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Robert Spaemann e Nietzsche
di Francesca Brencio

22 aprile 2012



Per Francesco

«È terribile morire di sete in mezzo al mare. Dovete voi proprio mettere subito tanto sale
nella vostra verità, sì che essa non estingua più neppure una volta la sete?».
Friedrich W. Nietzsche

Mi è capitato di recente di leggere alcuni passi del testo La diceria immortale (Das unsterbliche Gerücht: Die Frage nach Gott und der Aberglaube der Moderne, Klett-Cotta Verlag, Stuttgart 2007) del teologo tedesco Robert Spaemann, pensatore fecondo e originale sulla scena del sapere filosofico e teologico, attento interlocutore del dialogo che la filosofia intrattiene con la teologia e con le questioni urgenti della contemporaneità. Sono rimasta profondamente colpita dall’interpretazione fornita dal professor Spaemann del pensiero nietzscheano, interpretato come una filosofia volta ad assicurare l’esistenza di Dio nei termini di garante dell’esistenza dell’uomo. Spaemann sostiene proprio questo, cioè che il noto “nemico” di Dio, Nietzsche, sia in realtà colui che ne afferma in modo radicale l’esistenza: non in termini di causa prima, bensì in quelli di garante dello spazio della verità, spazio entro il quale il soggetto può recuperare la propria identità oltre la propria autocoscienza momentanea, quella cioè che gli proviene da una certa attimalità con cui condurre la vita alla luce dell’edonismo e del nichilismo imperanti dopo la “morte di Dio”.

«Contrariamente a quanto si crede Nietzsche è il migliore teorizzatore del legame tra Dio, l’esistenza e la verità», afferma Spaemann in una sua intervista; «Il Superuomo ha accantonato la verità, a esistere sono solamente le interpretazioni del mondo. Ma lo Übermensch è pura fantasia. Gli uomini hanno dimostrato di non volere il superuomo, bensì l’ultimo uomo, quello che crede che la felicità sia divertimento, una vita piena di comodità, in cui si consumano le droghe. Ma io dico che ogni sostituto di Dio abbassa l’uomo. È la definizione di Dio l’essere insostituibile».

