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Heidegger e il cristianeismo
di Francesca Brencio

25 marzo 2014


«Il presente viene sempre dopo l’avvenire. [...]
L’Inizio è ancora.
Non è alle nostre spalle, come un evento da lungo tempo passato, ma ci sta di fronte, davanti a noi»

Martin Heidegger

I. Heidegger e la religione

Il rapporto che Heidegger ha vissuto per tutta la sua esistenza con la religione è una delle questioni più intime e problematiche di cui si interessa la critica. Riflettere sulla dimensione religiosa in Heidegger è una sfida audace, la quale implica il riconoscimento di alcuni influssi che il suo pensiero accolse. Gadamer ricorda che egli trasse dalla filosofia di Kierkegaard le sue proprie tematiche: «Tuttavia la categoria kierkegaardiana della ripetizione, coniata proprio sulla memoria, sull’illusione di un ritorno dell’identico, divenne sbiadita, dal momento che essa non viene esperita come il paradosso della storicità, come la ripetizione dell’irripetibile, come tempo al di là di ogni tempo. Questa era l’esperienza del tempo che Heidegger riconobbe in Paolo, quella del ritorno di Cristo [...]. Soprattutto dovette trovare una conferma nei discorsi religiosi di Kierkegaard [...]. Non fu con l’aiuto della teologia, bensì nell’allontanamento dalla metafisica e dall’“ontologia” che dominavano la teologia, che la dimensione religiosa di Heidegger cercò il proprio linguaggio». [1]

La famiglia da cui Heidegger proveniva era cattolica, come è noto, e lui stesso venne educato alla religione cattolica. Dopo aver frequentato il ginnasio a Costanza, per un certo periodo fu nell’istituto dei gesuiti a Feldkirch, per poi passare alla frequentazione del Collegio Borromeo di Friburgo. La provenienza del giovane Heidegger da studi teologici è il punto di partenza delle sue indagini sul cristianesimo delle origini e sull’esperienza protocristiana della vita. In particolar modo, egli era interessato all’esperienza del tempo così come veniva percepita e vissuta nelle prime comunità cristiane, con un’insistenza sul tema dell’istante cairologico. I suoi studi su San Paolo volgono per lo più nella direzione della comprensione cristiana della “fine del tempo”. [2]

Il giovane Heidegger, allora brillante assistente di Husserl e più degno rappresentante dell’insegnamento del maestro, approfondisce il suo interesse per la filosofia della religione proprio a seguito delle sue personali vicende. Le numerose biografie su Heidegger insistono concordemente sul fatto che il suo interesse filosofico non fu mai scisso, sin dal suo sorgere, dall’interesse religioso, ma anzi l’uno si configurava come elemento di confronto per l’affermarsi dell’altro. L’incontro con il dogmatico Carl Braig, esponente della teologia sistematica, fu lo stimolo essenziale a Heidegger per la comprensione della tensione fra ontologia e teologia: nel 1909 lo studio di Vom Sein. Abriss der Ontologie (1896) apre ad Heidegger uno spazio di riflessione sul problema dell’essere e della teologia speculativa: «Da lui appresi per la prima volta, durante le passeggiate in cui potevo accompagnarlo, dell’importanza di Schelling e di Hegel per la teologia speculativa nei confronti del sistema concettuale della scolastica. Così nell’orizzonte della mia ricerca si formava la frattura fra ontologia e teologia speculativa come strutture di fondazione della metafisica». [3]

Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza dello studio di Braig per la formazione del pensiero heideggeriano in riferimento alla problematica dell’essere; l’ispirazione platonico-agostiniana e insieme francescana di questo autore è fondamentale per la sua speculazione in riferimento alla differenza ontologica. Successivamente, lo studio dei Discorsi sulla religione di Schleiermacher accrebbero la crisi religiosa che egli iniziò ad attraversare intorno al 1917, per la quale andava propendendo per un “ateismo di principio”; proprio l’attenzione rivolta a Schleiermacher gli permise un’attenta la lettura del testo di Rudolf Otto, Il sacro (1917) che rimarrà un tema privilegiato all’interno del suo Denkweg; la costante frequentazione di Meister Eckhart, di Susone, di Taulero e di Bernardo di Chiaravalle andarono ad arricchire e problematizzare il suo costante interesse religioso.

Nel 1916 la non ammissione del giovane filosofo nei gesuiti, per scarsa idoneità fisica, il progressivo allontanamento dalla diocesi arcivescovile di Friburgo si andava accompagnando ad un incontro decisivo nella sua vita: nell’estate dello stesso anno egli frequenta la giovane studentessa di economia politica dell’Università di Friburgo Elfride Petri, di confessione evangelico-luterana, sua sposa nell’anno seguente. Forse anche questa diversità di confessioni contribuì all’allontanamento di Heidegger dal cattolicesimo. [4]

Nel 1918 Krebs, professore di dogmatica a Friburgo, amico di Heidegger e della neo sposa, annota nel suo diario un colloquio avvenuto tra Elfride Heidegger e lui stesso, in cui Elfride disse:
«Mio marito non possiede più la sua fede religiosa, e io non l’ho mai trovata. Fin da quando ci siamo sposati la sua fede era minata da dubbi, ma io sollecitavo il matrimonio cattolico e speravo col suo aiuto di trovare la fede. Insieme abbiamo perciò letto molto, parlato, pensato e pregato, e il risultato è che entrambi siamo arrivati solo a pensare come protestanti, vale a dire senza il saldo vincolo del dogma; crediamo in un dio personale, lo preghiamo nello spirito di Cristo, ma senza l’ortodossia né protestante né cattolica». [5]
È proprio nel 1919 che si consuma l’abbandono della fede e l’adesione al cattolicesimo, così emerge dalla lettera all’amico sacerdote Krebs del 9 Gennaio 1919:
«Le mie convinzioni sul piano gnoseologico, che si estendono alla teoria della conoscenza storica, hanno reso per me problematico e inaccettabile il sistema del cattolicesimo — non il cristianesimo e la metafisica in quanto tale, determinazioni che però hanno assunto un senso nuovo […]. È difficile vivere come filosofo: l’intimo amore per la verità, nei confronti di se stessi e in relazione a coloro per i quali si deve essere insegnanti, pretende sacrifici, rinunce e lotte che restano sempre estranei alla ricerca scientifica. Credo di possedere la vocazione interiore per la filosofia e per la sua realizzazione nella ricerca e nell’insegnamento, orientati alla definizione esterna dell’uomo in quanto tale; solo in virtù di questo credo di poter compiere ciò che è nelle mie forze e in questo modo giustificare davanti a Dio la mia esistenza e operato». [6]
In un curriculum vitae da lui stesso scritto nel 1922 e spedito al Prof. Georg Misch egli scrive: «A quel tempo il mio rapporto con la ricerca fenomenologica era ancora incerto. Nei principi che ispiravano il mio orientamento scientifico ritenevo ancora conciliabile la ricerca scientifica con un cattolicesimo liberamente inteso, nel senso di un interesse puramente storico per la storia spirituale del Medioevo. Sottovalutavo ancora la portata che il necessario approfondimento delle domande prime deve necessariamente avere in vista di una storia dei problemi filosofici […]. Sin dall’inizio della mia attività accademica mi fu chiaro che un’indagine autenticamente scientifica, libera da ogni riserva e da qualsiasi vincolo occulto non è possibile continuando a essere realmente fedeli al punto di vista della fede cattolica. Per me stesso, nella mia ininterrotta occupazione con il Cristianesimo delle origini, nel senso della moderna scuola di storia della religione, questo stesso era diventato insostenibile. Le mie lezioni furono proibite agli studenti di teologia». [7]

