima a una distruzione che può essere ordinata. L’agricoltura è oggi industria alimentare meccanizzata, che nella sua essenza è lo Stesso (das Selbe) della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, lo Stesso del blocco e dell’affamamento di intere nazioni, lo Stesso della fabbricazione di bombe all’idrogeno. [1]
Doppia normalizzazione. Doppia neutralizzazione. Della Shoà all’interno della storia dell’oblio dell’essere, come fenomeno analogo ai meccanismi dell’industria, dell’agricoltura, della civiltà tecnologica, e poi accanto a tanti altri apparati di violenza e di morte del nostro tempo, perfezionati e amplificati dal potere della tecnica, come le politiche colonialiste, la bomba all’idrogeno... Questo passaggio è definitivo nel dimostrare che non esiste alcuna “questione ebraica” all’interno del pensiero heideggeriano. Anzi. Lo sforzo di Heidegger è esattamente l’opposto: ricondurre all’interno di un quadro molto più ampio, quello della storia metafisica dell’oblio dell’essere, qualsiasi fenomeno, compreso quello ebraico e quello della tragica sorte toccata all’ebraismo europeo nel XX secolo. Allo stesso modo andranno poi letti tutti gli altri passaggi, in primis quelli contenuti nei cosiddetti Quaderni Neri.

Forse, dunque, hanno ragione coloro che tacciano d’incomprensione e ignoranza del pensiero di Heidegger chi ne strumentalizza le parole per cercare di evidenziare una sua posizione anti-semita. Chi comprende davvero il suo pensiero sa bene quanto assurdo sia affermare che il suo discorso fosse contra judaeos, che essi ne costituissero l’oggetto e la mira. Bisogna invece contestualizzare quelle parole e ricondurle all’interno di una più ampia e complessa architettura teoretica per arrivare a comprenderne il senso. E hanno ancora ragione quando lamentano il differente trattamento riservato dalla traduttrice italiana dei Quaderni al termine Judentum (tradotto con “ebraismo”), rispetto a Russentum, Slaventum, Americanertum tradotti con “carattere russo, slavo, americano…”, perché per Heidegger non c’è alcuna differenza qualitativa tra questo e quelli — anche se, a dire il vero, nessuna delle altre categorie assume così nettamente nel discorso heideggeriano il carattere del colpevole. Persino il presunto autoannullamento del popolo ebraico non è altro che un ennesimo momento del destino di annichilamento metafisico, e può essere definito “autoannullamento” solo nella misura in cui il popolo ebraico è parte attiva di questa stessa storia. In questo senso gli ebrei sono forse ritenuti da Heidegger esemplari della storia metafisica, ma non sono altro da essa, sono varianti, sottocategorie, non assurgono nemmeno alla dignità di fenomeno in sé, sono semplicemente tra i più efficaci enzimi del processo metafisico.

Ma forse non ci si è interrogati su cosa sia e come operi l’antisemitismo, se si ritiene di dover dimostrare che ad Heidegger non interessasse l’ebraismo, non odiava gli ebrei e si è sempre comportato rispettosamente con tutte le persone ebree che conosceva. Ben prima di giungere al fanatismo, l’antisemitismo poggia le sue basi sulla convinzione di un oscuro operare, di un tramare silenzioso verso fini nocivi e distruttivi dell’equilibrio di una società. L’antisemitismo, da sempre, è una reazione di purificazione rispetto a un male contaminante. Il male in sé non sono gli ebrei, e a maggior ragione non lo sono, se non per i fanatici, singoli ebrei. Il male è il regresso, la decadenza, la crisi economica e sociale. L’ebraismo è l’elemento da contrastare e al limite da espungere per garantire il ritorno a una condizione di salute sociale.

L’attribuzione agli ebrei delle caratteristiche salienti della malaessenza metafisica compiuta da Heidegger nei Quaderni Neri (la capacità manipolatoria, l’abilità calcolante) è una colta e sottile rivisitazione dell’antisemitismo, che da una parte, certo, è facile distinguere dalle tante altre di natura molto più violenta e grossolana, ma che dall’altra ne ripropone in chiave astratta la più atavica e imperitura delle formule: l’identificazione ebrei-perturbatori [2], ovvero portatori e propagatori di un elemento estraneo che disordina la civiltà che li ospita. Gli ebrei erodono da dentro la società, come degli enzimi nocivi sono gli agenti del processo storico di oblio dell’essere, di dominio della malaessenza metafisica attraverso la loro predisposizione alla manipolazione e al calcolo.