Secondo Spaemann, Nietzsche avrebbe infatti mostrato nel modo più radicale l’intimo nesso che collega l’idea di Dio con quella di verità: la negazione di Dio comporta la negazione della verità, comporta che l’uomo si limiti a conoscere i propri stati d’animo soggettivi, senza poter più disporre di alcun criterio per sceverare la verità dall’illusione e senza provare più alcuna spinta all’autotrascendimento. Dio è l’unico garante dell’esistenza dell’uomo poiché è il nesso che gli permette di pensarsi come “futuro anteriore”: «La mia realtà vissuta presente, in altri termini, potrà esser pensata al modo del futuro anteriore solo se garantita dall’esistenza di un Dio trascendente; altrimenti potrebbe aver senso affermare che il mio senso presente di oggi non sia mai stato e scomparirebbe dal cosmo ogni forma di vita cosciente. Dio viene così guadagnato come garante della “realtà della soggettività”, di una realtà che apre quell’“animale abile” che è divenuto oggi l’uomo (illusosi di poter manipolare a piacere tutti i propri affetti e di poter così conquistare la felicità) anche a un rapporto conoscitivo con la realtà a sé esterna, a contemplare qualcosa che non sia la nevrotica successione dei suoi cangianti stati d’animo. In Nietzsche viene a compimento e a compiuta coscienza di sé la “via moderna”, cioè il nominalismo. [...] In questa situazione, perciò, gli argomenti per pensare l’assoluto come Dio possono essere soltanto argomenti “ad hominem”. [...] Con il venir meno del pensiero della verità viene meno anche il pensiero della realtà. Il nostro dire e pensare ciò che è, è strutturato in forma inevitabilmente temporale. Non possiamo pensare qualcosa come reale senza pensarla nel presente, cioè come reale “adesso”. Qualcosa che sia sempre stata soltanto passato, o che sarà soltanto futuro, mai c’è stata e mai ci sarà. Ciò che è adesso, un tempo era futuro e sarà a suo tempo passato. Il “futurum exactum”, il futuro anteriore, è inseparabile dal presente. Dire di un evento del presente che in futuro non sarà più stato, significa dire che in realtà non è neppure ora. In questo senso tutto il reale è eterno. Non potrà esserci un momento in cui non sarà più vero che qualcuno ha provato un dolore o una gioia che prova adesso. E questa realtà passata prescinde assolutamente dal fatto che ce la ricordiamo. Ma qual è lo statuto ontologico di questo diventare passato se tutte le tracce saranno cancellate, se l’universo non ci sarà più? Il passato è sempre il passato di un presente; che ne sarà del passato se non ci sarà più alcun presente? L’inevitabilità del “futurum exactum” implica quindi l’inevitabilità di pensare un “luogo” dove tutto ciò che accade è custodito per sempre. Altrimenti dovremmo accettare l’assurdo pensiero che ciò che ora è, un giorno non sarà più stato; e di conseguenza non è reale neppure adesso: un pensiero che solo il buddismo tende a sostenere. La conseguenza del buddismo è la denegazione della vita. Nietzsche ha riflettuto, come nessun altro prima di lui, sulle conseguenze dell’ateismo, con l’intento di percorrere la strada non della denegazione della vita, ma dell’affermazione della vita. [...] La conseguenza più catastrofica gli sembrò che l’uomo perdesse ciò a cui tende la sua autotrascendenza. Infatti, Nietzsche considerò come il più grande acquisto del cristianesimo l’aver esso insegnato ad amare l’uomo per amore di Dio: “Il sentimento finora più nobile e alto raggiunto fra gli uomini”. Il superuomo e l’idea di un eterno ritorno dovevano fungere da sostituto per l’idea di Dio. Infatti, Nietzsche vedeva chiaramente chi avrebbe determinato altrimenti in futuro il volto della terra: gli “ultimi uomini”, che credono di aver inventato la felicità e si fanno beffe dell’”amore”, della “creazione”, della “nostalgia” e della “stella”. Occupati soltanto a manipolare la propria lussuria, ritengono pazzo ogni dissidente che tenga seriamente a qualcosa, come ad esempio la “verità”. L’eroico nichilismo di Nietzsche si è dimostrato, come egli stesso temeva, impotente di fronte agli “ultimi uomini”. [...] Il banale nichilismo dell’ultimo uomo viene propagato oggi, tra gli altri, da Richard Rorty. L’uomo che, insieme all’idea di Dio, ha accantonato anche la verità, ora conosce soltanto i propri stati soggettivi. Il suo rapporto con la realtà non è rappresentativo, ma solo causale. Vuole concepire se stesso come una bestia astuta. Per una bestia del genere non si dà conoscenza di Dio».

La novità del procedere di Spaemann è evidente e possiede al suo interno una profonda coerenza che indubbiamente trova la sua ragion d’essere proprio nella consequenzialità dei passaggi argomentativi. Lo scopo del libro è voler riportare l’uomo ad un dialogo con Dio, cercando di oltrepassare il residuo nichilista e relativista che tanta parte occupa sulla scena della modernità e porre al centro della riflessione filosofia e teologica insieme la necessità di ancorare l’esistenza del finito all’unica trascendenza in grado di restituirgli senso: Dio, garante dell’esistenza dell’uomo.

Se le intenzioni di Spaemann possono essere condivisibili e iscrivibili all’interno di un orizzonte ermeneutico che fa delle fede la cornice essenziale di ogni ragionare su Dio come verità, fondamento ed essere, tuttavia non posso non essere colpita (a dir poco) da queste argomentazioni intorno a Nietzsche. Mi sembra che i propositi di Spaemann siano quelli di ribaltare – partendo da argomentazioni molto ben costruite – il senso della speculazione del filosofo di Röcken, iniziando proprio dal terreno che Nietzsche stesso ha più volte osservato essere il problema per eccellenza della filosofia, cioè quello della verità.

La questione della verità rappresenta uno snodo fondamentale della sua speculazione e le risposte alla domanda “cosa è la verità?” sono molteplici. Già nello scritto del 1873 Su verità e menzogna in senso extramorale, egli affronta per la prima volta in maniera esplicita la questione della verità e le riflessioni lì contenute condurranno alla sola definizione di verità ammissibile secondo il filosofo, cioè quella per cui la verità si giustifica solo come mezzo di conservazione e di potenziamento dell’uomo.

