Rivista di cultura filosofica
2012
Home
Ricerche
Culture Desk
Ateliers
Chi siamo
Info
|
Resurrezioni
di Francesca Brencio
«Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono».
(1 Co 15, 12-16)
“Più di uno guardando questo quadro può perdere la fede” – queste sono le parole che Dostoevskij nell’ Idiota mette in bocca ad un personaggio parlando del dipinto di Hans Holbein il Giovane Il Cristo nella tomba. E questo stesso quadro è ciò che provocò allo scrittore russo un violento attacco di epilessia quando lo vide nel 1867 a Basilea. L’opera è dipinta su di una tela lunga e molto stretta; rappresenta un cadavere – non importa di chi, almeno non ora. Visibili sono i segni di un martirio e altrettanto visibile è l’inizio della putrefazione della carne. Le mani e i piedi sono di colore viola, la mano destra è rattrappita, il volto è consunto, scavato e la bocca aperta, irrigidita, gli occhi infossati, il rigor mortis celebra l’osanna della morte sulla vita. Impossibile credere che questo corpo, di cui il pittore di Augusta ci offre un’icona inquietante eppure sommamente realistica, possa risorgere. Davanti al quadro, la fede si sospende e si pone l’urgenza della comprensione.
La Resurrezione, l’evento pasquale
Quale resurrezione? Quella del corpo, della carne, della membra che sono state attraversate dalla morte, dalla putrescenza della carne stessa. Questa è la promessa di Cristo. E questa era la grande bestemmia che i sadducei imputavano a lui. Su ciò occorre intendersi senza nessuna possibilità di fraintendimento: il greco biblico usa l’espressione anastaseos nekron, che letteralmente significa “rialzarsi dai morti” e il senso di questa espressione va tutta a vantaggio del corpo. È il corpo che risorge: questo mio corpo (uso ‘mio’ proprio in senso husserliano), questa mia carne, attraversata dal dolore fisico, è ciò che risorgerà.
La radicalità della questione è evidente. Si tratta non più di un atto di comprensione, ma di fede. Troppo sbrigativamente si pensa che ciò che risorge è lo spirito, l’anima, ma questo non è il proprium del messaggio cristiano – si pensi già a quanto in Grecia veniva detto in merito alla resurrezione dell’anima. Mi tornano in mente le parole di Sergio Quinzio:
«L’immortalità dell’anima non è una speranza riposta nel Dio che salva, ma è concepita come qualcosa di connaturato all’essenza stessa dell’anima umana, immortale per sua natura. Non c’è bisogno che Dio intervenga per far sì che ciò che è “naturale” naturalisticamente si compia […]. La resurrezione della carne appartiene invece a tutt’altro orizzonte: all’orizzonte di Gerusalemme non a quello di Atene […]. Privata di questa dimensione, non c’è più nessun motivo perché la fede cristiana debba essere preferita ad una qualunque altra concezione umanistica […]. Ma per questa via l’annuncio di salvezza è diventato puramente spirituale, extrastorico ed extraspaziale, ed è uscito dal cuore degli uomini». (Mysterium iniquitatis, p. 41 sg., corsivo mio)
Alla base della considerazione secondo la quale la resurrezione interessa l’anima vi è un’erronea visione cristiana che «distaccando la carne da ciò che è voluto da Dio, e contrapponendola paganamente allo spirito, l’abbiamo abbassata, degradata, condannata come turpe, dimenticando che la carne vuole anzitutto consolazione», dice ancora Quinzio. E tale consolazione è ancora più urgente proprio là dove più grande è stato il dolore, il torto, là dove è manifesta la finitezza, cioè nel corpo. Così, se si pensa alla resurrezione dello spirito, si deve altrettanto pensare e reclamare la resurrezione del corpo, con la stessa passione, lo stesso slancio e la stessa ostinazione con cui siamo disposti ad ammettere la resurrezione dell’anima.