Heidegger, dispiace, ma qui, nel riproporre lo stereotipo ebraico del manipolatore, faccendiere, speculatore ripropone fedelmente anche quello dell’antisemita, ovvero colui che è impaurito o indignato, se è un gretto, preoccupato e inquieto, se è un colto, dell’influsso della presenza ebraica all’interno della sua società.


2.
Tuttavia, non è questo il punto. Nella sua generalizzazione del “carattere ebraico” Heidegger dimostra di ricalcare classiche formule antisemite. Dai lebbrosi e contaminatori di Giuseppe Flavio agli usurai e speculatori di Shakespeare, dai cospiratori e traditori di Brafman fino ai manipolatori e calcolatori di Heidegger non c’è soluzione di continuità. Certo, i suoi pregiudizi erano elaborati, e siccome era uomo di pensiero, perfettamente coerenti con il complesso delle sue idee — e ricondurre i suoi pregiudizi alle sue più vaste e profonde idee non ne cambia la sostanza. Ma questo, in un certo senso, è ancora assolutamente secondario. Nessuno di noi è privo di pregiudizi, anche meschini, anche odiosi. E anche Heidegger dimostra di non essere immune dai pesantissimi condizionamenti operanti nella Germania della prima metà del XX secolo. Ma qui non si tratta di giudicare — e chi potrebbe? — l’uomo Heidegger, le contraddizioni e gli errori della sua coscienza. Qui interessa capire cosa Heidegger pensò attraverso i suoi pregiudizi.

Ritorno ancora a Brema, dove Heidegger afferma che non c’è differenza tra la ratio tecnologica che considera qualsiasi ente — persino l’uomo — alla luce della sua disponibilità, e il lager dove l’uomo non è niente altro che materia disponibile per il processo di morte. Ecco il punto. Quello che dice Heidegger non è vero. Il lager conosce perfettamente la differenza tra uomo e cosa, la conosce così bene che la vuole annullare. E ignorare da parte di Heidegger la consapevolezza di questa differenza e la volontà di annullarla è una precisa scelta. È la scelta di porre quella volontà sul piano delle meccaniche dell’essere, ovvero è la scelta di annullarla un’altra volta, sul piano teoretico.

L’intenzione di Heidegger è sempre ricostruire come i fenomeni adempiano — inconsapevolmente — il destino dell’oblio dell’essere, alla luce del quale la distinzione tra uno e l’altro è secondaria. Cosa non è stato, cosa non si è deciso è sempre più rilevante di ciò che è stato, ciò che è deciso, e alla luce di questo, nazionalsocialismo, democrazia e comunismo appaiono come lati di una figura equilatera della comune derivazione dall’epoca dell’oblio della tecnica. E tutto ciò che è stato — e in ultima istanza: la Shoà — alla fine è irrilevante. Non decisivo. [3] Dunque, arrivassimo alla certezza che Heidegger rimase assolutamente — moralmente — estraneo a tutto ciò che di barbaro è stato — nonostante quello che pubblicamente disse — nondimeno rimane il problema: egli non fu filosoficamente capace di pensare il nazionalsocialismo nella sua unicità storica, lo assimilò alle altre forme storiche dell’epoca della tecnica, senza individuare ciò che specificatamente nel nazionalsocialismo si è fatto, per l’uomo occidentale, scelta irricevibile, e ciò che là è accaduto di mostruoso, di diverso.

Ma non basta. Heidegger annulla quella specificità, ribadisco, due volte. La prima con l’assimilazione tra lager e qualsiasi processo di pianificazione tecnica, e la seconda tra Shoà e altre tragedie e violenze perpetrate su vasta scala. Anche qui Heidegger sceglie di cancellare una cruciale differenza. Non è vero che la finalità intrinseca dei lager fosse la produzione di cadaveri. La loro finalità era la produzione di cadaveri ebrei. Chi non voglia confrontarsi con il fatto che l’odio verso il popolo ebraico costituisse l’essenza ideologica del nazionalsocialismo, può a questo punto citare la presenza nei campi di prigionieri politici, omosessuali, e tanti altri. Oppure iniziare a disquisire sul perché si debba considerare la Shoà diversa da tante altre immani tragedie della storia umana. Si tratta di diversivi tattici.

Heidegger sa perfettamente che vittima eletta della macchina dello sterminio non è un generico uomo, ma l’ebreo — ovvero l’uomo biblico. L’assimilazione compiuta da Heidegger tra un qualsiasi processo di pianificazione tecnica, una qualsiasi violenza su vasta scala e il lager, assimilazione attraverso cui vorrebbe ricondurre persino questo evento all’interno del suo disegno teoretico, è un atto estremo di cancellazione dell’evento Shoà all’interno della storia occidentale, e per quanto riguarda ancora più specificamente il pensiero heideggeriano, è il sigillo del suo tentativo di cancellazione dell’uomo biblico dalla storia dell’essere.

