1.
La disfunzione del progetto occidentale
La filosofia non rende più saggi così come non rende più sapienti, non aiuta l’individuo a prendere decisioni utili per la sua vita né, tanto meno, dà la felicità. Tuttavia, non lascia affatto ogni cosa al suo posto la filosofia non è vacuo esercizio. Si potrebbe dimostrare ciò con un ragionamento indiretto, chiarendo per esempio quanto il potere politico si sia di volta in volta prodigato per appropriarsene o per regimarne i flussi.
Ma il problema è in realtà più complesso e, insieme, più semplice di quanto non appaia, primo perché la filosofia non è una semplice preda del politico, secondo perché il rapporto tra filosofia, politica e, vedremo, storia, è estremamente articolato e solo il gioco di questo
articolato, che assomiglia alle figure variabili di un caleidoscopio, ci fornisce delle indicazioni utili circa la determinazione della fisionomia della nostra forma di vita, la nostra
Kultur, ciò che per abitudine, e da tempo, chiamiamo “Occidente”.
Si può pertanto partire dall’osservazione che la filosofia è un aspetto costitutivo ed essenziale del “progetto occidentale”.
La necessità di definire questa espressione (“progetto occidentale”), impone tuttavia di chiarire anzitutto il senso che la parola “progetto” assume qui. Se per progetto intendiamo lo sguardo gettato in avanti, la prefigurazione di ciò che si farà, il piano strutturato di una edificazione, si potrebbe dare allora la seguente definizione: progetto è il piano che permette di prefigurare
prima tutto ciò che c’è da fare per affrontare
poi una determinata edificazione.
In generale il piano sulla cui base ha trovato sviluppo e si è edificata la nostra forma di vita comprende tre ordini costruttivi: quello dell’organizzazione della convivenza, quello della continuità dell’evenienza e quello della certificazione della credenza. L’Occidente è una edificazione ininterrotta il cui dispiegarsi è dato come articolazione di questi tre ordini di problemi e di soluzioni costruttive. Sul piano della convivenza il progetto occidentale si dispiega come organizzazione statuale; su quello dell’evenienza e della sua impermanenza si dispiega come Storia e su quello della credenza e della sua incertezza si dispiega come Filosofia. Lo Stato organizza la comunità, la Storia trattiene gli eventi, la Filosofia trasforma la fede in verità.
Qualcuno potrebbe domandarsi in che senso la filosofia sarebbe una certificazione della credenza, e la risposta è che la filosofia nasce e si afferma in opposizione al mito. La lotta tra filosofia e mito è attestata autorevolmente in Platone. Ora, tale lotta è anzitutto una lotta per il controllo della sistema dell’educazione (
Paidéia) e si articola: 1. nell’esclusione dei poeti, cioè dei sapienti produttori di miti, dalla Polis; 2. nella ricollocazione della sapienza mitica in posizione subalterna rispetto al sapere filosofico; 3. in una condanna senza appello del sofista, ossia di colui che pratica una privata e quindi particolaristica Paideia e per di più in cambio di denaro.
Del mito il filosofo rifiuta anzitutto la natura meramente fideistica (è vero ciò che è creduto con forza) e l’incapacità di porsi come sfera esclusiva, cioè l’incapacità di invalidare anticipatamente la comparsa di altri miti, e quindi di verità diverse e tra loro opposte. La filosofia oppone al sapere particolare del mito e alla sofistica l’idea di un sapere universale e incontrovertibile. Ora, la certezza che il filosofo ha di avere per le mani un sapere assolutamente certo si basa sull’acquisizione di due nozioni: 1. la verità come non-nascondimento (
Alétheia); 2. L’essere come totalità (
En-pan). Per mezzo del richiamo a queste due nozioni la filosofia si impone come fede totale, esclusiva: la filosofia è il sapere eterno e ubiquo del non nascosto, ossia di ciò che, permanendo immutabilmente nella luce dello sguardo del filosofo, è sempre, e ovunque, vero.
Quanto questa convinzione sia a sua volta una credenza è qualcosa che, a partire dalla rottura dell’hegelismo, verrà perentoriamente messo in luce. La filosofia non è un sapere certo più di quanto lo fosse il mito, con la differenza che questo mito che è la filosofia ha trovato nel coordinamento con lo Stato e con la Storia il mezzo per reprimere, squalificare o annientare ogni diverso uso della mente.
Stato, Storia e filosofia non sono grandezze indipendenti. Insieme costituiscono quella risposta ai problemi dell’incomponibilità della convivenza, dell’impermanenza dell’evenienza e dell’incertezza della credenza il cui gioco caleidoscopico costituisce la forma cangiante, eppure sempre una, della civiltà occidentale. Ci si potrebbe esprimere dicendo che ciascuna di queste tre grandezze presuppone e rinvia infallibilmente alle altre due e che nessuna delle tre avrebbe il significato che ha fuori dal loro reciproco e ternario rapportarsi e che non potrebbe separarsene senza compromettere l’assetto dell’intero sistema, senza determinarne, in qualche modo, la rottura. Si tratta di un sistema di piani trasparenti, ciascuno dei quali reca un disegno; la loro sovrapposizione, in molteplici combinazioni, ci restituisce il disegno completo della
Kultur occidentale. Ciò che consente la lettura dei tre piani come progetto di civiltà è pertanto la trasparenza stessa. Potremmo chiamare questo sistema di sovrapposizioni complesse la
sintesi occidentale, ossia la riunione, la congiunta capacità di promozione e il collegamento mobile di Stato, Storia e Filosofia, più la trasparenza stessa di ciascun piano rispetto agli altri.
