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Heidegger e i Quaderni neri
A cura di Marco Baldino




L’heideggerismo dopo il naufragio
di Marco Baldino

16 marzo 2015


Noialtri “heideggeriani” corriamo un serio rischio: accogliere senza batter ciglio l’originiaria insopprimibilità del circolo (l’essere ogni atteggiamento di pensiero già sempre compromesso con il mondo) e, allo stesso tempo, e in modo surrettizio, suggerire come questa stessa “compromissione”, proprio nel caso Heidegger, sarebbe inessenziale. Solo per lui varrebbe una speciale immunità scientifica, solo per lui i vincoli insuperabili posti dalla sua stessa dottrina non avrebbero valore. Se Heidegger ha mai avuto ragione, bisogna invece dire che l’intera sua opera è una sterminata elaborazione del pre-concetto antisemita [1] — e anche così ha un’importanza decisiva. Nell’ermeneutica hedeggeriana il preconcetto non va eliminato, va cardato, rifilato, intrecciato, intessuto, fino a far trasparire l’essenzialità di un concetto.

Il senso di questa affermazione è il seguente: Heidegger fu antisemita non in ossequio alla dottrina del suo partito, suo occasionalmente e per incompetenza, ma, al contrario, egli aderì alla rivoluzione di quel movimento, proprio in quanto antisemita, non occasionalmente e per niente per incompetenza. Il silenzio di Heidegger sullo sterminio, ammesso che si possa ancora utilizzare questa espressione, non deriva dal desiderio di non lasciarsi più irretire dalla politica, che in generale lo aveva tanto deluso e tanto gli aveva nuociuto, ma dal fatto che se tutto, di quel movimento, andava infine rigettato (a causa del suo commercio con la metafisica universalistico-oggettivante, con il pensiero calcolante o scientifico o, nei termini Anni Trenta, con la «macchinazione»), una cosa gli andava però riconsciuta, il fatto di aver tentato, sia pure sotto lo stigma dell’errore biologista, di eliminare il “male radicale”, ossia il morbo (e l’agente patogeno) dello sradicamento mondialista. [2] E questo non poteva esser detto, non subito, non mentre lui era ancora in vita. Lo dice però qui, nei Quaderni neri, che vengono pubblicati oggi a quarant’anni dalla morte, come se il differimento dell’apparizione di queste note avesse potuto, in un’epoca in cui la colpa dell’ebreo sarebbe risultata chiara, manifestare la sua verità, come se “l’epoca non fosse stata pronta per capirlo”.

Con Heidegger, noialtri “appasionati amanti”, o devoti, come dicono altri, ci consentiamo l’utilizzo di un noto sillogismo sofistico:
1. Heidegger non fu antisemita;
2. se lo fu, lo fu solo in senso metafisco e spirituale;
3. se lo fu in modo vergognoso, allora bisogna distingure tra grandezza del pensiero e miseria dell’uomo.
Bene ha fatto Günter Figal ad abbandonare il vertice della “Martin-Heidegger-Gesellschaft”. Non si può stare dentro questo sillogismo senza perdere in diginità filosofica. Non ci si può accomodare nell’idea di un momentaneo impazzimento, di un improvviso accecamento filosofico. Non so se Peter Trawny pensi questo. Sembrerebbe, il suo, più un atto di momentanea píetas nei confronti del grande maestro — nel quadro di una sconcertante e sconcertata presa d’atto —, che non una excusatio dinanzi alla rivelazione dei rapporti che l’antisemitsmo intrattiene, praticamente da sempre, con i fondamenti stessi della riflessione heideggeriana. [3] Il problema non è quello di un semplice banale risentimento nei confronti degli ebrei, ma della fondazione [Begründen] dell’ebraismo metafisico sulla base del ragionamento secondo cui l’ebraismo mondiale avrebbe quale compito storico-universale, quello di operare lo “sradicamento degli enti nella loro provenienza dall’Essere”. [4]

In ogni caso, il problema è che Heidegger insegna che l’opera è già sempre sporca di mondo, che non si ha mai a disposizione la verginità di uno sguardo ‘originario’, ma sempre solo uno sguardo imbrattato, velato di pre-concetti. Ora, ciò che del mondo imbratta il pensiero di Heidegger è il pre-concetto antisemita. Il problema dell’oblio dell’essere, con cui si apre Essere e tempo, è già subito la trascrizione (ontologica) dell’anatema pronunciato dalla cultura conservatrice della destra tedesca, contraria alla Repubblica di Weimar, negli anni Venti, contro lo sradicamento mondialista, la cui figura concreta è l’ebreo. [5]

