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Se un impero latino. Geofilosofia dell’Europa
di Marco Baldino

18 marzo 2013







Nel 1947 un filosofo, che era anche un alto funzionario del governo francese, Alexandre Kojčve, pubblicň un testo dal titolo L' impero latino, sulla cui attualitŕ conviene oggi tornare a riflettere.

Giorgio Agamben, «Se un impero latino prendesse forma nel cuore d’Europa», “La Repubblica”, 13 marzo 2013

Non č la prima volta che Agamben si occupa di Kojčve e, di solito, non con la bonomia filosofica riservata ad altri autori. Questa volta sembra cogliere, in Kojčve, una linea di sviluppo buona per i nostri tempi: l’aggregazione delle nazioni latine in una sorta di impero, a fronte di quello che a lui par essere il naufragio dell’Europa.

Personalmente, sarei per una lettura di Kojčve meno liquidatoria in generale e, nella fattispecie, meno possibilista nei confronti del cosiddetto “impero latino”. Bisogna infatti ricordare che il saggio di Kojčve č del 1945 e che il quadro dei problemi a cui Kojčve corrispondeva allora č piuttosto cambiato, oggi.

Quello che invece risulta essenziale dell’analisi di Kojčve non č la questione dell’imparentamento tra nazioni: Latini con Latini, Germani con Germani… ma l’osservazione secondo cui lo Stato moderno, dopo il naufragio del tentativo hitleriano di costituire un dominio nazionale in Europa (essenziale č l’osservazione secondo cui «Fu proprio il carattere eminentemente nazionale dello stato tedesco a causarne la disfatta: per poter sostenere la guerra moderna il Terzo Reich č stato costretto a occupare e sfruttare paesi non germanici e a importare piů di 10 milioni di lavoratori dall’estero. Ma uno Stato-nazione non puň integrare gli stranieri e deve quindi trattarli politicamente come schiavi. Questa peculiaritŕ, da sola, sarebbe stata sufficiente a far fallire il progetto di Hitler»), non puň che essere un impero, nel senso della aggregazione di popoli diversi, ma con eguale dignitŕ, altrimenti (sottinteso) non resisterebbe, nemmeno dal punto di vista post-storico, poiché la post-storia č il ‘tempo’ del “riconoscimento” trasformato in una pratica generale, socialmente controllata.

È questo (a me sembra) il punto: non fuggire l’Europa, giocare il gioco del riconoscimento all’interno di una dialettica dei diritti e dei doveri. Sono certo che Kojčve (oltre che Honneth, fuori discussione) apprezzerebbe questa piega della questione. Per di piů, questa sembra essere l’unica via di salvezza dal declino.

E se il punto, per Agamben, sembra essere quello di costituire un organismo intermedio piů internamente omogeneo dal punto di vista economico, formare circuiti di redistribuzione piů estesi, capaci di opporsi allo strapotere del capitale finanziario, ciň deve perň essere inteso in attesa di un’Europa unita su fondamenta piů stabili — e tutto sta a capire che significhi qui “piů stabili”.

Una tale omogeneizzazione non potrebbe in effetti formarsi se non attraverso la concentrazione politico-continentale. Le nazioni latine, anche unite in un organismo sub-imperiale, č del tutto improbabile che possono competere con la forza espansiva della produttivitŕ cinese e, allo stesso tempo, non possono negare il diritto delle masse lavoratrici orientali alla omogeneitŕ economica con le sorelle occidentali. Per altro, questa spinta accentratrice e omogeneizzatrice, non č da intendersi come una sorta di desiderio di giustizia, ma come necessitŕ politico-economica e come spinta politica reale (il socialismo non č un ideale di giustizia, ma la forma del compimento del movimento eliodromico). Non so se il nostro paese uscirŕ dall’Euro (e il problema non č poi tutto italiano), il declino non č cosa psicologica, ma il rischio reale di un passaggio dei ceti lavoratori degli stati regionali europei, a cominciare da quelli che per primi usciranno dall’Euro, all’accattonaggio, tanto per cominciare. Dopo di che anche il patrimonio spirituale se ne andrŕ al diavolo.

Rimane poi il problema della base etnica. È curioso che questo ghirigoro sia sfuggito proprio alla penna di Agamben, il negatore della “nuda vita” o, giusto per tornare ai termini della questione, a colui il quale ha visto, proprio in Kojčve, il pensatore di questa cosa che lui interpreta come base filosofica dello sterminio degli ebrei.


Alexandre Kojčve.



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