«Riabbracciare un morto uscito dalla tomba, sia il Signore, sia la persona amata, sarà fare l’esperienza della vita e insieme della morte. Morte e risurrezione sono inseparabili: non c’è risurrezione dove non c’è stata morte, ma non c’è nemmeno nessuna morte veramente sofferta fino in fondo, nessuna vera croce, se non c’è speranza di risurrezione» (Mysterium iniquitatis, p. 50, corsivo mio).
Ancora Quinzio ci ricorda, con la sua ostinazione a credere nonostante il Messia tardi ad arrivare, che «la resurrezione dei morti è quanto di più difforme si possa immaginare dall’esperienza comune e dalle ragionevoli aspettative umane. Eppure il Simbolo degli Apostoli afferma la “resurrezione della carne” per “la vita eterna”, e il Credo di Nicea-Costantinopoli afferma la “resurrezione dei morti” per “la vita del mondo che verrà”. Se ci si limitasse a parlare di resurrezione dei morti per la vita eterna, forse sarebbe ancora possibile dare un’interpretazione metaforica di questa verità. Ma dalle formule usate nei due venerandi testi della Chiesa antica risalta l’affermazione che sarà la carne a risuscitare per vivere nel mondo che verrà. E su questo non sono ammesse interpretazioni metaforiche: questa è la promessa di Cristo, il cuore di quell’annuncio cristiano che noi troppo spesso tendiamo a dimenticare, fingendo di non vedere ciò che le Scritture stesse dicono chiaramente» (Mysterium iniquitatis, p. 15, corsivo mio).
Personalmente non credo che questa resurrezione e non il concetto di essa, poiché già come insegnava Hegel, il concetto non tollera l’urto del corpo, della materia debba essere interpretata, ripensata o rinnovata come una delle tante parole guida del cristianesimo alla luce di un’ampia ed ulteriore chiarificazione o ripensamento del divino. Non credo siano in questione i ripensamenti, né le ermeneutiche del sacro – parola sommamente svilita nell’età contemporanea le cui tracce faticano sempre più ad essere viste. Credo piuttosto che se si vuole fare sul serio con il cristianesimo come fatto storico non si possa prescindere dalla considerazione dell’evento pasquale. Con la resurrezione della carne ogni statuto epistemologico con cui dare dignità alla teologia (ammesso che ve ne sia una necessità) fallisce.
Si potrebbe obiettare che altrettanto fallisce la promessa di Cristo: trascorsi ormai più di duemila anni non c’è traccia della resurrezione dei credenti morti, del loro corpo, della loro carne. Non solo: i credenti e gli innocenti tutti continuano a morire, a soffrire, a patire. Cristo tarda a tornare e con questo ritardo millenario, la speranza della resurrezione sembra vana parola. Torno ancora a Quinzio con le sue parole per me significative: mentre aspetto che Cristo torni, «tu aspetti che Dio ti salvi, ma intanto vai a fare la spesa e vai a preparare la minestra».
Dopo duemila anni il racconto della resurrezione e della parusia non reggono. Eppure nella contraddizione che c’è tra questo tardare, il mancato compimento della promessa e la vita che costringe a farci carico delle occupazioni quotidiane e dei nostri vezzi intellettuali, mi ostino a credere e a inciampare nel volto di quell’uomo che è resuscitato nella carne e a interrogarmi intorno alla sua presenza, al suo silenzio, all’urgenza di una sua carezza per redimere il mondo. Come dice Lévinas: «Nessuna lacrima deve andare perduta, nessuna morte deve fare a meno della resurrezione».
Scrive Šestov: «Da noi non accade mai che gli uomini camminino sopra un abisso; da noi si cammina su un terreno solido […]. Da noi non accade mai che un uomo viva in un perpetuo tormento […]. Là (scilicet: nel giardino del Gethsemani), invece, niente è facile, tutto è difficile: non c’è calma, né riposo, ma un’inquietudine eterna. Non c’e sonno, ma una veglia senza fine».
Che sia questo il senso dell’attesa prima che i corpi risorgano?
|
Holbein il Giovane, Il Cristo nella tomba
|
|
|