Questo tentativo di ripensare l’essere senza il Dio — e senza l’uomo — biblico, è una delle cifre fondamentali del pensiero di Heidegger, quella che, dal Nietzsche in poi, informa tutto il pensiero del tramonto dell’essere e dell’altro inizio. Nonostante il suo pensiero non abbia un carattere sistematico, tuttavia possiede un centro gravitazionale totalizzante, la questione dell’essere, rispetto alla quale l’evento della Shoà e ancor di più tutta la storia dell’alleanza tra il Dio biblico e il suo popolo sono apparentemente eccentrici, anzi interferenti.

Per questo Heidegger si rifiuta di considerare l’uomo biblico come vittima specifica del nazionalsocialismo, anzi vuole ripensare il tentativo di sterminio del popolo dell’alleanza come sovrastruttura inautentica, semplice variazione dei processi tecnicizzanti del dominio metafisico, e infine cancellare la Shoà nella sua unicità, nel suo profilo unico di evento della storia occidentale.

Il nazismo come volontà si esprime nella volontà di annichilamento dell’alterità, e come totalità ideologica necessita l’odio dell’alterità che resiste. L’antisemitismo, come fenomeno della totalità dell’odio, è il centro e il fondamento del nazismo. È solo la centralità dell’antisemitismo nell’ideologia nazista che induce Heidegger ad assegnare agli ebrei una parte. Ciò che dice di loro poco lo interessa e nulla aggiunge al suo pensiero. Ma quando Heidegger invece parla del tramonto occidentale come exitus ineludibile dalla storia e come possibilità dell’altro inizio, qui egli definisce un suo nazionalsocialismo, che diviene qualcosa di non contingente e accidentale, tanto che persino il suo fallimento per mediocrità e barbarie rimane un non abbastanza, un abbassamento rispetto al destino dell’essere.

Ecco perché non bisogna sfuggire questo pregiudizio heideggeriano, e bisogna affrontare il suo nazionalsocialismo, e il suo legame con quello storico, e il legame di quello con l’antisemitismo e infine il legame — cruciale: la Shoà — dell’antisemitismo con la stessa storia d’Israele come radice della storia d’esilio e salvezza che è divenuta anche la nostra storia — perché ora inizia a tratteggiarsi un disegno unico, che mostra qualcosa del tramontare e del passare oltre in cui siamo immersi, qualcosa che è ancora degno di essere pensato e necessario da pensare.

Al di là di tutte le possibili rivisitazioni e pacificazioni della questione Heidegger e il nazismo, rimane il fatto che egli non arriva a pensare l’essenza antisemita del nazismo, anzi vuole cancellarla nella continuità con l’epoca della tecnica, che è la dimensione nella quale per Heidegger anche il nazionalsocialismo appartiene — o avrebbe dovuto appartenere se non fosse stato per i criminali, gli stolti, gli sciocchi che l’hanno incarnato — alla storia dell’essere.

Nel tentativo che pure egli compie di pensare il nazismo, Heidegger rifiuta di vedere che il nazismo sceglie l’ebraismo come ciò che resiste alla volontà di totalità, che resiste come alterità. Heidegger si rifiuta di inserire questo elemento nel suo pensiero, perché in fondo questo — la irriducibilità dell’uomo biblico alla storia dell’essere — è l’elemento che lo accomuna al nazionalsocialismo. Questa comunanza, che nella sua forma storica agisce nel pensiero heideggeriano senza essergli disponibile (uno stereotipo), rimane nel suo pensiero come una responsabilità mancata, una macabra risonanza.

Il lager non è lo sguardo indifferente del velamento dell’essere che tutto entifica, ma la mano del carnefice che uccide una vittima designata. La differenza tra questo e quello sta in noi, occidentali, come Israele, non perché con Israele sia iniziata una dimensione morale dell’uomo, ma perché con Israele inizia la dimensione morale della storia, inizia quella storia futura in cui la mano del carnefice non annienta la storia, quella dimensione in cui qualcosa riesce a sopravvivere — talvolta a risorgere — e la storia non si chiude sull’uomo, perché qualcosa si salva ogni volta dalla gola del leone, un piccolo resto, e in quel piccolo resto si rinnova ancora, oltre ogni speranza, una promessa di salvezza.

Questa dimensione storica è quella che noi abbiamo iniziato a vivere con Israele e oggi ancora viviamo, l’unica che ancora tiene aperta la nostra storia alla fine dell’Occidente. Ed è la dimensione storica che Heidegger rifiuta, non vuole vedere, eppure pensa continuamente e nomina oscuramente — altro inizio.