La formazione del Denkweg heideggeriano in direzione dell’ontologia come suo traguardo ultimo avviene già presto; nella sua presentazione in occasione dell’ammissione all’Accademia delle Scienze di Heidelberg, Heidegger scrisse: «Nell’anno 1907 un amico paterno, Conrad Gröber, ex arcivescovo di Friburgo, mio compaesano, mi mise in mano la dissertazione di Brentano, Sul molteplice significato dell’essere secondo Aristotele (1862). Le numerose e piuttosto estese citazioni in greco fanno per me le veci delle edizioni di Aristotele che ancora non posseggo, ma che un anno fa si trovavano sulla mia scrivania, prese in prestito dalla biblioteca dell’internato. La questione dell’“Uno e del Molteplice nell’Essere” che allora mi si presentò in modo oscuro, vacillante e incerto, resta, tra inversioni di marcia, percorsi sbagliati e perplessità, il motivo incalzante e inesausto del trattato Sein und Zeit apparso due decenni più tardi». [8]

Alla luce di queste preliminari considerazioni e proprio in virtù di questa impossibilità di scindere il fronte ontologico da quello esistenziale, appare ancora più problematico affrontare il tema del rapporto fra filosofia e teologia in Heidegger.

Dopo la fine dei sistemi forti, cioè di quelle speculazioni in grado di spiegare, giustificare e fondare la realtà more geometrico, la “morte di Dio” occupa un posto privilegiato nella speculazione novecentesca: teorizzazione hegeliana, aforisma nietzscheano, visione del mondo, impasse metafisica contro cui il filosofare stesso si è imbattuto e ha dovuto rimettersi in discussione per cercare di rispondere all’interrogativo che nasceva dal vuoto occupato dal fondamento, come origine del tutto, da ogni fondamento, sia esso religioso, trascendente o metafisico. Proprio il vuoto rivelato da questa scoperta, definita da Nietzsche come il “più grande evento recente”, mostra la caduta di quella volta del paradiso, cioè di quel cielo che copriva un mondo ordinato secondo categorie predeterminate metafisicamente dove l’uomo per secoli aveva abitato, almeno intellettualmente; con la “morte di Dio” «il “soprasensibile”, l’“aldilà” e il “cielo” sono stati annientati, rimane soltanto la terra». [9] Heidegger sembra essere uno degli ultimi filosofi a far cadere l’ultimo frammento di questa volta celeste. E in tal senso l’esito della sua riflessione ontologica rischia di apparire come un messaggio “di povertà”, con uno scarto esistenziale prima e teoretico dopo, che rimaneva ignoto alla sua interpretazione della poesia. Se, infatti, in questa sua interpretazione egli riservava alla poesia il compito di custodire e cantare il ritorno della pienezza, proprio questo era il compito ultimo che la poesia doveva assolvere; contrariamente, alla filosofia appare difficile attendere questa pienezza e patirne l’assenza. «La filosofia è giunta alla fine […]. Nella fine della filosofia si compie quella direttiva che, sin dal suo inizio, il pensiero filosofico segue lungo il cammino della propria storia. Alla fine della filosofia il problema dell’ultima possibilità del suo pensiero diviene affare serio». [10]

Se la “morte di Dio” rappresenta lo sprofondarsi della verità prima — sia essa religiosa che metafisica — nell’immanenza, nel finito, la “fine della filosofia” rappresenta l’impossibilità stessa di ridurre il pensare unicamente all’ambito del finito, creando così uno iato insuperabile che caratterizza tanta parte della riflessione contemporanea. [11] Questa duplice impossibilità da parte del pensiero, cioè impossibilità sia di essere unicamente pensiero del finito sia di essere sostenuto dal finito stesso, caratterizza in modo radicale e unico quella che Heidegger chiama la “fine della filosofia”, rendendo la fine stessa una “fine senza fine”. «La filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare nel pensare e nel poetare una disponibilità all’apparizione del Dio o all’assenza del dio nel tramonto». [12]

In questa “fine senza fine” anche Dio è chiamato in causa come parte assente, come figura lontana dall’uomo, il quale appare sempre di più in attesa del suo ritorno. In questo stato di cose, di attesa che attende il suo proprio compimento, l’uomo fa esperienza della sdivinizzazione, cioè di quello «stato di indecisione rispetto a Dio e agli Dei» [13] che priva le cose del loro valore, del loro senso ultimo. Se è vero che il mondo e la realtà tutta possiedono un valore ultimo, trascendente rispetto alla materialità che li contraddistingue, questo senso ultimo è ciò di cui è privato l’uomo contemporaneo nell’esperienza della sdivinizzazione, la quale sottolinea così quel vuoto che circonda tutta la realtà. Questa sdivinizzazione «esclude così poco la religiosità, che è proprio attraverso la sdivinizzazione che il rapporto agli dei si trasforma in esperienza vissuta religiosa». [14] Essa perciò non è un concetto aporetico, bensì ancipite: se da un lato non indica l’ateismo grossolano, bensì «il processo per cui l’immagine del mondo si cristianizza, ponendo a base del mondo l’infinito, l’incondizionato, l’assoluto», [15] dall’altro permette al cristianesimo di intendere «la sua cristianità come visione del mondo», rendendosi così moderno. La sdivinizzazione quindi non si configura come un concetto con cui coprire gli esiti individualistici dell’ontologia fondamentale heideggeriana, piuttosto solleva un interrogativo che smaschera ogni fede inautentica: «La presunta fede ontica in Dio non è in fondo un ateismo? E l’autentico metafisico non è più religioso dei fedeli, dei membri abituali di una “chiesa” o addirittura dei “teologi” di ogni confessione?». [16]

In tal senso, forse, si può dire che Heidegger non si sia sottratto alla considerazione del problema della fede in stretto riferimento a quanto la secolarizzazione del cristianesimo, consumatasi nel corso del XIX secolo, ha prodotto, anche se poi egli non ha mai manifestato l’intenzione di percorrere fino in fondo questa via, confrontandosi direttamente con il problema di Dio e del suo rapporto con l’uomo. Eppure, nel suo silenzio, Heidegger ha posto molti interrogativi alla teologia a lui contemporanea, sottolineando quei limiti che proprio la filosofia e la teologia hanno tracciato. Quasi per una sorta di implosione del pensiero su se stesso, a seguito di una volontà di “positività”, di dare cioè una fondazione razionale alla stessa fede e al religioso, la teologia come scienza positiva è diventata bisognosa della filosofia, di quella stessa filosofia che per secoli ha messo alla porta e che ha giudicato inadeguata.