Per esempio, un sapere che si volesse certo al di fuori del vincolo imposto dell’esistenza storica altro non sarebbe che quel mito contro cui Platone si batté per imporre la filosofia come fondamento di ogni educazione pubblica. Inoltre, se non vi fosse un controllo centralizzato e unico del sistema educativo, se la Paideia si presentasse come una molteplicità di proposte conflittuali e irriducibili, allora non vi sarebbe propriamente nemmeno Stato, non vi sarebbe cioè il sistema unico della pubblicità e quindi nemmeno il sistema unico del senso, non vi sarebbe cioè quella
Einsinningkeit, quell’unisignificanza dei fatti che è il fondamento della mente occidentale. Al suo posto avremmo qualcosa come una pluralità di sensi privati e di immagini difformi e quindi la possibilità, sempre data, di un loro conflitto incomponibile; si avrebbe cioè qualcosa di potente, di tirannico e, allo stesso tempo, di inerte, di molle, di infido, qualcosa di superstizioso e, allo stesso tempo, di abbacinante come una caliginosa notte lunare, come una creatura incantevole e pure velata di umide nebbie, fioca, febbricitante, internamente corrotta e contraddittoria come Madame Chaucaht. [1]
Dunque l’Occidente è anzitutto Stato, cioè l’apertura di uno spazio pubblico a misura dell’Uomo, la cui misura è cioè l’Uomo ma solo in quanto essere filosoficamente educato quindi:
Homo philosophicus e non “uomo” semplicemente. L’Occidente, per seguire le metafore della
Montagna incantata, è il “giorno chiaro”, la “luce diurna” dove le cose appaiono nella loro incontrovertibile oggettività, e “fredda”, cioè razionale, e infine “vitrea”, ossia trasparente, non equivoca. Questo spazio pubblico, razionale, oggettivo e inequivoco è l’ambito di manifestazione degli eventi di senso. Il senso di tali eventi è, per l’essere filosoficamente educato, univoco, cioè universalmente comprensibile e trasmissibile. Tali eventi sono quindi, per così dire, “fatti eterni”, il che per l’appunto significa: trasmissibili secondo un unico senso. Per questo motivo essi sono detti appartenere alla Storia. La Storia non è lo spazio dei fatti che semplicemente accadono e a cui l’“uomo” semplicemente si conforma, ma l’ambito dell’accadere di “fatti eterni”, i quali sono “fatti” solo per l’Homo
politico-philosophicus.
La fase di tenuta della nostra forma di civiltà si dispiega tra due momenti apparentemente opposti e incompatibili: sintesi e desintetizzazione. Tuttavia, l’“espansione” del sistema ha finito per determinare una crisi irreversibile. La “crisi” dell’Occidente non è dovuta all’irruzione di un elemento allotropo, ma al semplice fatto che, per espansione, il politico macina tutto il non-politico, la metropoli macina senza sosta il provinciale e il periferico, l’urbanismo ingurgita l’agro, la foresta, la montagna …, il filosofico assorbe tutto il non-filosofico (la letteratura, l’arte, il cinema, la televisione, il sogno, la follia …) la filosofia si diverte anzi a produrre essa stessa la propria
decostruzione; mentre la Storia macina tutto l’extra-storico, dai popoli senza storia alla storia di ciò che, non dischiudendosi “in pubblico”, a rigore sarebbe privo di storia. Ora, questa espansione ha determinato ciò che Baudrillard chiama “implosione”, ossia la sospensione “chimica” di ogni opposizione classica in una soluzione di reversibilità o aggregazione casuale o, comunque, secondo leggi non riconducibili a un qualsiasi riferimento noto. Tale stato sospensivo è ciò che io chiamo “desintetizzazione”.
La desintetizzazione va intesa non come una sorta di riflusso, ma come un movimento di deriva, come nell’espressione
deriva delle galassie nella teoria del Big bang. All’allontanamento reciproco delle nebulose fa qui riscontro l’allontanamento reciproco di Stato, Storia e Filosofia e delle loro parti interne le une dalle altre; si tratta dello scompaginamento del sistema occidentale o, più in specifico, della rottura del sistema di legittimazione dell’uso occidentale della mente, e quindi anche della disfunzione del progetto che a quell’uso si richiama.