Peter Trawny fa risalire alla fine degli anni Trenta l’apertura di Heidegger a “idee antisemite”. Questo perché l’ebreo e l’ebraismo mondiale fanno la loro esplicita comparsa, nelle Überlegungen solo a partire da quel periodo. Tenendo tuttavia conto della disposizione di Heidegger all’auto-interpretazione retro-prescrittiva e dell’effettiva ripresa di molti concetti da lui coniati negli anni Venti entro la piega antisemita, chiara nei Quaderni neri, pare possibile che lo «stereotipo» o pre-concetto antisemita, se non già presente in nuce, abbia assorbito, poi, anche la concettualità anteriore.

L’immagine dell’ebreo che emrge dai Quadrerni neri, non è né occasionale, né ingenua ed è riassunta da Donatella Di Cesare in termini inequivocabli: «Gli ebrei sono [per Hiedegger] gli agenti della modernità; ne hanno diffuso i mali. Hanno deturpato lo “spirito” dell’Occidente, minandolo dall’interno. Complici della metafisica, hanno portato ovunque l’accelerazione della tecnica. Solo la Germania, grazie alla ferrea coesione del suo popolo, avrebbe potuto arginare gli effetti devastanti della tecnica. Ecco perché il conflitto planetario è stato anzitutto la guerra dei tedeschi contro gli ebrei». [6]

Heidegger non ha solo indicato il problema dell’oblio dell’essere, ma anche tentato di mostrare la via di un suo superamento ed ha indicato quelli che, secondo lui, erano i punti fradici del mondo moderno. Là pensiero e azione, uniti, avrebbero dovuto dare battaglia. In una fase successiva, ha detto che il problema non era risolvibile nei termini indicati nella fase seconda e fondati nella prima. La metafisica della prima fase, diventa, nella seconda, la famosa critica del mondo della tecnica (in verità anche molte altre cose: l’etica dei valori, il soggettivismo, la scienza, la volontà di potenza, ma tutte accomunate dalla radice nichilista). Qui e là, nella sua opera essoterica, ha indicato le forme politiche che hanno raccolto e realizzato ciò che avrebbe avuto il suo inizio ideale con Cartesio (Amerikanismus, Bolschewismus). Ora, per quanto emerge con crescente ampiezza dalla pubbicazione dei Quaderni neri («i testi massimamente esoterici del corpus heideggeriano») il fondamento di questa valutazione è indicato con chiarezza nell’ebreo, colui il quale, con il suo atteggiamento sradicato, avrebbe reso possibile quella durezza interessata che porta avanti a sé, nella spiegazione razionale, l’ente, e che poi fa essere questo ente quell’oggetto avulso e indefinitamente manipolabile che tutti noi abbiamo imparato, da lui, ad aborrire. Messa così, la questione dell’ebreo sembra tutt’altro che il frutto di un banale risentimento. Il senso di una tale ragionamento consiste nell’atteggiamento spirituale che indica nella “comunità ebraica” un’intrinseca predisposizione al crimine planetario. Non si tratta di razzismo biologico? Il crimine metafisico è dato proprio dall’assenza di forma, dalla Durcheinandermischens, dalla Weltlosigkeit e, quindi, dall’intrinseca disposizione ad assumere ogni forma, [7] a diffondere l’universalismo astratto del Gegenstand, cioè a trattare ogni ente, compreso se stessi, [8] come un oggetto senza radici, sottratto alla circolazione quaternaria del Geviert, con il che il pensare autentico [proprio di Heidegger, cioè dei tedeschi, cioè degli eredi della grande tradizione del pensiero che ha origine in Grecia, chiamati, perciò, a porsi alla testa del movimento che deve condurre l’Europa fuori dallo Stige nichilistico] è diabolicamente sviato. [9]