«Della filosofia» — scrive Heidegger — «non ha bisogno la fede, ma la scienza della fede in quanto scienza positiva […]. La scienza positiva della fede ha bisogno della filosofia […] solo in rapporto alla sua scientificità, e anche questo in un modo che, pur essendo fondamentale, ha dei limiti particolari. In quanto scienza, la teologia sottostà all’esigenza di legittimare e di adeguare i suoi concetti all’ente della cui interpretazione si è fatta carico. Ma l’ente che i concetti teologici devono interpretare non è appunto svelato esclusivamente dalla fede, per la fede e nella fede?». [17]

La messa in questione di un certo sapere teologico proprio della filosofia cristiana, avviene perciò alla luce della critica che Heidegger opera nei confronti della stessa filosofia cristiana, «una specie di “ferro ligneo” e un malinteso», [18] dal momento che «la fede è quell’esistere che comprende credendo e, ponendosi nella storia, si manifesta, cioè accade, col crocifisso», [19] e quindi non necessita di alcuna filosofia. Tanto Hegel quanto Heidegger hanno ricondotto entro i confini del logos filosofico ciò che consideravano il nucleo essenziale della fede cristiana; ma, mentre per il primo esso consisteva nel dogma dell’unità dell’umano e del divino, per il secondo era l’attesa di un’imminente fine dei tempi (di un compimento definitivo e irreversibile della storia), in altri termini la proiezione, nel linguaggio del mito, dell’esperienza e del pensiero della morte. [20]


II. Introduzione alla fenomenologia della religione

Nel semestre invernale 1920/21 Martin Heidegger tenne all’Università di Freiburg il corso «Introduzione alla fenomenologia della religione». Il testo pubblicato [21] è costituito da due parti di uguale estensione: la prima è un’«introduzione metodica», cioè un’«introduzione» a un’«introduzione», mentre la seconda è l’«esplicazione [Explikation] fenomenologica dell’esperienza cristiana della vita», quale risulta dalle Lettere di Paolo di Tarso, in particolare da quella ai Galati e soprattutto dalle due Lettere ai Tessalonicesi. Attraverso il metodo fenomenologico, il giovane Heidegger vuole riportare la filosofia alle fonti primarie dell’esistenza, dal momento che essa non è altro che «ritorno allo storico-originario [Rückgang ins Urspünglich-Historisch ist die Philosophie]». [22]

Il primo confronto della fenomenologia, intesa non solo come metodo ma anche come vera e propria filosofia, è dunque con Paolo di Tarso e l’elemento storico di cui le sue Lettere trattano. Impegnarsi filosoficamente con Paolo su ciò che è «storico» vuol dire incontrare nelle lettere paoline una testimonianza di vita non conforme a quanto narrano i Vangeli sinottici. Paolo non nasce cristiano né conosce personalmente Cristo, ma diventa cristiano [Gewordensein]: l’ebreo Saulo compie un’esperienza di fede e di vita così radicale che muta il segno della sua esistenza e consegna questa stessa esperienza ai destinatari delle sue lettere. In queste il contenuto soteriologico (la parousia di Gesù) si accompagna alla dimensione strettamente personale (“Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”, scrive in 1 Co 15, 12-16) e si staglia sullo scenario escatologico della temporalità storica (il kairós). Il tempo di cui Paolo, l’ebreo in lotta con se stesso e con la sua gente, narra è il tempo giusto, il kairós, per un divenire autenticamente vivente e vissuto. Ogni altro tempo, greco o moderno, non è che un «ordinamento» [Einstellung] di fatti neutri all’interno di un’«oggettività» estranea al divenire che è proprio della vita.

Questa radicalità dell’esperienza del tempo e della storicità della vita è così piena e fondante in Paolo che Heidegger non scorge qualcosa simile nemmeno in Agostino, nonostante il libro X delle Confessiones. Sebbene proprio nel semestre estivo dell’anno seguente (1921) egli terrà il corso su Agostino e il Neoplatonismo, tuttavia Heidegger scorge nel filosofo di Ippona l’inclinazione a non emanciparsi dall’«oggettività» greca: «Oggettività di Dio. Deus lux, dilectio, summum bonum, incommutabilis substantia, summa pulchritudo. […] In definitiva l’esplicazione dell’esperienza di Dio in Agostino è specificamente “greca” (nel senso in cui anche tutta la nostra filosofia è ancora “greca”). Non si perviene a una problematizzazione critica radicale, a una considerazione originaria (distruzione)». [23]

Agostino rivelerebbe, agli occhi di Heidegger, il bisogno di fare del tempo un «oggetto», bisogno questo del tutto estraneo a Paolo. Agostino collocherebbe il tempo in un «ordine» al quale resta estraneo il tempo vissuto da chi, «divenuto» cristiano, vive il tempo nell’imminenza e nell’attesa del ritorno di Cristo. Questo tempo non ha bisogno di altro quadro di riferimento che non sia il tempo stesso di un’attesa che, proprio in quanto non bisognosa di alcuna fissazione temporale, è già presenza, tempo compiuto; la religiosità cristiana vive la temporalità come tale: è un tempo senza un proprio ordine e senza posti certi. Questa temporalità è impossibile incontrarla a partire da un qualsiasi concetto oggettivo del tempo. Il “quando” non è in alcun modo comprensibile oggettivamente». [24]

Nel suo incontro con Paolo, Heidegger si sofferma su due concetti guida della sua fede e della conseguente teologia: il kairós e l’attesa. Paolo è infatti colui che, pur vivendo il tempo giusto per la propria vita e per la storia, il kairós, rimane in attesa e narra della vicinanza del ritorno glorioso di Cristo. Tutta la storia, a partire dalla promessa del ritorno, diventa così storia dell’attesa, ermeneutica dei segni che narrano l’avvento del Regno di Dio. In questo attendere, in questo esser vicini, Paolo ricorda ai “fratelli nella fede in Cristo” che il naufragio del tempo è l’inveramento del tempo; è proprio nella prima lettera alla comunità dei Tessalonicesi che Paolo scrive: «Quanto ai tempi e ai momenti, non avete bisogno, fratelli, che qualcuno ve ne scriva. Sapete voi stessi esattamente che il giorno del Signore viene come un ladro nella notte. [...] Non apparteniamo alla notte e alla tenebra: dunque non dormiamo come gli altri, ma rimaniamo svegli e sobri» (1 Ts 5, 1-7).

Se l’attesa è il perimetro di cui si alimenta la fede nella promessa (“Spe salvi facti sumus” Rm 8, 24), allora il ritardo nella ritorno del Messia è la prova della fede. Già nella seconda lettera ai Tessalonicesi Paolo introduce questo «fattore di ritardo» della venuta del giorno del Signore, e per scongiurare il pericolo di un vano agitarsi nella spasmodica attesa della fine o di un lassismo attendista dalle disastrose conseguenze morali e sociali, egli rassicura i credenti, forse eccessivamente turbati dall’imminenza ed imprevedibilità dell’avvento del Regno proclamate nella prima lettera, affermando che «prima dovranno avvenire l’apostasia e manifestarsi l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’avversario che s’innalza sopra tutto ciò che porta il nome di Dio o riceve culto, tanto da sedersi nel tempio di Dio, mostrandosi come se fosse Dio» (II Tes 2, 3-4). Paolo è, dunque, costretto ad introdurre un «tempo intermedio», relativamente stabile e definito, se pure breve.

L’interpretazione heideggeriana del cristianesimo delle origini è stata valutata dai primi commentatori in modo molto aspro, come una appropriazione strumentale di un determinato fenomeno funzionale al progetto dell’ontologia pensato in Sein und Zeit; secondo alcuni commentatori, il rischio dell’interpretazione heideggeriana era quello di svuotare alcuni tratti caratteristici dell’escatologia cristiana. [25] In realtà, a mio avviso, il rapporto di Heidegger con il cristianesimo paolino e con la tradizione apocalittico-gnostica è molto più complesso.

L’esperienza della cristianità delle origini è per Heidegger la grande immagine storica della discontinuità del tempo, il primo atto di radicale sovversione ‘esistenziale’ della temporalità così come essa si era costituita all’interno della metafisica platonico-aristotelica poi dominante in tutta la storia dell’Occidente. Il kairós paolino è l’inserimento dell’eternità nel tempo cronologico, è lo squarcio dell’essere. [26] Vivere intimamente questa temporalità significa, come nelle prime comunità cristiane, de-cidersi per il più radicale «abbandono del tempo»; ciò necessita un’apertura all’evento in quanto avvento della promessa e una «vigilanza estrema» a cui Paolo richiama incessantemente i fedeli (analoghi appelli alla vigilanza si ritrovano nei vangeli: Lc 12, 35-40; Mt 24, 42-51 e nell’Apocalisse di Giovanni: «Ecco, vengo come un ladro. Beato chi si tiene sveglio» — Ap 16, 15).