La desintetizzazione non è qualcosa come una contrazione, un’eclissi o un tramonto dell’Occidente, bensì solo la fase avanzata della sua espansione. In altre parole, “desintetizzazione” è un modo per dire che ci troviamo in una fase di avanzata occidentalizzazione del mondo e, nello stesso tempo, e per lo stesso ordine di motivi, in una fase di avanzata rarefazione del carattere originario dell’Occidente in quanto tale di qui le molte reazioni provenienti dai più diversi settori del tradizionalismo la cui
rivolta contro il mondo moderno è tesa a ridare all’Occidente la
grandezza dell’inizio. Una tale tensione sembra infatti orientata a restaurare quel carattere originario che la modernità, ossia l’avanguardia dell’occidentalizzazione, avrebbe rarefatto fino al puro e semplice vuoto; di qui, pertanto, tutte le teorie dell’oscillazione cosmica, dell’avvitamento, del ritorno su se stesso dell’Occidente e di qui, quindi, anche tutti i miti della nuova nascita e della ri-fondazione.
La desintetizzazione rappresenta pertanto l’indebolirsi progressivo delle forme di controllo sull’uso della mente, in modo tale che quando dei flussi di pensiero non codificato si presentano al proscenio del teatro filosofico, lo Stato non ha più la forza di adottare delle autentiche misure repressive: roghi, incarcerazioni, divieti, espulsioni, ecc. ecc..
Che vi sia desintetizzazione lo si può desumere indirettamente da quello che potremmo chiamare l’effetto Doppler della civiltà occidentale, una sorta di spostamento “sul rosso” della “luce” proveniente dalle varie formazioni dello spirito oggettivo in cui Stato, Storia e Filosofia si annodano in vario modo.
L’effetto Doppler di cui parliamo consiste per esempio nella registrazione del declino del modello universalistico dello Stato-nazione europeo e, più specificamente, nello spostamento degli investimenti politico-giuridici sul locale e sul territoriale, in modo tale che la statalità sembra prodursi più come una molteplicità di spinte eversive che non come una totalizzazione dell’esistenza collettiva nell’universalità etno-politica della nazione. Alla biopolitica come perfezione della statalità occidentale (la sussunzione della vita come fatto biologico sotto un potere che agisce con disinvoltura estetica) si sostituisce una sorta di geopolitica delle istanze territoriali (la disseminazione del politico nelle pieghe della concreta territorialità e domesticità dell’esistenza). Così la filosofia non si produce più come progetto educativo nazionale, ma come una sorta di morale concreta che articola verità locali e fatti transitori ad uso di comunità ristrette. Alla filosofia universitaria, che districava insegnamenti universali per una comunità priva di divisioni particolaristiche al suo interno, e quindi una comunità etnicamente, giuridicamente e politicamente omogenea che garantiva l’universalità della formazione attraverso un sistema di titoli e attestati pubblici , si affianca qualcosa come un pensiero che parla senza legittimazione, senza autorità, senza attestazioni e quindi un pensiero ‘selvatico’, o per meglio dire, ‘inselvatichito’, de-civilizzato, che muove da un arretramento verso l’appartenenza territoriale piuttosto che da un investitura imperiale. All’ermeneutica come perfezione della filosofia pubblica del secondo Novecento [2] si sostituisce un pensiero delle istanze locali, una geo-filosofia; all’immagine del professore di Stato, del filologo capzioso, del pedagogo, del geloso custode dell’ortodossia e dell’accumulatore di glosse si affianca, proprio nel senso che gli scivola sul fianco, a dritta, quella del pensatore corsaro o, meglio ancora, pirata,
vampyr, colui che succhia l’anima (il succo, la linfa di un pensiero) introducendo nei corpi (la sua immagine pubblica) uno spirito che non gli corrisponde (
Wild textualism) alla produttività e commensurabilità del lavoro filosofico, tipica per altro di ogni formazione omogenea, si sostituisce una sorta di disseminazione eterogenea della funzione del pensare, uno spostamento del registro del pensiero dall’accumulo al dispendio, dall’educazione al complotto, dal capitale al tesoro [3], dal potere universale alla munificenza transitoria. Su questa base viene formandosi un’altra economia del pensiero che al governo mondiale della mente affianca qualcosa come un liberismo o un anarchismo del suo uso, al cattolicesimo del pensiero (rivelazione + tradizione + magistero) affianca una mente ignara della rivelatività filosofica, disconoscente il magistero dei chierici e che esercita una sorta di libero esame della tradizione: luteranesimo della mente.
(Lo stesso dicasi infine per la storicità. Questa non si produce più come unisignificanza del mondo e dei fatti. Al patrimonio spirituale omogeneo e trasferibile delle nazioni si sostituisce l’esperienza della discontinuità e della rottura, alla storia universale l’incommensurabilità della esperienze storiche delle concrete comunità locali.)
2.