La sua riflessione è volta alla disintegrazione del concetto di verità oggettiva in base alla dimostrazione dell’impossibilità di ogni comunicabilità tra la realtà e il linguaggio e dell’impossibile assunzione della conoscenza come adeguatio intellectus et rei: «Mi sembra che la corretta percezione – che significherebbe l’espressione adeguata di un oggetto nel soggetto – sia una sciocchezza degna di contraddizione, perché tra le due sfere assolutamente diverse, quali soggetto e oggetto, non c’è alcuna causalità, alcuna esattezza, alcuna espressione, ma al massimo un rapporto estetico, intendo una trasposizione allusiva, una traduzione ridondante, in una lingua del tutto straniera». Il passaggio dalla gnoseologia alla genealogia avviene proprio sul terreno di questa domanda. La verità logica non ha nessun carattere veritativo verso la realtà. La verità è il risultato di un processo di deduzione: «Siamo stati noi a creare “la cosa”, la “cosa identica”, il soggetto, il predicato, l’azione, l’oggetto, la sostanza, la forma, dopo esserci per lunghissimo tempo esercitati a rendere uguali, a rendere grossolane e semplici le cose. Il mondo ci appare logico perché noi prima lo abbiamo logicizzato».

Nietzsche si è sempre scagliato in modo violento contro la verità, in quasi tutte le sue opere, assumendo spesso su di sé il carico della contraddizione di cui Bataille dice essere la verità intrisa. Al di là del bene e del male contiene un interrogativo degno di nota ai fini dell’interpretazione di Spaemann: «“Che cosa” in noi tende propriamente alla «verità»? – In realtà, abbiamo sostato a lungo dinanzi al problema della causa di questo volere - finché abbiamo finito per arrestarci completamente dinanzi a un problema ancor più profondo. Ci siamo posti la questione del “valore” di questa volontà. Posto pure che noi vogliamo la verità:“perché non, piuttosto”, la non verità? E l’incertezza? E perfino l'ignoranza? – Il problema del valore della verità ci si è fatto innanzi - oppure siamo stati noi a farci innanzi a questo problema? Chi di noi è in questo caso Edipo? Chi la Sfinge?». Quello di Nietzsche è il più vigoroso tentativo della modernità di mettere in questione il concetto di verità a vantaggio della non verità come condizione della vita e di scagliarsi contro ogni filosofia dogmatica, e «ciò indubbiamente significa metterci pericolosamente in contrasto con i consueti sentimenti di valore: e una filosofia che osa questo si pone, già soltanto per ciò, al di là del bene e del male».

Le parole di Nietzsche contro i dogmatici sono molto violente: la puntualità dell’argomentazione è accompagnata dal sarcasmo e dall’ironia: «Tutti i filosofi sino a oggi hanno amato le loro verità. Certo, però, non saranno dei dogmatici. Dovrebbe essere incompatibile con il loro orgoglio, e anche con il loro gusto, l’eventualità che la loro verità debba ancora essere una verità per ognuno: ciò che è stato fino a oggi il segreto desiderio e il senso recondito di ogni aspirazione dogmatica. «Il mio giudizio è il “mio” giudizio: difficilmente anche un altro potrà vantare un diritto su di esso» - dirà forse un tale filosofo dell’avvenire. Occorre sbarazzarsi del cattivo gusto di voler andar d’accordo con molti». Tutto è teso a screditare il dogmatismo quale ultimo baluardo della metafisica: «State in guardia, voi filosofi e amici della conoscenza; e guardatevi dal martirio! Dal soffrire «per amore della verità»! E perfino dal difendere voi stessi! Si corrompe, nella vostra coscienza, ogni innocenza e ogni delicata neutralità,diventate caparbi contro le obiezioni e i drappi rossi, vi ristupidite, v’imbestiate, vi trasformate in tori quando nella lotta contro il pericolo, la denigrazione, il sospetto, il rifiuto, finite per recitare giocoforza sulla terra anche la parte dei difensori della verità: come se «la verità» fosse una persona così sprovveduta e balorda da aver bisogno di difensori!».

L’unico filosofo che può rispondere genealogicamente alla domanda sulla verità è il filosofo a venire, colui che non si limita a esigere da sé una disciplina critica: «La filosofia in se stessa è critica e scienza critica e nulla più!». Questo genere di filosofi è chiamato da Nietzsche “i filosofi del pericoloso”, coloro che riescono a staccare la verità dalla grammatica.