L’interesse di Heidegger si concentra proprio sulla perfetta confluenza del fenomeno religioso con la temporalità messianica e la vigilanza estrema. Egli, infatti, così enuncia le due determinazioni fondamentali della religiosità del cristianesimo delle origini: «1. La religiosità protocristiana si dà nell’esperienza protocristiana della vita ed è essa stessa un’esperienza siffatta. 2. L’esperienza effettiva della vita è storica [historisch]. La religiosità cristiana vive la temporalità in quanto tale». [27] In particolare Heidegger si sofferma sull’annuncio dell’evento pasquale: l’annuncio della parousia non è altro che la manifestazione di un “angoscioso presagio” che getta l’uomo in una situazione di necessità [Not] e di assoluto allontanamento dal mondo. L’annuncio di Paolo, la buona novella di Gesù, è la promessa verso un’apertura che è avvenire. Proprio nell’accogliere tale annuncio si compie la trasformazione del singolo, la trasformazione della sua esistenza, decidendosi per la fede. In ciò Heidegger vede il carattere fondamentale dell’esperienza di vita del proto-cristianesimo ed in ciò consiste la decisiva attuazione della vita [Vollzug des Lebens]: «Credere significa decidersi. Il filosofare invece significa solo un libero interrogare sulle possibilità, sui rapporti esistenziali dell’esserci come tale». [28]


III. La prima lettera ai Tessalonicesi di S. Paolo

Nel corso del 1920/21 Heidegger si confronta con due lettere paoline: le due lettere ai Tessalonicesi e la lettera ai Galati.

La prima lettera ai Tessalonicesi è datata tra il 50 e il 51 d. C. e fu inviata da Corinto ai fratelli della comunità di Tessalonica. In entrambe le lettere ai Tessalonicesi Paolo è consapevole di essere «storico»: egli sa, cioè, che questo suo sapere e sapersi era impossibile prima della morte e resurrezione di Cristo. Questa sua consapevolezza è accompagnata dalla certezza di sapere che la storicità di questa «vita nuova» non è un suo privilegio personale, ma un’«esperienza effettiva di vita» che egli con-vive con tutti quelli che vivono la sua fede.

Heidegger sottolinea l’insistenza con cui Paolo collega il «sapere» dei Tessalonicesi al loro «essere divenuti». Il loro non è un sapere astratto, universale, eterno; è invece un’esperienza «fattuale», propria di chi vive di fede, è soprattutto un’esperienza che non teme il tempo ma che anzi lo vive e lo tiene vivo, perché proprio questo tempo è per loro di vitale importanza. Se non mantenessero vivo il loro essere divenuti, e se dunque non continuassero a guardarsi dalla tentazione di farne un «oggetto» da incasellare in una «teoria», verrebbe meno anche il loro «sapere» e con questo verrebbe meno anche il loro vivere, dato che «il loro essere-diventati [Gewordensein] è il loro essere attuale». [29]

Heidegger indirizza l’attenzione al «modo» [wie] con cui Paolo e i Tessalonicesi danno senso al fatto [Gehaltssinn] che ha cambiato loro la vita, e al «modo» con cui essi si pongono conseguentemente in rapporto [Bezugssinn] con se stessi, con gli altri, con Dio. Questo cambiamento non può essere «esplicato» in altro modo che facendo ricorso al metodo fenomenologico. Infatti, quando Paolo si congratula con i Tessalonicesi per il loro essersi «allontanati dagli idoli per servire Dio» (1 Ts 1, 11), Heidegger può cogliere, nel modo con cui avviene questa conversione, non tanto il semplice passare dal culto degli idoli a quello del vero Dio, ma il vero modo di rapportarsi a Dio. L’abbandono degli idoli è solo il corollario, e in questo senso non ciò che è decisivo, di una conversione più profonda, che consiste nel non rapportarsi più a Dio come a un «oggetto»: «Il rivolgersi a Dio è la cosa primaria. Da ciò, e insieme a ciò, si determina l’allontanarsi dagli εἰδωλα. Questo allontanarsi è secondario […]. Per l’esplicazione si dà il compito di determinare il senso dell’oggettività di Dio. Se Dio viene inteso come oggetto della speculazione, allora siamo di fronte a una caduta dall’autentico comprendere. Ciò lo si può percepire se si esegue l’esplicazione del contesto concettuale. Ma questo non è mai stato tentato poiché la filosofia greca si è introdotta nel cristianesimo. Solo Lutero ha fatto un tentativo in tale direzione, e da questo ci si spiega il suo odio per Aristotele». [30] Questo non pensare a Dio nei termini di un oggetto vuol dire, per Heidegger, non inserirlo nell’ordinamento [Einstellung] temporale, non conciliare la sua esistenza con gli oggetti che occupano il nostro mondo. La pensabilità di Dio nei termini di non oggettività sta tutta nella sua trascendenza e solo allorquando l’uomo si rivolge a Dio nella sua irriducibile trascendenza si dà la storicità dell’esistere. Parafrasando Kierkegaard, lo scandalo cristiano è la salvezza dell’esistenza nel tempo.

Perché Heidegger si interessa così attentamente a questa lettera?

Perché Paolo è, secondo Heidegger, maestro di fenomenologia in materia di temporalità cristiana. Il tempo cristiano è vissuto come un attendere che non è legato a un «quando» oggettivo, e per questo può essere un attendere che già ora è un incondizionato servire «il Dio vivo e vero» nel non ancora del suo ritorno. La storicità di Paolo si fonda sulla parousia, la sua temporalità si dis-vela nell’apertura della rivelazione che si sposta sempre più oltre nell’orizzonte della temporalità. La parousia è incompatibile con ogni fuga dal tempo vissuto: il “quando” del ritorno del Messia non trova posto in quella storicità che sfugge dai calcoli della mondanità. «Paolo non risponde alla domanda in senso mondano. Si tiene del tutto lontano da un procedere concernente l’aspetto conoscitivo, ma non per questo dice che la faccenda sia inconoscibile. Paolo compie la risposta mettendo l’un contro l’altro due modi di vivere: ὅταν λέγωσιν ί (v. 3), e ὑμεîς δ ί (v. 4). È decisivo come io mi rapporto a questo nella vita autentica. Da ciò viene il senso del “quando?”». [31] Lo scacco della dimensione del calcolo, dell’interesse, del tornaconto, della certezza è il centro della storicità del cristiano: «Per il vivere cristiano non si dà nessuna sicurezza; la costante insicurezza è anche ciò che è caratteristico per le significatività del vivere fattuale. La dimensione dell’insicuro non è casuale, ma necessaria. Questa necessità non è logica o naturale. Per vederci chiaro si deve riflettere sulla propria vita e sul suo compimento». [32]

Secondo Heidegger, Paolo, nel suo rapportarsi ai fedeli, fa esperienza della loro mutata condizione esistenziale [das Gewordensein] e, contemporaneamente, della loro consapevolezza di questo cambiamento. Questo particolare tipo di sapere, che scaturisce dalla «situazione» dell’esperienza cristiana di vita, determina il senso della effettività, su cui Heidegger sarebbe tornato nel semestre estivo del 1923 dedicato all’ermeneutica dell’effettività. «L’essere divenuti [das Gewordensein] non è un avvenimento qualsiasi nella vita, bensì è costantemente co-esperito, in modo che il loro essere attuale è il loro essere divenuti. Il loro essere divenuti è il loro essere attuale». [33] Il Gewordensein viene, quindi, identificato con l’accettazione dell’annuncio che avviene nella «più grande afflizione», ma tale accettazione consiste per i cristiani anche nel ricevere, come dono insperato, la gioia dello Spirito Santo (1 Ts 1, 6). L’accogliere l’annuncio comporta, dunque, nient’altro che un radicale rivolgimento [Umwendung] del modo di comportarsi nella vita effettiva e Paolo attribuisce ciò alla nuova posizione che i credenti assumono al cospetto di Dio. Accogliere l’annuncio consiste, infine, nell’accedere ad una condizione di emergenza, necessità e bisogno della vita [34] [Not des Lebens] che sopraggiunge immancabilmente non appena si è prestato ascolto alla chiamata.