L’assoluto terrestre
Geofilosofia significa anzitutto ciò che dice il suo nome: geo-filosofia, filosofia della terra. Resta tuttavia impregiudicato il senso del genitivo che, com’è noto, può essere inteso in un duplice senso. In senso soggettivo l’espressione “filosofia della terra” è filosoficamente banale, essa rimanda infatti alla cosmologia se per “terra” intendiamo l’orbe, oppure alla filosofia naturale o Fisica se per “terra” intendiamo i
phýsei onta, gli enti che provengono dalla
Phýsis e che pertanto sono determinati dalla
kínesis, dalla “motilità”, oppure ancora all’antropologia se per “terra” intendiamo quel settore dell’ente che costituisce il complemento subordinato della sfera della trascendenza: l’etica come determinazione del bene, l’estetica come determinazione del bello, il diritto come determinazione del giusto e la politica come determinazione della vita buona [4].
In senso oggettivo “filosofia della terra” può significare ancora due cose:
1) la terra della filosofia, in senso enfatico, cioè la patria, o, come si usa dire oggi, sotto l’influenza di una grande e controverso maestro come Heidegger, la
Heimat, il luogo natio o ventre da cui il pensiero è messo o rimesso-al-mondo;
2) oppure l’esser consegnato (del pensiero) alla terra, la terrestrità assoluta del pensiero, la sua prigione, per dirla con Nietzsche se intendiamo rettamente quel suo appello alla fedeltà nei confronti della terra , e quindi di nuovo l’antropologia, ma in un senso molto diverso da quello prima ricordato.
Presa nel senso oggettivo l’espressione “filosofia della terra” può significare quindi sia un rimando alla trascendenza dell’essere, il quale sarebbe la vera patria-matria del pensiero (il pensiero è dell’essere, gli appartiene, è lui che lo rimette-al-mondo), sia il rimando ad un piano dell’«immanenza assoluta», sul quale trovano consistenza l’umano e lo storico ma non vi è più traccia dell’Uomo né della Storia, nel quale è contemplato il celeste, ma solo come dimensione possibile di un assoluto terrestre, è ammesso il problema teologico ma solo come problema interno all’orizzonte di un assoluto antropologico. Un tale pensiero più che accertare la caduta dell’uomo in un sistema chiuso lo esprime, ne è, per così dire, la manifestazione sintomatica.
Presa nel senso oggettivo l’espressione “filosofia della terra” rimanda quindi a due cose inconciliabili, di cui una sola è la geofilosofia nel senso sopra accennato, nel senso cioè di un pensiero delle istanze locali, di un uso “luterano” della mente e di un pensiero dell’immanenza. Ogni altra accezione del termine rinvia invece, sempre di nuovo, al primato filosofico della teologia.
In generale la filosofia è esattamente il tentativo di assumere la terra nel cono di luce di uno sguardo “elevato” ed “eterno” capace di abbracciare tutto con un sol colpo d’occhio (Platone:
synoptikós), o di pensare il tutto o le condizioni di possibilità del tutto (Kant) e quindi di rifletterne gli elementi e le articolazioni rapportandosi a Dio o al suo supplente secolarizzato, il soggetto [5], che di Dio, come ha scritto Deleuze, conserva giustappunto l’essenziale: il posto. La metrica del filosofare ammette pertanto, quale unica dimensione, la verticalità, il suo presupposto è che il tutto è trasparente in tutti i sensi, la sua perfezione è la teologia, il suo movimento un movimento di bascullazione tra il su il giù: 1. elevazione prospettica, tesa alla comprensione di tutte le differenze e dei loro rapporti; 2.
descensio ordinatrice, tendente all’organizzazione e alla distribuzione di quanto più senso possibile. [*]
A compiere questo passo, a scoprire questa via tra le cricche e nella disfunzione del progetto occidentale, non è però la filosofia professionale, ma le istanze che ne erano tradizionalmente escluse: la femminile pensosità domestica, la cupa disposizione provinciale alle fantasie ossessive. Queste istanze, emancipate dal movimento espansivo dell’Occidente (urbanizzate, tecnologizzate, acculturate, sprovincializzate), di colpo rimesse tanto alla libertà del pensiero quanto alla verità della loro provenienza, patiscono qui uno choc essenziale: dinanzi alla scoperta di essere nient’altro che la riserva muta del mondo omogeneo, della comunità giuridica e di pensiero, sequestrata ai bordi dell’esistenza storica, il gesto primario con cui esse fanno il loro ingresso sul piano indifferenziato dell’umano è un gesto di rifiuto o, per essere più precisi, di arretramento, di fuga verso la macchia. Tale “arretramento” è qualcosa di analogo a ciò che Jünger chiamò “passaggio al bosco”, ma è anche un risalimento verso l’alba della civiltà, verso il punto antestorico in cui la separazione e l’esclusione non sono ancora avvenuti, verso quel grado zero dell’Occidente in cui il pensiero, sgorgando, non può fondarsi se non sull’assenza di autorità ed è quindi, per dirla con Bataille, un gesto sovrano, verso il punto in cui gli eventi, accadendo, mostrano la loro radicale gratuità e in cui lo stato è presente piuttosto come pura e semplice
par-oikía, sistema di vicinato, forma di condominialità: né pace né guerra si potrebbe dire, semplice convivenza del resto bisogna considerare che la pace è una pura finzione, in quanto essa può darsi solo come azzeramento della conflittualità, assoggettamento brutale o annientamento del nemico in quanto nemico. Tale “arretramento” esprime il rifiuto di assimilarsi all’omogeneità produttiva della filosofia di Stato e l’estraneità rispetto al suo sistema di legittimazione, la derisione della sua funzione pedagogica e l’orrore per la sua professionalità. È per questo motivo che la geofilosofia, nel punto esatto in cui fluisce, si presenta con i caratteri di un pensiero selvatico, non conforme cioè agli standard formativi della filosofia pubblica e quindi come un pensiero non educato, non ortopedizzato, implausibile, a cui non può andare, per definizione, il consenso della comunità scientifica e quindi anche un pensiero “falso” o un falso pensiero e, infine, come un pensiero illegale, irrispettoso cioè dei protocolli e della legalità scientifici. Il suo approccio metodologico apparirà piuttosto come un brigantaggio è questo il significato da attribuire all’espressione “luteranesimo della mente”, almeno dal punto di vista della filosofia omogenea: si tratta dell’esercizio di qualcosa come un “libero esame” condotto su testi che la chiesa filosofica tramanda, in modo sacralizzante, all’interno di un magistero consolidato; libero esame che, nelle situazioni più estreme, potrà presentarsi anche come un testualismo selvaggio o una sorta di vampirismo metodologico.