Sicché, cercando di opporre la grandezza del pensiero alla [‘miseria’ della] quotidianità media incarnata nel “si dice”, nell’innanzitutto e per lo più del capitolo quninto della sezione prima di Essere e tempo [10] (nel nostro caso l’innanzitutto del preconcetto antisemita e il per lo più del brodo di coltura bündisch, völkisch, nationalrevolutionär…) si commette un ulteriore passo falso, quello di negare il presupposto essenziale del Denkweg heideggeriano: se non è vero che il pensiero è già sempre imbrigliato nelle spire della cultura, ammorbato dal respiro ‘graveolente’ della Popularphilosophie, allora l’intero sviluppo del pensiero di Heidegger non sarebbe che un polveroso affastellamento, espresso in modo astruso e inconseguente, precipitato in un’opera che solo apparentemente può dirsi “filosofica”. Con il che si finirebbe con l’affermare ciò che si voleva escludere: l’inammissibilità di Heidegger. Evidenza vuole che l’importanza di Heidegger rimanga invece salda, ma lagata, d’ora in poi, alla necessità — come sottolinea Donatella Di Cesare — di ripensare la Shoah [11] e, cosa non secondaria — questa è la mia personale aggiunta — la resistenza che l’ebreo vi oppose e vi oppone tuttora.

Vorrei concludere con un accenno non tanto ad Hannah Arendt, quanto al film di Margarethe von Trotta e alla sua Arendt, a causa dell’invito, continuamente reiterato dai devoti arendtiani, affinché, efficace sintesi del pensiero della filosofa, non ce ne si debba perdere la visione. La mia impressione è tuttavia che nel film ci sia più di quello che a prima vista non sembri. Benché il professor Heidegger vi sia rappresentato in modo quasi macchiettistico, gli elementi che introducono a quello scioccante azzeramento della responsabilità che sta alla radice del male — nota tesi arendtiana — è rinvenibile non solo nella mediocrità priva di pensiero di Eichmann, ma anche nella genialità, sempre aleggiante e piena di pensiero, del suo maestro. Il banale e il geniale (nesso che non bisogna lasciarsi sfuggire) nel film si fanno l’occhiolino e certe critiche di parte ebraica sono, per così dire, non propriamente banali. Il tragico messo in scena dalla von Trotta sta allora nel fatto che la Arendt appare stretta in questa contraddizione, a cui sembra non sapersi o non potersi sottrarre: da una parte il burocrate pieno di spirto di servizio, ma privo della sostanza del pensiero e, dall’altra, ‘Mefistofele’, il pensatore geniale che dissimula la propria responsabilità dietro una millantata inesperienza politica.

Se vogliamo, non esiste il “grande pensiero” di un “piccolo uomo”. Se Hannah Arendt ha mai avuto ragione, l’assenza di pensiero, meglio, la soppressione del pensiero, genera il male e questo si alimenta di una tale ‘assenza’, di una tale ‘soppressione’ e, quindi, non potendo esistere un grande uomo senza pensiero, così non può nemmeno esistere un “grande pensiero” come correlato estrinseco di un uomo mediocre — di più, di un uomo ‘miserabile’. Se, come dice Hannah Arendt nella chiusa del film, il proprio dell’uomo non è la conoscenza teoretica, ma la capacità pensante di distingure il bene dal male e, quindi, la responsabilità che si insiedia alla base dell’agire pratico; l’irresposnabilità del silenzio dinanzi al male, ammesso che non si tratti di vera e propria complicità, denuncia la miseria stessa del pensiero (teoretico). In altri termini, il correlato di pensiero di un tale ‘uomo’ non è e non può essere un “grande” pensiero, ma pensiero commisurato alla sua propria ‘miseria’. In questo laccio finisce tuttavia per cadere la stessa Arendt — potrebbe essere la chiave del film — la quale non seppe vedere, di quel pensiero, appunto la ‘miseria’ o, rovesciando il problema, come forse è giusto fare, non seppe coniugare, accanto alla banalità del male (Eichmann), la genialità demonica quale correlato di un “grande” pensiero (Heidegger).

Thomas Mann apre così il suo romanzo sulla catastrofe del popolo tedesco, rovinosamente assurto alla genialità redentrice di un compito epocale:
«la parola “genio” ha certamente un suono, un carattere, nobile, armonico e umanamente sano, seppur trascendente l’ordinario, […]. Eppure non si può negare e non si è mai negato che i dèmoni e l’irrazionale abbiano una parte sconcertante in questa zona radiosa, che tra essa e il regno infero esista sempre un collegamento capace di suscitare un leggero brivido e che appunto perciò mal le si adattano gli epiteti rassicursanti che ho tentato di attribuirle […] anche quando si tratti di una genialità pura e genuina, elargita da Dio, e non di una genialità acquisita e rovinosa, del divampare peccaminoso e morboso di doti naturali, dell’esercizio di un orrendo patto di compravendita…». [12]

[1] «Ecco dunque la novità dei Quaderni neri. L’Ebreo è insediato nel cuore del pensiero di Heidegger, nel centro della questione per eccellenza della filosofia», Donatella Di Cesare, “I «Quaderni neri» e l’etica della lettura”, Scenari, 13 febbraio 2015.

