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La geofilosofia e l’arte della guerra
di Marco Baldino



Si dice che compito e sfida di un pensiero radicale sia riguadagnare la consapevolezza di cosa possa ancora voler dire riconoscersi come esseri terrestri ed appartenere ad una Terra. Ad esempio, il pensiero della Terra può intrecciarsi sia con la dialettica tra l’appartenenza locale e l’organizzazione globale della tecnica, sia con la preoccupazione conservativa delle specificità paesaggistiche. Sciocchezze! Che cos’è un pensiero radicale? Riconoscersi come esseri terrestri?

Sun Tzu dice: «“Terra” indica lontananza e vicinanza, difficoltà e facilità di movimento, spazi aperti e angusti, possibilità di morte o sopravvivenza». E tutto ciò perché su questa “terra” va condotta una guerra non una contemplazione, non un riconoscimento, non la simulazione di un’identità.

Poi Sun Tzu dice: «Un terreno può essere transitabile, insidioso, svantaggioso, angusto, scosceso o con ampie distanze». Il problema della geofilosofia, quindi, è semmai quello dell’intransitabilità del terreno filosofico per una pensosità selvatica, è il problema degli sbarramenti eretti contro un certo modo trans-professionale di intrufolarsi sul terreno filosofico (che invece è anzitutto una pratica professionale) affinché questo intrufolarsi non porti la sua infezione sul piano del cosiddetto pensare autentico.

In quanto sottratto all’azione ortopedica della Bildung filosofica una tale infiltrazione di materiali non nobili non potrà pertanto mai presentarsi che come una deformità, una anomia. Il problema geofilosofico riguarda quindi il modo di sottrarsi alla coltivazione filosofica che è anche, e soprattutto, una polizia del pensiero, riguarda il come superere lo svantaggio di avere la provincia come “provenienza” anziché la città. Il problema è questa pensosità zo[o]tica e non un “programma di ricerca”.

Non so se la geofilosofia sia un pensiero radicale, so per certo che essa non è qualcosa come “la dialettica tra appartenenza locale e organizzazione globale della tecnica”, bensì, in primo luogo, un sottrarsi a quel “galateo” del pensiero che è la filosofia dei programmi di ricerca, uno scansare quella polizia del pensiero che è la filosofia come pratica universitaria della formazione scientifica, un disfare il proprio volto per diventare impercettibile alle pratiche di riduzione della pensosità al discorso filosofico — questo è geofilosofia: convivere con la radicale inautorevolezza della propria coazione a pensare che preme per accedere alla forma è in realtà una pulsione.


2.

Davvero un pessimo termine in ogni caso, troppe cose vi si raccolgono e, in genere, tutte cose che hanno a che fare con la determinazione di un’appartenenza e la celebrazione di un radicamento. Bisognerebbe invece cercarvi la traccia un altro accesso al pensiero. Nella geofilosofia sono almeno tre le cose che possiamo rinvenire e che non sono riducibili all’appartenenza, alla radice:
1) l’esistenza di un escluso;
2) colui che opera tale esclusione;
3) ciò che accade quando tale esclusione si sospende.
L’escluso è la pensosità provinciale con il suo carico di dislessia, di disgrafia, di logoplegia; colui che esclude è la filosofia stessa, con la sua ansia separatrice e classificatoria: via la bestia, anzitutto, poi il divino (dio e bestia, divinità e idiozia, non appartengono alla Polis la quale, per l’appunto, è il luogo deputato della filosofia); via la poesia e, infine, via la follia, via tutto l’eterogeneo. Ciò che accade quando il regime di separazione imposto dalla filosofia si sospende, o viene a cadere, è invece il venire allo scoperto di un altro approccio al pensiero, estraneo a quello consolidato nella e dalla tradizione della Bildung filosofica.

Vi è dunque un altro modo di usare la mente che si annuncia nella geofilosofia. Questo ha la sua figura, il suo personaggio concettuale, non nel contadino della Foresta nera, ma nel trovatello di Norimberga, Kaspar Hauser. Dinanzi a questo frutto selvatico, cresciuto da sé fuori dal seminato, quasi deforme e enigmatico, ci si può muovere a compassione, si può persino tentare di educarlo, di farne un buon cittadino. Mano a mano che la sua educazione progredisce la sua eccezionalità infatti diminuisce. Ma rimane l’intervallo compreso tra la sua apparizione e la sua sparizione; qui il “trovatello” si muove come un torrente in piena, che travolge gli argini districandosi in un confronto feroce con la forma del terreno.

È in questo modo che viene smascherando la natura ortopedica della formazione, l’isteria regimatrice della filosofia ed è in questo modo che ne denuncia l’ambizione al controllo totale. Se il “trovatello” affronta problemi, lo fa con quel poco di linguaggio di cui s’è appropriato. Se si vuol stare ad ascoltarlo questi fornisce soluzioni che imbarazzano e scandalizzano il retto pensiero: pieno di ragione e, allo stesso tempo, estraneo al metodo, è irriducibile a una qualsiasi fonte che non sia semplicemente millantata, esibita al solo scopo di compiacere. Ecco, questo è il pensiero selvatico, terzo elemento da inscrivere nella geofilosofia.


3.

“Geo-” non significa appartenenza, radicamento, sebbene abbia a che fare con questi termini. E se vi ha a che fare è nel senso che con essi, essa, sta in un rapporto di smarcamento. Il cammino di pensiero non è qui un rigoroso “affondare” nel luogo dell’origine, ma un disordinato movimento di diserzione.

Chi diserta è la pensosità provinciale; ciò da cui diserta è la dimensione crepuscolare cui la filosofia l’aveva confinata (dimensione che è quindi la sua inoccultabile origine). La causa di tale diserzione non è la volontà ma il caso (una certa rottura nel regime di separazione). Ciò che guida tale pensosità mentre diserta il luogo della propria origine non è la formazione filosofica, ma un autonomo desiderio di emancipazione, di lucidità, di agudeza. Ciò entro cui la pensosità provinciale, così emancipata, si diffonde, dacché il regime di separazione è sospeso, è lo stesso piano filosofico.

Qui essa contamina e si contamina con gli elementi della filosofia ‘scientifica’ dando luogo ad un ibrido che chiamo filosofia free-lance. E anche qui: non una riflessone pronta a darsi in servizio al miglior offerente, ma un pensiero senza credenziali, parascientifico. Se questa “filosofia” dicesse mai qualcosa, lo direbbe nel vuoto d’autorità. Crederle sarebbe forse un disastro, certo, ma la filosofia ‘scientifica’, da che è decaduta dal compito di sostenere il concorso civilitario, non si trova nella stessa dannazione?




Ermanno Olmi, Il mestiere delle armi, 2001
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