La geofilosofia come tale nasce invece da un arretramento del pensiero, nasce da un inselvatichimento, da un tentativo di guadagnare non già un punto di vista elevato, ma un punto d’avvio il più possibile esterno, laterale ed estraneo alle procedure del pensiero omogeneo.
Questa per lo meno la sua immagine pubblica, la sua immagine culturale. Nell’ottica “
geo-”, quello che qui appare come un insieme di forme implausibili si presenta invece ora come una lotta contro la cultura ora come una rivolta contro la politica, ora come un movimento di secretazione, di sparizione e di impulso all’autonomia ora come una filosofia vittimaria (l’assunzione del punto di vista della vittima e del delinquente al posto di quello della comunità e dello stato la geofilosofia indica per altro una vittima assoluta, un paradigma di vittima: l’ἱδιότηϛ, l’escluso dal pensiero comune, ma anche l’essere che sta a sé, il privato, il domestico, il
paysan, la donna, l’escluso dalla comunità politica e infine l’escluso dalla comunità storica, cioè l’essere privo di passato e di avvenire).
La geofilosofia, presa per se stessa e in rapporto a ciò che la produce, è cioè, in primo luogo, un
pensiero del di fuori. Questo perché essa ha nel “fuori” l’unico terreno filosofico ove attingere il proprio avvio; tale “avvio” è “unico” perché ogni altro terreno le sarebbe, e le è di fatto precluso, dall’esclusione dalla quale proviene: il quasi nulla dell’esistenza eterogenea e della pensosità provinciale. Nel tentativo di raggiungere una certa comprensione della propria consistenza teorica e del proprio ruolo culturale la geofilosofia giunge così a pensare il luogo della propria
Herkunft, che significa tanto appartenenza quanto provenienza, come il frutto di un’attività meiotica in seno a uno spazio di immanenza. I meccanismi di esclusione e di rimozione propri dell’attività meiotica destinano una parte dell’ente alla reiezione: è la meiosi a produrre quella regione sequestrata che costituisce, all’interno della totalità delle cose viste, organizzate, trasmissibili e sensate, una
Mërtvogo doma, una casa morta, una regione chiusa dell’eterogeneo che non somiglia a nulla, con leggi sue, suoi usi, con una vita come non esiste in nessun altro luogo, dove si può supporre che non ci sia delitto che non vi abbia il suo rappresentante, dove le forze esistenti, ivi recluse in coabitazione forzata, sono messe al lavoro sotto la minaccia del bastone, ma senza che tale impiego abbia alcuno scopo, avente anzi quale unico scopo quello di ingannare l’attesa. Una casa dove si può quindi imparare la pazienza in attesa di essere o abilitati ad inserirsi nel luminoso mondo di là, o almeno essere additati da quello a semplice promemoria morale. Una dimora in tutto e per tutto simile a quel reclusorio di cui Dostoevskij ha scolpito non solo le figure, ma anche le dinamiche, le reazioni chimiche, la funzioni vitali e la disfunzione globale l’Altro, per la geofilosofia, non è Alto (Evola) [6], ma basso (Nietzsche). [7] Il grado zero dell’esclusione corrisponde tuttavia all’infondatezza del mondo e il senso e l’organizzazione della vita collettiva sono direttamente in funzione del grado di esclusione. In tal modo la crisi di desintetizzazione dell’Occidente viene ad esprimere, oltre a quanto già detto, l’indebolimento dei meccanismi di auto-riconoscimento da parte del mondo omogeneo, il quale utilizzava, per l’appunto, il rapporto dentro/fuori per determinare il senso del positivo, del buono e del superiore rispetto al negativo, al cattivo e all’inferiore. Il positivo e l’omogeneo sono il ‘dentro’, l’eterogeneo, il negativo e il trascendente sono il ‘fuori’; il ‘dentro’ è una regione libera, svicolata, il ‘fuori’ è una regione chiusa e sequestrata; il dentro è la parte del senso, della ragione, dell’uomo e dell’essente, il fuori è la parte dell’insignificanza, dell’essere, di dio e della bestia; il dentro è lo spazio urbano organizzato, servito e produttivo, il fuori è «la consistenza di un insieme vago che si oppone alla legge (o Polis) come un retroterra, un fianco di montagna o la distesa vaga attorno alla città». [8] La desintetizzazione dell’Occidente corrisponde pertanto ad un aumento della disorganizzazione del mondo, e quindi anche ad un aumento della sua insignificanza. Il grado di insignificanza a cui il mondo si piega corrisponde però al grado di liberazione dei flussi di pensiero non codificato.