Ma Heidegger non vuole pensare l’unicità della Shoà per la storia occidentale perché egli stesso persegue una riscrittura di quella storia che prescinde, anzi vuole cancellare il Dio biblico. Questa precisa intenzione di fare anche del nazismo e della sua essenza antisemita, summa e soluzione di una lunga incubazione storica, e del suo esito concreto in un evento che spezza la storia, la Shoà, qualcosa di superficiale e inessenziale, questo io giudico e contesto.

E la cavillosità dei suoi odierni esegeti non fa che proseguire e aggravare questo tratto, la presunzione o la cecità di poter, davanti a eventi così assoluti e deflagranti, avocare a sé l’orizzonte e il senso delle parole — parole come popolo, destino, terra — che il senso delle parole non sia già dato, irrevocabilmente, in quei fatti, e nella loro abbacinante univocità, indisponibile, ma possa essere addomesticato e ricondotto a mansuetudine all’interno del perimetro astratto di un’innocua e distillata analisi filologica, questo tradisce l’autoreferenzialità di queste analisi, che sembrano considerare il pensiero heideggeriano come le colonne d’Ercole della conoscenza e del reale, oltre il quale non esiste nulla. [4]

Heidegger non vede l’eccezionale mostruosità del regime hitleriano, né l’abissalità della Shoà, e le appiattisce entrambe su un minimo comune denominatore metafisico che rivela la sua intenzione di ripensare l’Occidente come una storia senza Bibbia, una storia senza Israele, una storia senza esilio e senza promessa di salvezza. Ma senza esilio e senza promessa di salvezza, la storia heideggeriana si rivela un mero fraintendimento. [5] Questo, per me, è il suo errore filosofico.

Al contrario, ritengo doveroso non solo non neutralizzare ma affrontare la Shoà nella sua irriducibile tragedia, ma anche, attraverso di essa, la storia del popolo biblico, attraverso e accanto alla nostra storia, come una storia impensata e necessaria da pensare per cercare di comprendere l’esito dell’Occidente.


3.
Un Occidente senza Bibbia, una storia senza Dio. E a questo punto dovrebbe essere chiaro che ciò di cui stiamo parlando non è Heidegger. Si delinea una nostra questione ebraica e una lunga storia di allontanamento, a tratti di emancipazione, a tratti di rimozione della nostra questione ebraica, di cui Heidegger è uno snodo.

Per chi non è ebreo, come non lo sono io, è impossibile pensarne la forma attuale — il legame tra ebraismo e Shoà, che pure deve esistere — ma al tempo stesso appare sempre più necessario cercare di pensarla nel legame tra storia dell’Occidente — che d’après Heidegger è storia della metafisica — e Shoà, che significa cercare di guardare l’esito della nostra storia come si configura nel momento in cui essa ha voluto cancellare la sua radice biblica.

Ed è lo stesso tentativo di Heidegger, nonostante tutto, lo stesso che il suo pensiero configura con forza e profondità profetiche, ed è per questo che continuiamo a interrogarlo. È la configurazione della nostra storia di sradicamento come exitus, come destino d’esilio, anche se egli rifiuta questo destino e lo vuole pensare come tradimento del nostro destino. Ma il legame è qui, in ciò che viviamo e Heidegger nomina come oblio dell’essere — che è la stessa dimenticanza della nostra storia di salvezza — è la condizione di necessità in cui versa l’essere: mancanza del fondamento, della terra di casa: esilio. [6]

Il pensiero heideggeriano della storia come compimento di un inizio è ancora cruciale per riuscire a dire l’impossibilità della revoca della storia e la necessità di un oltrepassamento, verso la possibilità di un altro inizio. Ma quale? La questione dell’essere che egli ha cercato di pensare in tutta la sua opera rimane definitivamente come l’unica via in cui si dia un oltrepassamento capace di ritornare fino all’aprirsi della possibilità di pensare l’inizio accanto a un altro inizio.