[2] Cfr. M. Heidegger, Schwarze Hefte 1939-1941, GA 96, Hrsg. P. Trawny, Klsotermann, Frankfurt am Main 2014, p. 243 («Die Frage nach der Rolle des Weltjudentums ist keine rassische, sondern die metaphysische Frage nach der Art von Menschentümlichkeit, die schlechthin ungebunden die Entwurzelung alles Seienden aus dem Sein als weltgeschichtliche “Aufgabe” übernehmen kann.»)

[3] Cfr. P. Trawny, “Moralische Schuld ist in Heideggers Philosophie nicht möglich”, Hohe Luft, 18 febbraio 2015.

[4] P. Trawny, “Moralische Schuld ist in Heideggers Philosophie nicht möglich”, cit.: «Der Gedanke ist, das Judentum metaphysisch zu begründen. Und die metaphysische Begründung besteht darin, dass das Weltjudentum die weltgeschichtliche Aufgabe der “Entwurzelung des Seienden aus dem Sein” habe.»

[5] Cfr. P. Trawny, “Heidegger e l’ebraismo mondiale”, in AA.VV., Metafisica e antisemitismo. I Quaderni neri di Heidegger tra filosofia e politica, a cura di A. Fabris, ETS, Pisa 2014.

[6] Donatella Di Cesare, “Heidegger: «Gli ebrei si sono autoannientati»”, Il Corriere della Sera, 8 febbraio 2015; qui con riferimento a Gesamtausgabe 97: Anmerkungen I-V.

[7] Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy, nel sintetizzare la dottrina della razza raccolta nei due testi sinistramente capitali del nazismo, Il mito del XX secolo, di Alfred Rosenberg e Mein Kampf, di Adolf Hitler, così si esprimono: l’ebreo «non è semplicemente una razza malvagia», ma è l’anti-tipo, è «il bastardo per eccellenza […]. L’ebreo non ha la Seelengestalt e dunque non ha [nemmeno] la Rassengestalt»; la sua propria forma è l’informe: «è l’uomo dell’universale astratto, opposto all’uomo dell’identità, singolarizzata e concreta.» (cfr. Ph. Lacoue-Labarthe, J.-L. Nancy, Il mito nazi, a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1992, pp. 45-57, passim).

[8] Da cui il folle giudizio dell’autoannientamento degli ebrei nella Shoah (cfr. Donatella Di Cesare, “Heidegger: «Gli ebrei si sono autoannientati»”, in Il Corriere della Sera, 8 febbraio 2015). L’Ebreo, sintesi reale del mondo in preda alla devastazione tecnica che oblitera l’Essere, per ironica specularità, ad Auschwitz (poiché ad Auschwitz avverrebbe il truce disvelamento del nichilismo nell’apparato amministrativo-burocratico, fatalmente sorretto dal sapere tecnico-scientifico), non simbolicamente, ma effettualmente, si sarebbe auto-annientato.

[9] P. Trawny, “Moralische Schuld ist in Heideggers Philosophie nicht möglich”, cit.: «Nach dem Krieg spricht er [Heidegger] zwar nicht mehr vom Weltjudentum. Aber man denkt doch, dass er an dieser Feindfigur festhält. Und diese Feindfigur hat gesiegt – die Feindfigur der Mächte des Universalismus, zu denen für ihn vor allem das Judentum gehört. Er redet zwar über Gaskammern und Konzentrationslager und einer gewissen Schuld.»

[10] Cfr. Essere e tempo, §38 (ed. Chiodi, UTET, p. 279; ed. Marini, Mondadori, p. 503).

[11] Il problema infatti, non è, «come pretenderebbero alcuni, proscrivere o bandire Heidegger […]. Sarebbe questa forse, per la filosofia, l’occasione per pensare nella sua profondità abissale la Shoah.», Donatella Di Cesare, “Heidegger: «Gli ebrei si sono autoannientati»”, cit..

[12] Th. Mann, Doctor Faustus, trad. it. di E. Pocar, Mondadori, Milano 1995, XI ristampa in Oscar Scrittori del Novecento, pp. 20-21.



Martin Heidegger, Freiburg, 1934
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