A fronte della teologia come perfezione del pensare filosofico la geofilosofia, si potrebbe dire, dispiega nel senso che issa, come si issano delle vele l’imperfezione di un’antropologia assoluta. Questa, a differenza dell’antropologia soggettiva, che assumeva la terra come quel settore dell’ente che costituisce il complemento subordinato della sfera della trascendenza, assume la terra come orizzonte conclusivo, estremo, come un “assoluto”, al cui interno il terreno e il trascendente, l’ente e l’essere, l’umano e il divino, l’ἱδιότηϛ e il πoλίτης si scambiano senza sosta, in un regime di reversibilità illimitata.
In secondo luogo la geofilosofia è un “pensiero minore”. Essere esclusi dal pensiero non significa non poterne apprendere i lineamenti, bensì: non poter pronunciare una frase filosoficamente legittima se non vincendo in sé la balbuzie dell’ἱδιότηϛ. “Minore”, nel senso della filosofia professionale e omogenea, è quell’uso della mente che balbetta nel pensiero, quell’uso della mente che è senza passato e senza avvenire, laddove, per l’appunto, solo ciò che ha un passato, e quindi un avvenire, e quindi una Storia, è filosoficamente rilevante. Balbuziente nel pensiero, senza passato né avvenire, è infatti il quasi-nulla della pensosità provinciale. Presa nel senso “geo-” questa “minorità” è pertanto, per usare un’immagine deleuziana, l’autonomia del balbuziente in quanto questi si è conquistato il diritto di balbettare.
Infine la geofilosofia è un pensiero provinciale, nel senso che si esercita a partire dal quasi-nulla della
pensosità provinciale e che si dispiega come un sentiero tra i campi.
Non è facile dire se il famoso
Feldweg heideggeriano abbia anche questo senso, certo è che se di sentiero tra i campi qui si parla, si vuole alludere ad un percorso che si snoda lontano dalla rete viaria della filosofia professionale, ad un percorso che non si sa con precisione dove porti né se porti da qualche parte e quindi a un percorso che deve essere tentato prima di essere mappato. Il sentiero tra i campi è quindi prima di tutto un “sentiero tentativo” (
Holzweg), poi è un rapporto orientativo con lo spazio, con il paesaggio e i luoghi (
Wegmarken) e non con la storia del pensiero omogeneo, almeno non in primo luogo , quindi un cammino consegnato allo sviluppo orizzontale della superficie terrestre; lo spirito non si invertica, non è qualcosa che sale e scende, bensì, come appare chiaro nei preludi del sogno, esso si distende piuttosto «sulle ampie superfici della terra, egli stesso monte e campo e terra …». [9]
Perché il cielo abbia un senso
scrive Cesare Pavese, che è forse il maggiore poeta del paesaggio e della terrestrità del nostro Novecento
bisogna affondare dentro il buio radici ben nere
e se la luce scorre fin dentro la terra, come un urto, allora anche i villani hanno un senso e ricoprono le colline, immobili come fossero secoli, di verde, di frutta e di case e ogni pianta all’alba sarebbe una vita. [10]
Lo spirito si distende e ricopre le superfici, le colline senza tempo, all’interno di un “chiuso” che è, potremmo dire, il terra-cielo che delimita l’assoluto terrestre; non quindi “terra celeste”, come pure è stato detto [11], bensì, al contrario, cielo terrestre, nel senso che è la terra ad avere un cielo, e non viceversa.