Il darsi di un inizio accanto alla possibilità di un altro inizio — è l’essere che cerca Heidegger, un darsi che non si nega come ente ma rimane ancora essere, non negarsi come essere nel darsi dell’ente ma accadere dell’essere che rimane ancora essere. Ma perché Heidegger è così convinto che esista questo luogo, questa possibilità? Da dove gli viene questa certezza, questa memoria di possibilità? Perché questo luogo ci è stato promesso e questa promessa rimane come eco, come memoria, nella parola. Ciò che Heidegger cerca come possibilità di altro inizio, è la possibilità di un’altra parola. Il cammino di Heidegger nel linguaggio, del linguaggio oltre le parole, oltre la parola che dice l’inizio ovvero il logos, verso un’altra parola, da ritrovare oltre la parola dell’inizio, nella differenza tra parola e linguaggio, linguaggio come casa dell’essere ovvero luogo in cui l’essere può dirsi con altre parole, che non sia la parola iniziale, darsi senza negarsi, senza iniziare. La parola che non nega è la parola che non vuole avverarsi ma darsi come speranza, che non dice per avverare, ma che spera.

Iniziamo a cercare questa parola. L’ebraismo dice: nella parola non cerchiamo la verità (dialettica), cerchiamo la speranza. Ovvero non cerchiamo la parola dell’inizio (e della fine) — la parola che cancella quella che la precede, che cerca di essere prima e ultima, di assumere in sé tutte le altre, valere più delle altre — ma una parola che si mette sempre a fianco, una parola accanto dell’altra, a margine dell’altra, come nelle pagine del Talmud. Questa è la forma della parola ebraica, destinata a “riaprire antiche questioni metafisiche”, [7] perché è l’altra parola, l’unica che sa ancora rimanere accanto alla parola che vuole iniziare.


[1] Conferenze di Brema e Friburgo, edizione italiana a cura di F. Volpi, trad. di G. Gurisatti, Adelphi 2002, pp. 49-50.
[2] Jan Assmann, Mosè l’egizio, Adelphi, Milano 2000, p. 52 e segg.
[3] Cfr. E. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah, Medusa Edizioni, Milano 2010, p. 168.
[4] Alludo a contributi anche lodevolmente accurati, come quello di Alfieri e von Herrmann, che da una parte isolano Heidegger in se stesso, come una monade, e al tempo stesso ne parafrasano il pensiero: un cortocircuito pericoloso, perché si crea un ambiente asettico all’interno del quale si imbastisce un esperimento atto a dimostrare una tesi implicita. Tutto ciò che disturberebbe l’esperimento è tralasciato, tutto ciò che è utile è adattato alla bisogna. Ma è con ciò che sta fuori che si verifica davvero un pensiero, e l’importanza dei Quaderni Neri non è in ciò che aggiungono alle opere maggiori, nulla, ma nel modo in cui Heidegger stesso “sporca” le categorie del suo pensiero accostandole agli avvenimenti della sua contemporaneità. È Heidegger, non qualche malevolo commentatore, che utilizza termini fondamentali del suo glossario, quali Dasein, o Unwesen, o Verwustung, per parlare di nazionalsocialismo, di Germania e di ebrei. Com’è possibile ora non risentirne l’eco anche nelle pagine più teoretiche e apparentemente lontane? L’operazione contraria, ripulire il senso di quei passaggi richiamando il significato che questi termini hanno altrove, quando Heidegger magari parla di Aristotele o Meister Eckhart, è così ingenua da imbarazzare.
[5] Un fraintendimento che Heidegger sorveglia sempre da lontano, problematizza, ma che invece erompe nel commento dei suoi più accesi difensori. Ecco allora che il passo: “la memoria del primo inizio nella grecità, la quale è rimasta al di fuori del carattere ebraico, cioè del carattere cristiano”, viene parafrasato così: “Lo Judentum, cioè il Christentum, per Heidegger non sono entrati nella storia dell’essere che si svolge tra il primo inizio (avutosi presso i pensatori greci) e l’altro inizio che dovrà realizzarsi presso i tedeschi” (F.-W. Von Herrmann, F. Alfieri, Martin Heidegger, La verità sui Quaderni Neri, Morcelliana, Brescia 2016, pp289-290). Come se, assurdamente, la storia metafisica potesse essere ridotta a un fraintendimento della storia dell’essere, e il pensiero heideggeriano fosse alla fine dei conti l’utopia di un’altra storia, una storia parallela, che dall’autenticità del primo inizio – depurato da ciò che lo ha incrinato, lo Judentum che opera all’interno della storia metafisica come “principio di distruzione” – giungerebbe fino all’altro inizio, “che dovrà realizzarsi presso i tedeschi”. Si tratta, a mio modo di vedere, di una caricatura del pensiero di Heidegger, che però ne evidenzia bene il piano inclinato.
[6] Quaderni neri. 1931-1938, Bompiani, Milano 2016, p. 324.
[7] E. Lévinas, Difficile libertà, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2004, p. 350.




Sharon Keller, The Jews: A Treasury of Art and Literature, Levin Assoc., NY 1992. p. 20 [Zodiac Pavement]




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