Il mutamento di cui i Tessalonicesi sono consapevoli e di cui Paolo si rallegra (1 Ts 2; 3) indica l’essere divenuti sensibili a tale angosciosa emergenza che si esprime nell’apprensione per il ritardo del ritorno del Signore. Questa apprensione [Bedrängnis], in cui risiede l’essenziale della cristianità al di là di qualunque principio teologico, e che può apparire come insicurezza, smarrimento e debolezza, è, invece, la sua vera potenza rivoluzionaria, poiché in essa si concentrano i germi della rivolta escatologica del mondo.

Ma «fino a quando» durerà tale angoscia?

A questa domanda Paolo non risponde attraverso un calcolo cronologico del tempo che ancora manca all’avvento del giorno del Signore, piuttosto egli si limita ad ammaestrare sul modo in cui va vissuta l’attesa e sostenuta l’angoscia del tempo della fine (1 Ts 5, 1-12): «Decisivo è il modo in cui mi rapporto a ciò nella vita autentica [eigentlichen]. Ne risulta il senso del «quando», il tempo e l’attimo». [35] La domanda sul «quando» della parousia non è una questione conoscitiva; essa, piuttosto, rimanda a quel particolare sapere dell’autocomprensione esistenziale che i Tessalonicesi posseggono in quanto Gewordene, ossia in quanto colpiti e trasfigurati dall’annuncio, per cui ciò che è decisivo in tale domanda dipende dalla vita nella sua irriducibile effettività. Il «quando» della parousia viene riassorbito nel «come» della vita effettiva; esso rimanda sempre ad una decisione sul proprio esserci che può esplicarsi secondo due modalità corrispondenti a due forme dell’attuazione della vita, una autentica e l’altra inautentica. Scrive Heidegger, commentando il quinto paragrafo della prima lettera ai Tessalonicesi: «Coloro che in questo mondo trovano quiete e sicurezza sono coloro che si attaccano al mondo, poiché esso offre loro pace e sicurezza. [...] Il loro attendere si assorbe in ciò che la vita arreca loro. E poiché vivono in questa attesa, la rovina li colpisce in modo che non possono sfuggirle. Non possono salvare se stessi perché non hanno se stessi, perché hanno dimenticato il proprio sé; perché non hanno se stessi nella chiarezza del sapere autentico». [36]

I primi cristiani, nella loro religiosità, vivono una temporalità escatologica; vivere tale temporalità significa rinunciare a qualunque sicurezza e accettare la più assoluta precarietà ed irrisolvibile problematicità.


IV. La seconda lettera ai Tessalonicesi e la lettera ai Galati

La seconda lettera ai Tessalonicesi è datata 51 d. C. ed è inviata da Corinto. Essa è tutta centrata sulla visibilità nel tempo dell’evento escatologico che metterà fine al tempo. Nell’interpretarla Heidegger critica aspramente la tradizione esegetica che ha visto nell’introduzione dei segni preliminari della parousia del Signore un venir meno dell’angosciosa incombenza della parusia: per Heidegger, invece, nella seconda lettera non vi è nessun ridimensionamento del messaggio escatologico, anzi in essa si trova una tensione ancora maggiore: «Tutta la lettera è ancora più angustiante della prima, e non comunica un ripensamento, bensì un’accresciuta tensione». [37] L’aspetto teoretico-dogmatico di questa lettera è del tutto dipendente dall’attuazione dell’esperienza cristiana di vita e dal suo contesto spirituale. È su questo piano, infatti, che i cristiani si rapportano agli eventi escatologici e non su un piano meramente teoretico-dottrinale. L’accettazione o il rifiuto della chiamata avvengono sempre con una decisione che si colloca all’interno della situazione determinata dalla tensione dell’attesa e dalla cura che tale situazione richiede.

Proprio dal momento che l’Anticristo con i suoi prodigi e sconvolgimenti dà la «sensazione» della parousia — così come gli idoli si spacciano per Dio — esso costituisce l’estrema prova cui i credenti sono sottoposti. La sua apparizione illumina la tendenza deiettiva [abfallende] della vita, quella cioè, secondo cui, l’attesa della parousia viene intesa solo in termini oggettivi; essa, allora, non è solo un accadimento temporaneo, ma qualcosa in cui si decide il destino di ognuno. Coloro che si abbandonano [sich verfallen] all’Anticristo, vanno in rovina [verfallen] in quanto perdono la possibilità di esperire pienamente l’effettività della vita. Coloro, invece, che vivono l’attesa secondo il senso dell’attuazione [Vollzugssinn] della vita effettiva riescono a riconoscere l’inganno dell’Anticristo.

È proprio nel confronto con la concezione paolina dell’avvento dell’Anticristo che maturano i primi germi della nozione heideggeriana di Ereignis. Per Paolo, infatti, l’evento, a differenza dei semplici «fatti», non rientra nella storia ma è grazia [charis], donazione pura; esso non può essere né conosciuto né previsto in alcun modo, ad esso si può solo prestare fede. L’evento è consegnato all’incertezza dell’accettazione da parte dei fedeli che da esso vengono interpellati: esso è nudo, senza prove, senza miracoli, senza segni irrevocabilmente probanti. La precarietà e fragilità dell’evento, così inteso, è descritta dalla celebre immagine che si trova in 2 Cor 4, 7: «Ma questo tesoro l’abbiamo in vasi di coccio, affinché questa potenza smisurata sia quella di Dio e non provenga da noi». Il tesoro è l’evento della grazia che coloro che sono stati chiamati devono umilmente custodire e mantenere proprio nella sua estrema fragilità, senza credere di poter fondare su di esso una qualunque solida certezza o legge vincolante. La supremazia della grazia sulla legge, su cui insiste in più luoghi Paolo, si realizza tramite la sua «sovrabbondanza» nei confronti del peccato. Questo carattere di sovrabbondanza, di eccedenza della grazia rispetto alle costrizioni della legge, che Paolo scorge soprattutto nell’evento fondante della resurrezione di Cristo, diverrà, attraverso la mediazione del ripensamento della alétheia, uno dei tratti più importanti della figura heideggeriana dell’Ereignis.

Come poter dare senso positivo a un «compimento» che apparentemente è un ritrarsi?