Infine, questa immagine del sentiero, rimanda a una dialettica tra ‘località’ e ‘dislocazione’, tra radicamento e deterritorializzazione. Nel molto prossimo si inscrive l’avvio di ogni pensiero. È il paesaggio a determinare le nostre prime meditazioni. La nostra pensosità si nutre inizialmente forse di nient’altro che di paesaggio. Nel paesaggio e nella lingua materna [12], si conserva e si tramanda la nostra sensibilità ancestrale. La terra, non come simbolo unificante, ma come questo concreto rapporto con un luogo-territorio particolare, raccoglie e conserva ciò che, sottraendosi alla manipolabilità, è libero dalla tecnica: il volto degli avi inscritto nelle pieghe del paesaggio, il piccolo cimitero lassù sulla costa, dove insistono gli antenati e le cose che durano sempre. Ma senza una dialettica tra radicamento e deterritorializzazione, tra rimemorazione e fuga, tra le Langhe e Torino o i mari del sud (per restare a Pavese), il richiamo alla terra è inutile retorica. Il pensiero provinciale, dispiega questa dialettica. Ma questa dialettica non ricostituisce l’universale, non restituisce l’eterno, non fornisce soluzioni globali, non dà consolazione, non amplia la conoscenza e non legittima le scelte politiche. Si potrebbe dire che esso, molto imperfettamente, articoli verità locali e fatti transitori all’interno di una morale concreta, anch’essa costantemente transitiva, volta a sgomberare il sentiero per il cammino di una comunità ristretta, in cerca di un’autonomia e di una “proprietà” nella deriva dell’Occidente, in cerca di una possibilità di convivenza nel
continuum della confliggenza, in cerca di un diritto e di una responsabilità vittimari nel sistema deflettente delle leggi e dei vincoli universalistici e, infine, forse, in cerca di una religione terrena nel declino della Trascendenza.
La geofilosofia non è dunque, strettamente parlando, né una nuova proposta teorica, né politica, anche se ha una sua consistenza teorica e delle politiche da svolgere, quanto piuttosto un modo di darsi al pensiero «a partire dal lucido furore che cova nella cupa pensosità degli anfratti periferici». Come tale, essa non è che un fenomeno transitorio e laterale, esattamente come lo fu il brigantaggio preso in mezzo tra il declino dell’
ancien régime borbonico e l’avvento del nuovo organo politico, lo Stato liberale.
(*) [Nota Aggiunta, 2001] A questa tradizione appartengono tutti quei tentativi di fronteggiare la desintetizzazione dellOccidente che, pur avvalendosi di alcune suggestioni geofilosofiche, inclinano a considerare lelemento terrestre come una manifestazione più o meno esplicita di un ordine diverso, Altro e Alto. Rientrano in tale prospettiva i lavori di Massimo Cacciari raccolti sotto letichetta della geofilosofia (M. Cacciari, Geo-filosofia dellEuropa, Adelphi, Milano 1994; Id., Larcipelago, Adelphi, Milano 1997), per il quale la Legge, come in Platone, ha una radice celeste e l'organizzazione buona della convivenza è il riscontro di un corretto rapporto con il divino quandanche inteso come «luce puramente escatologica». Si veda a questo proposito anche il saggio «Europa o Cristianità», Micromega, n. 2, 2000, pp. 65-74, dove Cacciari propone esplicitamente una fondazione escatologica della comunità. Solo il Povero egli dice , ossia il vero nudo, esprime il dono di sé in forma perfetta. Ma il dono è perfetto solo se rivolto all'Assente, a colui stesso che ci ha abbandonati. Infatti, se questo dono fosse appena men che perfetto, si ripresenterebbe il problema della volontà, e laddove questo problema si ripresenta, lì la relazione torna ad assumere o la forma del compromesso-contratto [leggi: liberalismo], oppure, nel migliore dei casi, la forma dell'eguaglianza con laltro [socialismo?]. Nel primo caso si ha una mancanza di vera pace, il secondo richiede comunque uno sforzo per il superamento della differenza. Solo la relazione (Cum) tra il Povero e lAssente è contemporaneamente: a) ciò che salva la distanza; b) una relazione necessaria. La comunione tra il Povero e lAssente scrive Cacciari è il Gottesreich, il Regno, e il Regno è lapertura stessa nella quale si insedia la comunità umana nella sua forma europea, ossia cristiana. Solo pensata escatologicamente, però, la relazione tra il Povero (Gesù, il figlio) e lAssente (il Padre) «fonda la communitas», e «la relazione è escatologicamente pensata, pensata al suo limite insuperabile, quando è pensata come insuperabile, e cioè tale da non potersi mai trasformare o in astratta separatezza [salva la distanza] o in effettuale unità [elimina la distanza]». Il fondamento della communitas è pertanto la relazione escatologica tra il Figlio in quanto figura della vera Nudità e il Padre in quanto figura della vera Assenza. Solo così fondata la comunità potrà costituirsi come una comunione tra gli «assolutamente distinti», e non risolversi mai in astratto individualismo [liberalismo] o in effettuale ipercomunitarsimo [comunismo, fascismo]. Tuttavia, basterebbe sostituire alle figure dellescatologia i corrispondenti luoghi della tradizionale topo-teologia Povero = qui/terra/terrestre/abbassamento; Compimento = là/cielo/celeste/elevazione; Assente = trascendente/altro/alto per rendersi conto di quanto questa fondazione sia, in definitiva, una fondazione teologica, sia pure in un senso non perfettamente coincidente con il teologismo tradizionale, che Cacciari critica in quanto egli lo vede confluire necessariamente nell'immanentismo hegeliano, ossia, esplicitamente, nellateismo. In Cacciari Il prefisso geo, che precede la parola filosofia, allude semplicemente a una declinazione in tonalità geografica di quell'unica costruzione che è la tradizione filosofica del pensiero occidentale, non come se si trattasse di metterne in luce limpronta, ciò che ne determina di volta in volta in profondità, il modo dessere, ma come se se ne volessero mettere in luce le inflessioni locali, le sfumature di colore. In tale prospettiva rientra anche il lavoro di due studiose che del termine geofilosofia hanno fatto un uso in verità più esplicito e ad un tempo più impegnativo, tentandone anche una definizione: C. Resta («10 tesi di geofilosofia», in AA.VV., Luomo e il territorio, SEB, Milano 1996) e L. Bonesio (Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1997). Lassunto di fondo delle due studiose è che il compito del pensiero è oggi segnato dalla necessità di indicare la via per fuggire la crisi mortale in cui versa lOccidente. Luso del termine geofilosofia si giustifica in particolare per il valore simbolico assegnato al prefisso geo: La terra, Gaia, rinvia qui al tutt'uno di terra e cielo. Cielo è la parte divina del tuttuno. Ora, la terra ha perso il suo Nomos proprio perché i mortali, che abitano il frammezzo di terra e cielo, hanno perso il senso della verticalità. Si tratta pertanto di ricomprendere luomo nella prospettiva della totalità cosmica. Mediante quest'uso simbolico della terra, e per orientarsi nel franare del mond, Bonesio e Resta (non diversamente da Cacciari) ripropongono un pensiero dellabitare a partire dall'alto, una considerazione del con-vivere come ordine che trae dall'alto la sua legalità e conduce la comunità a riunirsi in quel movimento del senso che la orienta verso lalto. Si tratta, quindi, di riflessioni rientranti globalmente nella dimensione teologica della tradizione filosofica.
[1] Cfr. Th. Mann, La montagna incantata, trad. di E. Pocar, Corbaccio, Milano 1992, p. 237 sgg..
[2] Basti pensare al lavoro di depotenziamento svolto da Gadamer con Heidegger e da Vattimo con Nietzsche.
[3] Non si tratta più di accumulare verità su verità, conoscenze su conoscenze, sulla base delle quali organizzare la convivenza e la continuità dell’esperienza, bensì di cercare un tesoro di verità, nascosto da qualche parte, da spendere si tratta di scovarlo e di spenderlo (Treasure Island contro Robinson Crosue; un tesoro non può che essere dissipato).
[4] «Spetta al legislatore dice Aristotele – studiare come e con che mezzi si formano uomini buoni e qual è il fine della vita migliore» Pol. 1333a, 14-17).
[5] L. Althusser, L’avvenire dura a lungo, trad. di F. Bruno, Guanda, Parma 1992, p. 179.
[6] «Il posto naturale di quest’uomo, la terra in cui egli non sarebbe uno straniero, è il mondo della Tradizione […]. Una civiltà o società è “Tradizionale” quando è retta da principi trascendenti […], quando ogni suo dominio è formato e ordinato dall’alto verso l’alto» [corsivi nostri], (J. Evola, Cavalcare la tigre, Ed. Mediterranee, Roma 1995, p. 19).
[7] Chiunque senta l’abisso che lo separa da tutto ciò che è sancito dall’uso – scrive Nietzsche –, e che perciò viene onorato, chiunque provi un sentimento di odio e di vendetta contro tutto ciò che già è, e che non diviene più, e che è quindi disposto per questo a derogare alla norma, e che pertanto si troverà a dimorare assai a lungo in basso, sarà perciò stesso, suo malgrado, avvicinato a quel tipo che il criminale porta a compimento (F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, trad. di M. Ulivieri, Newton Compton, Roma 1980, pp. 86-87).
[8] G. Deleuze e F. Guattari, Sul ritornello. Mille piani. Capitalismo e schizofrenia. Sez. III, trad. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma 1997, p. 121 sgg.
[9] H. Broch, La morte di Virgilio, trad. di A. Ciacchi, Feltrinelli, Milano 1934, p. 115.
[10] C. Pavese, «Paesaggio V», in Lavorare stanca, 1936.
[11] L. Bonesio, La terra invisibile, Marcos y Marcos, Milano 1993, p. 134 sgg. La terra, pensata sempre come un materiale da trasfigurare, una regione da riscattare, una condizione da redimere (dalle derive del moderno, dal dominio tecnico del mondo, dalla pietrificazione dell’ambiente naturale, ecc.) non giustifica in realtà la scelta del termine “geofilosofia”; sembrerebbe infatti più appropriato, se l’orizzonte è questo, un riferimento alle teologie integrali del pensiero Tradizionale.
[12] Quella stessa lingua materna alla quale Hannah Arendt riconosce l’assoluto primato del nominare anche dopo l’orrenda masticazione hitleriana. Il riferimento è all’intervista rilasciata da Hannah Arendt nel 1964 a Günter K. W. Gaus, Was Bleibt? Es bleibt die Mutter sprache; in italiano, La lingua materna, a cura di A. Dal Lago, Mimesis, Milano 1993.
Gabriele Münter, Landschaft mit weisser Mauer, 1909