Sì, perché la grammatica è il terreno privilegiato su cui si pone la domanda della verità e anche la domanda intorno a Dio. Per Nietzsche, de-logicizzare il linguaggio – che non significa semplicemente fare posto ad un’altra dimensione del linguaggio – significa de-logicizzare il mondo e cioè “raschiare” sotto la superficie della logica per estrarre un’interpretazione ulteriore a quella che il concetto è chiamato a significare. Uno degli aforismi che meglio sintetizza questa posizione è proprio quello che recita che non ci si sbarazzerà di Dio finché non ci si sbarazzerà della grammatica e proprio in nome di questa tanto agognata liberazione, egli si chiede «non potrebbe forse il filosofo innalzarsi al di sopra della fiducia nella grammatica?».

Non posso dirmi completamente una donna di fede, posso invece dirmi una donna che fa della filosofia uno strumento privilegiato, ma non unico, di comprensione della realtà e degli interrogativi in essa contenuti; se rinunciassi a ciò, tradirei il senso che affido alla ricerca filosofica. Mi sento fortemente a disagio nel pensare a Nietzsche come un artefice – se pur inconsapevole – della ricerca dell’esistenza di Dio: a questo pensatore non è mai interessato dimostrare l’esistenza di Dio, quanto fare a meno della sua presenza nell’orizzonte del suo pensiero. Scrive in Ecce homo: «In me l’ateismo non è né una conseguenza, né tanto meno un fatto nuovo: esso esiste in me per istinto. Sono troppo curioso, troppo incredulo, troppo insolente per accontentarmi di una risposta così grossolana. Dio è una risposta grossolana, un’indelicatezza contro noi pensatori: anzi, addirittura, non è altro che un grossolano divieto contro di noi: non dovete pensare! [...] Il concetto di Dio fu trovato come antitesi a quello di vita, in esso fu riunito in una terribile unità tutto ciò che vi era di dannoso, di velenoso, di calunnioso, tutto l’odio mortale contro la vita. Il concetto dell’al di là, del vero mondo fu creato per disprezzare l’unico mondo che ci sia, per non conservare più alla nostra realtà terrena alcuno scopo, alcuna ragione, alcun compito! I concetti di anima, di spirito, e, infine, anche quello di anima immortale, furono inventati per insegnare a disprezzare il corpo, a renderlo malato – cioè santo – per opporre a tutte le cose che meritano di essere trattate con serietà nella vita».

Le riflessioni del teologo Spaemann sono coerenti se si vuole ravvisare nella negazione della verità la stessa negazione di Dio in base ad una proprietà transitiva; eppure mi sembra che proprio perché transitivamente applicabile al binomio Dio-verità, l’interpretazione dell’esistenza dell’uomo così come Nietzsche la intendeva ne esca impoverita e colmata di farraginosità metafisiche che al filosofo tedesco non interessavano. Che sia stato il filosofo di Röcken a proporre – o anche solo ad avanzare – un concetto di felicità nei termini di “divertimento, una vita piena di comodità, in cui si consumano le droghe” mi sembra un po’ eccessivo. Così come sottacere l’interpretazione nietzschena del nichilismo e la reazione ad esso mi sembra parziale nell’economia di un pensiero che voglia dirsi compiuto.

È bene forse ricordare che il nichilismo di cui egli parla, se pur radicale, non solo è un segno dei tempi, sintomo della decadenza della civiltà, ma anche “crepuscolo degli idoli che hanno piedi d’argilla” e che hanno dominato l’occidente, quindi segno dell’aurora che avanza. Il meraviglioso passaggio di Così parlò Zarathustra, “Delle tre metamorfosi” è una sorta di annuncio-attestazione della guarigione dell’uomo dal nichilismo. Il nichilismo è l’evento (Ereignis) della crisi della modernità: è malattia e superamento della medesima. Ne La volontà di potenza scrive: «Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire: l’avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata; perché la necessità stessa è qui all’opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annuncia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più ed ha paura di riflettere».

Non spetta a me né tanto meno a queste misere pagine difendere o riscattare Nietzsche dalle più eterogenee interpretazioni. Credo piuttosto che mi spetti il compito che dovrebbe attendere ad ogni filosofo e studioso di filosofia: “non far crescere il deserto” – per usare le parole di Zarathustra.
Robert Spaemann
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