Ciò è possibile se si considera che l’esperienza cristiana implica la «tribolazione». Il ritrarsi dal mondano è in tal senso un «essere divenuto», un’intensificazione di un vivere che per questo nulla perde del vissuto precedente. I pregressi rapporti con il mondo non vengono intaccati; vengono anzi conservati nell’orizzonte dell’autentica temporalità. Il «non» del «come se non», λ᾽ὡϛ μή, esprime questo loro essere divenuti che dà un senso del tutto nuovo a ciò che resta, dato che proprio il «restare» nel mondo ha acquisito un nuovo senso: «Il γεσέσϑαι è un μένειν. Nonostante ogni genere di trasformazione qualcosa resta. In che senso è da intendere il restare? Forse che il senso del restare, per quanto concerne il che cosa e il come, viene preso dentro nel divenire in modo che esso si determina proprio a partire dall’essere divenuto? Si mostra con ciò una caratteristica configurazione di senso: questi rapporti al mondo ambiente non ricevono il loro senso dalla significatività contenutistica verso cui si dirigono, ma al contrario il rapporto e il senso della significatività vissuta si determinano a partire dal compimento originario. Schematicamente: qualcosa resta immutato, e tuttavia viene radicalmente mutato». [38]

La temporalità cristiana è un’esperienza inaudita e irriducibile alle categorie dell’«oggettività». Lo schiavo divenuto cristiano resta schiavo per tutto quanto riguarda il mondo che lo circonda, ma radicalmente diverso è il modo con cui lui vive il tempo del suo restare uno schiavo. Questa sua condizione resta quella di prima, ma diventa anche radicalmente diversa in quanto vissuta nel tempo in senso nuovo, anzi in un senso per la prima volta autenticamente «temporale». Ciò non equivale a fuggire dal tempo per rifugiarsi nell’eterno, ma è «a partire dall’essere divenuto che le significatività concernenti il mondo ambiente diventano beni temporali. Il senso della fattualità rivolta in questa direzione si determina come temporalità. Finora il senso del rapporto con il mondo ambiente e il mondo degli altri fu determinato in modo puramente negativo. Ma dato che questi rapporti non hanno la possibilità di motivare il senso arcontico della religiosità dei primi cristiani, ecco che sorge la domanda positiva circa il rapporto del cristiano con il mondo-ambiente e il mondo degli altri». [39]

Vivere la temporalità cristiana significa poter fruire della possibilità, che questa sola sa donare, di rendere urgente ogni attimo di vita. Il «compimento» diviene il dovere di vivere fino in fondo tutto il tempo che ancora è dato al cristiano nell’attesa che appaia di nuovo il messia già apparso: «Resta solo ancora poco tempo. Il cristiano vive costantemente nel “solo ancora” che innalza la sua tribolazione. La temporalità compressa è costitutiva per la religiosità cristiana: un “solo ancora”; non c’è più tempo per dilazionare. I cristiani devono essere tali che quelli che hanno una moglie l’hanno a tal punto da non averla». [40]

La lettera ai Galati venne composta tra il 56/57 d. C. ed è di incerta collocazione geografica: non si sa se Paolo si trovasse ad Efeso, a Corinto o in Macedonia. Essa contiene un resoconto storico della conversione di Paolo e della lotta intestina fra fede e legge. Tutta la lettera è segnata dalla lotta: Paolo è in lotta: la sua esperienza di vita cristiana lo pone in contrasto con il mondo circostante, con la sua gente.

Di questa lettera Heidegger si limita a elencare i versetti in cui è esplicito il vissuto di chi la scrive. Là dove Paolo afferma: «In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio» (Gal 2, 19), Heidegger stringatamente commenta: «Molto importante! Forma concentrata di tutta la dogmatica paolina. ἀπέϑανεν νόμῳ διά νόμου soltanto eticamente [bloß etisch]. Dato che Cristo è divenuto identico con la legge, ecco che la legge è morta con lui (e ugualmente Paolo)». [41]

Nel vissuto di Paolo si è prodotto come un reale morire. Egli ha vissuto il morire in Cristo, non un morire qualsiasi, ma il morire alla «legge»: a qualcosa che pretende di valere a prescindere dal tempo, o meglio per paura del tempo. Paolo vive il tempo in quanto muore a ciò che vorrebbe fare morire il tempo. Questo morire a una legge di morte è quel vivere il tempo che trae costante alimento dalla fede in Cristo morto in croce. La morte di Cristo non è una morte qualsiasi: è, come Paolo afferma in Gal 5, 11, uno scandalo: «τὸ σκάνδαλον τοῦ σταυροῦ: Questo è l’autentico elemento fondamentale del cristianesimo, di fronte al quale si dà solo fede o non fede». [42] Se lo scandalo è il fondamento della fede cristiana, allora questa non può consistere in un tranquillizzante tenere per vero, una volta per tutte, fuori dal tempo. La fede basata sullo scandalo della Croce obbliga il credente a vivere il tempo, o meglio gli consente di vivere il tempo, e non più nel tempo insieme con la costante paura del tempo. Non si dà via di mezzo: o «fede» nel tempo o «non fede» insieme con la paura del tempo. Paolo vive la «vita nuova». Non solo. In questa «esperienza di vita» Heidegger coglie non la novità come fatto da aggiungere ai fatti di prima, ma «esplica» lo sbocciare in Paolo della consapevolezza della storicità di tutta la sua vita. La «comprensione storica» è il frutto della morte alla Legge e della vita nella Croce. È una scoperta cristiana. Passato, presente e futuro non sono più quelli di prima. Un vero futuro diventa per la prima volta possibile con il restare operosi nel tempo degli uomini: «Per intendere il comportamento fondamentale di Paolo è da tener presente Fil 3, 135: certezza di sé circa il posto nella sua propria vita — rottura della sua esistenza — originaria comprensione storica del suo sé e del suo esserci. A partire da ciò si compie la sua opera come apostolo e uomo». [43]


V. Conclusioni: il tempo dell’attesa

«Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono», scrive Paolo nella 1 lettera ai Corinzi. La resurrezione di Cristo, l’annuncio pasquale che la parola paolina proclama è il centro del messaggio del cristianesimo. La promessa di Cristo è quella della resurrezione del corpo, della carne, della membra che sono state attraversate dalla morte, dalla putrescenza della carne. Il greco biblico usa l’espressione anastaseos nekron, che letteralmente significa “rialzarsi dai morti” e il senso di questa espressione va tutta a vantaggio del corpo: questo mio corpo, questa mia carne, attraversata dal dolore fisico, è ciò che risorgerà. Questa era la grande bestemmia che i sadducei imputavano a Gesù di Nazareth e che riporta la riflessione sulla resurrezione verso Gerusalemme, distogliendo la mente da quanto la filosofia greca ci ha insegnato: ad Atene, sovente si era parlato di una resurrezione dell’anima e della sua stessa immortalità, ma non così a Gerusalemme, dove poter solo pensare che il corpo potesse risorgere era bestemmiare contro l’Altissimo.

Dinanzi a questo annuncio, di cui la predicazione paolina si fa testimone, si è chiamati alla fede nel tempo dell’attesa. L’attesa è l’unico concetto in grado di fungere da nesso tra la fede, l’ontologia e la filosofia della religione: attesa che assume, all’interno della fenomenologia dell’essere di Heidegger, il tratto dell’Evento, unica “figura” in grado di restituire la pienezza e tale da condurre tutta la storia dell’essere ad una riappropriazione del suo senso originario, realizzando e compiendo il suo mistero. A differenza del poeta che, vate e custode della promessa del ritorno degli dei e della pienezza, realizza il suo compito e in un certo qual modo anche la propria pienezza, il proprio “paradiso”, nel “qui e ora” della custodia della memoria, il filosofo, e più in generale l’uomo, si trova invece sulla soglia del tempo.

«La rappresentazione storiografica della storia come successione dell’accadere impedisce di esperire in che termini la storia autentica è sempre at–tesa in un senso essenziale […]. La storia autentica è at-tesa (Gegen–wart). L’at-tesa è l’avvenire in quanto pretesa dell’iniziale, ossia di ciò che già perdura, che è essenzialmente essente, e della sua celata riunione. L’at–tesa è l’appello del già stato che, a noi diretto, ci riguarda». [44] Proprio alla luce della com-presenzialità che caratterizza il tempo, il futuro si manifesta nell’essente-già-stato. È a tal proposito che la categoria dell’attesa potrebbe risultare svuotata, privata in un certo qual modo di quel senso di mistero e di incognito che invece la caratterizza, riducendosi così a mera riproposizione di ciò che già è stato. In tal senso la riflessione heideggeriana invalida questo eventualità poiché proprio dal riconoscimento del proprium dell’essente stato si può rivelare una autentica possibilità per la comprensione del futuro, e il novum può solo far riferimento all’antico. Se l’attesa rappresenta autenticamente l’unica categoria in grado di penetrare il concetto di salvezza, tuttavia è proprio nell’attendere tale attesa che si consuma lo smarrimento dell’uomo contemporaneo. «La spaesatezza diviene un destino mondiale […]. Ciò che Marx, partendo da Hegel, ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo come alienazione dell’uomo, affonda le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno». [45] Questa spaesatezza caratterizza in toto ogni dimensione dell’essere e dell’agire dell’uomo, senza escludere il pensare stesso: «Il nostro pensiero non ha ancora trovato la sua strada. Incontriamo soltanto divergenti disposizioni del pensiero. Dubbio e disperazione da un lato, cieco fanatismo di principi non dimostrati dall’altro, si fronteggiano contrapponendosi. Paura e angoscia si mescolano a speranza e fiducia». [46]

La riduzione logico-scientifica del pensare, più volte sottolineata da Heidegger, il suo affrancarsi dall’elemento essenziale, cioè la domanda sul senso dell’essere, rendono lo stesso pensare prossimo alla fine. Ancora una volta la fine della filosofia è il termine ultimo con cui il pensiero deve confrontarsi. «Quella che è stata la funzione della filosofia fino ad oggi è stata ereditata dalle scienze […]. La filosofia si dissolve in singole scienze: la psicologia, la logica, la politologia», [47] la cui unificazione «sotto nuova forma si profila nella cibernetica», [48] un fenomeno non accidentale ma destinale, in quanto esso stesso iscritto nella storia della filosofia e nella sua fine. Indicativo, o forse scoraggiante per i filosofi di oggi, che il pensiero a venire, secondo Heidegger, non sia più la filosofia: «È tempo di disabituarsi a sopravvalutare la filosofia e quindi chiederle troppo. Nell’attuale situazione di necessità del mondo è necessaria meno filosofia e più attenzione al pensiero, meno letteratura e più cura della lettera delle parole […]. Il pensiero a venire non è più filosofia, perché esso pensa in modo più originario della metafisica, termine che indica la stessa identica cosa. Ma il pensiero a venire non può neppure più, come pretendeva Hegel, abbandonare il nome di “amore della sapienza“ e divenire la sapienza stessa nella forma del sapere assoluto. Il pensiero sta scendendo nella povertà della sua essenza provvisoria». [49]

L’attendere l’attesa si fa un rimanere sulla soglia, in cui, un’autocomprensione critica della finitezza dell’uomo e delle sue facoltà può rendere manifesto ciò che è latente nell’essenza stessa del pensare, cioè che «la ragione glorificata da secoli è la più accanita nemica del pensiero». [50]

Scrive Heidegger: «Il tempo è povero non soltanto perché Dio è morto, ma perché […] la morte si ritrae dell’enigmatico. Il mistero del dolore resta velato. Non si impara ad amare […]. Povera è questa povertà stessa perché dilegua la regione essenziale in cui dolore, morte e amore si raccolgono». [51] Quel tempo è ora lontano. Ciò che è rimasto all’uomo è la possibilità dell’attesa di un Dio che possa modificare lo stato presente delle cose, salvando l’uomo dal baratro in cui è sprofondato. Sulla china del baratro sta la tecnica e la sua sopraffazione sulla capacità dell’uomo di saperla utilizzare; l’impianto della tecnica è ciò che reclama la spoliazione dell’uomo: «Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra […]. Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto. Tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la Terra quella su cui oggi l’uomo vive». [52]

In questa situazione di sradicamento e di smarrimento, l’uomo può solo continuare ad attendere e disporsi ad una apertura verso l’attesa. Ciò non significa «aspettare finché all’uomo in trecento anni non venga in mente qualcosa, bensì di pensare a partire dai tratti non ancora pensati dell’età attuale verso il tempo futuro senza pretese profetiche». [53] Pensare, quindi, a partire dalle medesime domande che hanno posto in essere il pensare; pensare a partire dalla medesima provenienza e destinazione. Heidegger è molto chiaro a tal riguardo: non occorre assumere il buddismo zen o esperienze orientali del mondo. Occorre piuttosto ricondurre il pensiero dinanzi alla sua cosa — l’uomo e la sua costitutiva finitezza.

Forse, allora, l’attesa non svuota il senso dell’attendere, non consuma il senso del fare filosofia, né tradisce il compimento della promessa evangelica, bensì invera questi elementi avvicinando l’ambito escatologico della promessa al desiderio dell’uomo: la vita — oltre la morte, oltre l’orizzonte del tempo.


[1] H. G. Gadamer, La dimensione religiosa in Heidegger, trad. it. a cura di G. Moretti, in “Itinerari”, 1980, n. 3, pp. 11 e ss..

[2] Cfr. M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa (1920/1921), trad. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2003, p. 142 e s..

[3] Testimonianza di Heidegger riportata in H. Ott, Heidegger. Sentieri biografici, trad. it. a cura di F. Cassinari, Sugarco, Milano 1990, p. 56.

[4] Come ricorda Ott, la difficoltà da parte dei genitori di Heidegger di accettare un matrimonio del figlio con una donna di confessione diversa era evidente.

[5] Colloquio tra Elfride Heidegger e padre Krebs riportato dal diario di quest’ultimo in H. Ott, Heidegger. Sentieri biografici, cit., p. 99.

[6] Ivi, cit., p. 98. Come ricorda Ott, «è però decisivo che Heidegger non riuscisse più a trovarsi nella Chiesa cattolica, nel sistema del cattolicesimo, da lui sentito come vincolo extrafilosofico, ma si riconoscesse invece nel cristianesimo, cioè nella tradizione del Nuovo Testamento e forse di quella della Patristica, sebbene egli si astenga dal fare dichiarazioni più precise in merito» (Ibidem).

[7] M. Heidegger, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita (1910 – 1976), trad. it. a cura di N. Curcio, Il Melangolo, Genova 2005, p. 42.

[8] H. Ott, Heidegger. Sentieri biografici, cit., p. 51.

[9] M. Heidegger, Nietzsche (1946), trad. it a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 569.

[10] M. Heidegger, Filosofia e Cibernetica (1984), trad. it. a cura A. Fabris, ETS, Pisa 1988. p. 30 e s..

[11] Cfr. F. Brencio, Scritti su Heidegger, Aracne Editrice, Roma 2013.

[12] M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare (1985), trad. it. a cura di A. Marini, Guanda, Parma 1987 p. 136.

[13] M. Heidegger, «L’epoca dell’immagine del mondo», in Sentieri Interrotti (1950), trad. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 73.

[14] Ivi, p. 73.

[15] Ivi, p. 72.

[16] M. Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, Klostermann Verlag, F. am Main 2007, p. 211.

[17] M. Heidegger, «Fenomenologia e teologia», in Segnavia (1961), trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 18.

[18] M. Heidegger, Introduzione alla metafisica (1935), trad. it. a cura di G. Masi, Mursia, Milano 1967, p. 19. [19] M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, cit., p. 11.

[20] C. Angelino, Il religioso nel pensiero di Martin Heidegger, in M. Heidegger, L’abbandono (1959), trad. it. a cura di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 1989, p. 14.

[21] M. Heidegger, «Einleitung in die Phänomenologie der Religion», in Id., Phänomenologie des religiösen Lebens, Gesamtausgabe 60, Klostermann, Frankfurt a. M. 1995, pp. 1-156. Gli editori, Matthias Jung e Thomas Regehly, nonostante le accurate ricerche compiute, non hanno rinvenuto il manoscritto di questo corso. Il testo pubblicato è frutto della collazione di alcune trascrizioni stenografiche da parte degli uditori. L’opera è stata tradotta in italiano da G. Gurisatti per Adelphi: M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2003.

[22] Ivi, p. 90.

[23] M. Heidegger, «Agostinus und der Neuplatonismus», in Id., Phänomenologie des religiösen Lebens, Gesamtausgabe 60, Klostermann, Frankfurt a. M. 1995, p. 292.

[24] M. Heidegger, «Einleitung in die Phänomenologie der Religion», cit., p. 104.

[25] Prima della pubblicazione dei corsi friburghesi del semestre invernale 1920/21 su Paolo e il cristianesimo primitivo, Otto Pöggeler si sofferma sull’accentuazione heideggeriana di storicità e attualità dell’esperienza di vita dei primi cristiani: «Secondo Heidegger [...] l’esperienza di vita protocristiana è un’esperienza reale e storica, un’esperienza della vita nella sua attualità, proprio perché essa vede nel senso del compimento, non nel senso del contenuto, la struttura dominante della vita. [...] Attraverso la riflessione sulla religiosità protocristiana come modello dell’esperienza reale della vita, Heidegger si impadronisce di quei concetti-chiave che pongono in luce la struttura della vita reale, o come dirà Heidegger più tardi, della ‘esistenza reale’» (O. Pöggeler, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, trad. it. di G. Varnier, Guida, Napoli 1991, pp. 41-42). Per Thomas Sheehan, Heidegger analizza il fenomeno del cristianesimo delle origini con l’intento di rinvenire quella temporalità originaria e autentica che è al centro di Sein und Zeit; lo scopo di Heidegger sarebbe, quindi, «l’elaborazione del significato di temporalità dell’escatologia di San Paolo. [...] La tesi fondamentale di Heidegger è la seguente: l’autentica relazione cristiana con la Parousía fondamentale non è l’attesa di un evento futuro. [...] Riferirsi autenticamente alla Parousía significa «vegliare», non il mero aspettare con ansia un evento futuro. Il problema del «quando» della Parousía si riduce alla questione del «come» della vita, e cioè wachsam sein, all’essere svegli. [...] Il significato della fattività è la temporalità, e il significato della temporalità è determinato nella relazione individuale con Dio. [...] La vita religiosa cristiana non è nient’altro che il vivere all’interno di questa unica temporalità» (T. Sheehan, «Heidegger e il suo corso sulla Fenomenologia della religione (1920-21)», in “Filosofia”, XXXI 3, 1980, pp. 443-444). Per Karl Lehmann, Heidegger vuole separare il contenuto della temporalità del cristianesimo delle origini dalla forma della temporalità escatologica: «Il kairós non è solo una ‘possibilità’, ma è sentito come una costante ‘minaccia’. [...] Se la riflessione filosofica include il kairós e l’‘essere’ ad esso collegato nella storia dell’attuazione [Vollzugsgeschichte] della vita umana, allora si presenta il pericolo che i momenti costitutivi di una simile esperienza vengano negati proprio nella loro diversità e ridotti alle usuali strutture soggettive ed immanenti» (K. Lehmann, Christliche Geschichtserfahrung und ontologische Frage beim jungen Heidegger, p. 146). Sul rapporto tra la critica mossa da Heidegger alla soggettività metafisica e la temporalità cairologica del protocristianesimo cfr. D. Thomä, Die Zeit des Selbst und die Zeit danach. Zur Kritik der Textgeschichte Martin Heideggers 1910-1976, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1990, pp. 153-161. Sull’interpretazione heideggeriana della temporalità cairologica nel cristianesimo primitivo cfr. U. Regina, L’esistenza cairologica, in Servire l’essere con Heidegger, Morcelliana, Brescia 1995; J. Greisch, L’arbre de vie et l’arbre du savoir. Le chemin phénomenologique de l’herméneutique heideggérienne (1919-1923), Les Éditions du Cerf, Paris 2000, pp. 185-218; A. Ardovino, Heidegger. Esistenza ed effettività. Dall’ermeneutica dell’effettività all’analitica esistenziale (1919-1927), Guerini, Milano 1998, pp. 85-112.

[26] Su questo tema rimando a S. Gorgone, Il tempo che viene. Martin Heidegger. Dal kairós all’Ereignis, Guida, Napoli 2005.

[27] M. Heidegger, «Einleitung in die Phänomenologie der Religion», cit., p. 80.

[28] B. Casper, «L’esistenziale della tentatio», in AA. VV., Heidegger e San Paolo. Interpretazione fenomenologica dell’Epistolario paolino, a cura di A. Molinaro, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2008, p. 34.

[29] M. Heidegger, «Einleitung in die Phänomenologie der Religion», cit., p. 94.

[30] Ivi, p. 97.

[31] Ivi, p. 99.

[32] Ivi, p. 105.

[33] Ivi, p. 94.

[34] Il tema della Not ritorna in vari luoghi delle opere di Heidegger, soprattutto nei Beiträge e nei corsi degli anni ’30 e ’40, ma raggiunge la sua più radicale formulazione in uno scritto della metà degli anni ’40 (Die seinsgeschichtliche Bestimmung des Nihilismus). Cfr. M. Heidegger, «Die seinsgeschichtliche Bestimmung des Nihilismus (1944-1946)», in Nietzsche, Neske, Pfüllingen 1961.

[35] M. Heidegger, «Einleitung in die Phänomenologie der Religion», cit., pp. 99-100.

[36] Ivi, p. 103.

[37] Ivi, p. 108.

[38] Ivi, p. 118.

[39] Ivi, p. 119.

[40] Ivi, pp. 119-120.

[41] Ivi, p. 70.

[42] Ivi, p. 71.

[43] Ivi, pp. 73-74.

[44] M. Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo (1957), trad. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2002, p. 113 e s..

[45] Ivi, p. 292.

[46] M. Heidegger, Che cos’è la filosofia? (1955), trad. it. a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1981, p. 45.

[47] M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit., p. 139 e s..

[48] M. Heidegger, Filosofia e cibernetica, cit., p. 33.

[49] Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 314 e s. Sul tema della fine della filosofia, Cfr. P. De Vitiis, Heidegger e la fine della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1974.

[50] M. Heidegger, «La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”», in Sentieri interrotti, cit., p. 246.

[51] M. Heidegger, «Perché i poeti?» in Sentieri interrotti, cit., p. 252 e s..

[52] M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit., p. 134 e s..

[53] Ivi, p. 144.

Marrtin Heidegger, 1966, “Der Spiegel”

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